Il principe delle Arene Candide

Un estratto del romanzo di Massimo Granchi

 

PROLOGO

 

Nonna Carmela mi manca molto; mi mancano le nenie che cantava con un filo di voce, la luce che rischiarava le sue iridi quando era felice. Sferruzzava veloce per fare scialli e calze di lana multicolori che indossavo solo io. Era una giocoliera esperta e consapevole di affetto e parole.
Gli ultimi anni in cui ha vissuto con noi, nell’appartamento all’ultimo piano del palazzo in Viale Poetto a Cagliari, sono stati i più belli della mia infanzia. Se dovessi associare un colore a quella fase della mia vita penserei all’azzurro, come i suoi occhi e le caramelle all’anice che teneva nelle tasche. Era stata dura per mia madre convincerla a lasciare la casa di Muravera che poi abbiamo usato a lungo per le vacanze estive. Era piccola, luminosa e accogliente come Carmela e lei non l’avrebbe lasciata se non fosse stato per il bene di noi nipoti. Mamma era spesso assente per lavoro e babbo mancava per settimane. Tutto ruotava intorno alla solerte tata Ninnina, arrivata da Uta, che accudiva me e mio fratello Luca con laboriosità primitiva. L’arrivo di nonna risolse molte tensioni e accorciò lunghe giornate di silenzi in cui io e mio fratello ci trovavamo a giocare da soli. Dunque acconsentì, non senza farci percepire lo sforzo che aveva dovuto compiere, ma io pensavo fosse qualcosa di positivo, l’espressione del sacrificio per amore.
Mio padre partiva senza darci il tempo di capire perché e noi ci eravamo abituati in fretta. Pensavamo si trattasse di senso di responsabilità, che fosse normale, che tutti i lavori allontanassero gli adulti dalla famiglia e che si ricevessero soldi in cambio di assenza.
Io e Luca ci accorgevamo che era uscito per non tornare perché la sua borsa nera di pelle spariva. La lasciava sulla sedia dell’ingresso 10 11 solo se dormiva a casa. La cercava per recuperare il telefono o riporre l’agenda gonfia di biglietti da visita e annotazioni. Noi restavamo nelle vicinanze per non perdere l’occasione di ricevere lo stesso trasporto che provava per gli oggetti del suo mestiere. Il lavoro era tutto per lui. Condizionava la sua vita, le sue scelte e noi.
Ricordo che spesso camminava a passi larghi che coprivano il pavimento lucidato da Ninnina. Lei lo rimproverava in sardo di sporcarlo e gli intimava di infilarsi le ciabatte. Lui rideva, le strizzava l’occhio e toglieva le scarpe. Le lasciava in un angolo, si dirigeva verso l’armadio a muro dove recuperava le pattine e le calzava. Si girava ancora verso la domestica e le tirava un bacio. Era divertente e mi faceva ridere. Lo osservavo da un cantuccio della sala grande che aveva un’ampia porta-finestra spalancata sul terrazzo. Il colore di quei momenti era un blu intenso, con alternanze di rosso scuro.
Aveva cambiato atteggiamento da quando Carmela si era unita a noi.
«Gliela faccio pagare cara a quello!», borbottava la nonna, dondolando con passo claudicante e rimuginando qualcosa rimasto in sospeso tra loro. Ha sempre fatto in questo modo. Non gliene passava una e lui sapeva comportarsi a modo in sua presenza, anche se non perdeva l’ironia o il gusto di sfuggirle per farla adirare.
Ogni istante diventava unico se c’era mio padre accanto, come allacciarmi le scarpe, soprattutto se mi contemplava in silenzio e approvava i miei gesti, la precisione avvalorata dalla velocità del gesto. Mi mancava l’impulso di saltargli in braccio come faceva Luca. Lui era più grande e più coraggioso. Si intendevano. Io rimanevo a guardare le lotte che facevano sul divano, con il cuore che andava su e giù. Mio padre si ricordava di me molto tardi. Mi allungava il braccio, mi invitava a raggiungerlo e a montargli addosso, mentre mio fratello gli stringeva il collo, appeso alle sue spalle, ma io non riuscivo. Ero imbarazzato. Sorridevo e scuotevo la testa reagendo al mio istinto di perdere il controllo. Temevo di non essere all’altezza della situazione, avevo terrore di rimanere soverchiato dalla prestanza dei due lottatori. “Come si assomigliano”, pensavo e mi sentivo geloso di quella vicinanza fisica che contribuiva a inibirmi. Quando rientrava mia madre, le correvo incontro. Mi baciava sulla fronte e mi chiedeva come fosse andata la giornata a scuola.
«Tutto bene», le dicevo, distratto da altre impellenze.
«Bravo», mi rispondeva e mi scompigliava i capelli.
Si dirigeva in cucina dopo aver dedicato un’occhiata compiacente agli uomini che si azzuffavano in salotto. La seguivo con lo sguardo a breve distanza, pensando che avrei voluto trovarmi in mezzo a mio padre e mio fratello. L’eccitazione cresceva se sentivo i versi di stanchezza di Luca, che opponeva resistenza fino ad arrendersi in maniera graduale. Il duello terminava quando il telefono di mio padre squillava.
Correvo da mio fratello, rimasto sdraiato paonazzo e soddisfatto sul tappeto. Nostro padre ci chiedeva di fare silenzio e riprendeva le sue interminabili chiacchierate. Ero infastidito dai suoi interlocutori telefonici segreti. Distoglievano l’attenzione da ciò che avrebbe potuto riguardare noi, ma mi ero assuefatto anche a questo.
Nonna Carmela, invece, sapeva prendermi per il verso giusto e niente aveva la precedenza su noi bambini. Ha sempre avuto una parola di conforto per me. Se mi vedeva triste, si frugava in tasca o nel borsellino, pescava una moneta e me la porgeva.
«Un soldo per un sorriso alla nonna?», mi chiedeva e io accettavo il baratto. Mi preparava Moddizzosu e formaggio fresco o pardulas per merenda. Quando ero alla scuola elementare, mi assisteva nei compiti a casa.
Aveva studiato contabilità in un istituto professionale femminile, anche se avrebbe potuto avere un buon rendimento in qualsiasi liceo. Conosceva il francese. Aveva aiutato il padre, Santo Pitzalis, nell’azienda di ceramiche fino alla sua morte, e aveva deciso di vendere per oziare. Così ci aveva detto, ma non era mai riuscita a stare ferma. Nemmeno dopo il matrimonio con nonno Ippolito Melis, che l’aveva portata in giro per l’Italia a causa del lavoro. Anche quando non mi stava accanto per accudirmi, mi vegliava con occhiate guardinghe e orecchie tese.
Morì un pomeriggio di novembre, quando le ultime foglie resistevano strette ai rami degli alberi del viale. Le auto non circolavano forse in segno di rispetto, il cielo e l’aria erano grevi sulla Sella del Diavolo. Il grigiore aveva invaso l’appartamento, ma la camera dove riposava sembrava ammantata di Sole, l’ultimo della giornata che sfuggiva alle nuvole per tinteggiare le lenzuola, mentre lei sfuggiva alla morsa dell’esistenza.
Mio padre era rientrato da Napoli, dove andava spesso per lavoro. Mia madre aveva saltato il suo corso in palestra. Ninnina rimestava in cucina. Di tanto in tanto passava in corridoio con l’espressione contrita e qualcosa stretta tra le mani: la biancheria, i piatti o le scarpe da atletica di Luca. Mio fratello stava immobile di fronte alla finestra aperta, osservava fuori e singhiozzava.
La nostra casa era molto in alto, in cima a un palazzo costruito alla fine degli anni Settanta. Dal balcone abbellito con ampie fioriere, si vedeva e si sentiva il mare che si rifrangeva contro i pietroni del porto di Marina Piccola. I miei compagni di classe erano attratti dal panorama e dai profumi che si respiravano. Preferivano venire a giocare da me piuttosto che andare da Massimiliano, il figlio del gelataio che regalava coni a tutti per corromperli, e questo fatto mi aveva sempre reso orgoglioso.
Poco prima di morire, nonna Carmela mi aveva chiamato a sé. Io mi ero seduto al suo fianco sul materasso morbido che lei aveva riempito con lana di pecora e portato da Muravera. Mi aveva fissato a lungo con i suoi grandi occhi, rimestando nella mente per scovare le ultime parole da pronunciare, perché sapeva che le avrei ricordate per sempre.
La pelle bianca tirata sui suoi lineamenti sembrava quella di una vecchia bambina. I capelli sciolti sul cuscino disegnavano intrecci d’argento. Aveva parlato e mi aveva detto: «Abbi fede. Andrà tutto bene. Qualsiasi cosa succeda, tu sarai sempre mio nipote.»
Io, allora, non capii e la lasciai andare senza intuire il senso nascosto in quelle parole.


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