La cella di Gaudí presentato a Isili

da: L'Unione Sarda
L’Unione Sarda
29 novembre 2012

 

Il carcere dei destini incrociati e la libertà di raccontare.

Dodici scrittori danno voce a dodici detenuti

 

“Nella colonia penale” è uno dei racconti più belli e atroci di Kafka. Al centro c’è un crudele sistema di rieducazione del reo: per fargli percepire appieno il valore della norma che ha violato, un sistema di aghi gli incide addosso sempre più in profondità il testo della legge infranta. Fino al momento supremo, quando “anche ai più ottusi si schiude l’intelligenza”, e a quel punto muoiono. Il testo appena mandato in libreria da Arkadia è un po’ l’operazione inversa – senza voler far arrossire nessuno con paragoni al genio inimitabile del praghese – perché “La cella di Gaudí” (190 pagine, 16 euro) è un’antologia di racconti che arrivano dalla colonia penale, e non sono dedicati alla legge che i suoi ospiti hanno infranto, ma alle loro vite, sulle quali il codice si è dolorosamente impresso attraverso la detenzione. La colonia in questione è quella di Isili, ed è lì che ieri mattina il libro è stato presentato dall’editore Riccardo Mostallino, dal direttore della struttura Marco Porcu, dallo scrittore Marcello Fois – che firma la prefazione – e dai ventiquattro autori dei dodici racconti. La proporzione doppia si spiega facilmente: ogni storia è stata narrata dal detenuto che l’ha vissuta a uno scrittore, che l’ha messa su carta. «Io sono stata penna e inchiostro – ha detto Savina Dolores Massa, che ha firmato il racconto “L’uomo che non sapeva dare un nome ai fiori” dopo averlo raccolto da Farhat Amor – e lui voce e vento». È il riassunto, romantico e stringato, di un’operazione letteraria apprezzata anche da Giovanni Tamburino, capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che ieri mattina era a Isili fra detenuti, scrittori e detenuti-scrittori e ha sorpreso chi ha ancora un’idea borbonica dell’alta burocrazia carceraria citando Danilo Dolci e soprattutto Martin Buber, il filosofo ebreo «al quale dobbiamo la grande idea irrinunciabile del “dover essere qualcosa per qualcuno”: è l’essenza del concetto di relazione, e quella che ha creato questo libro è una rete di relazioni, umane e letterarie ». Una rete molto ampia, intrecciata di tessuti profondamente diverse. intanto perché, come spiegava il direttore Porcu, sono trenta le nazionalità censite fra gli ospiti della colonia. E poi perché sono inevitabilmente differenti fra loro le storie, le voci e gli stili che le raccontano, le ragioni che hanno portato a respirare la stessa aria dodici persone, ciascuna delle quali fino al momento della reclusione ignorava l’esistenza delle altre undici, in un gioco di sliding doors che per percorsi lontani e tortuosi ha sempre portato ai cancelli di Isili. Conclusione identica per tutti e dodici i sentieri, o per meglio sperare identico punto di ripartenza. Dei dodici autori tre sono giornalisti, due dell’Unione Sarda (Anthony Muroni e Pietro Picciau) e uno di Sardegna Uno (Gianni Zanata). Poi ci sono un ingegnere (ClaudiaMusio), un magistrato (Michela Capone) e scrittori per professione o per prevalente passione come Nicolò Migheli, Paolo Maccioni, Savina Dolores Massa, Michele Pio Ledda, Fabrizio Fenu, Giampaolo Cassitta e Salvatore Bandinu. Per alcuni mesi e per alcune pagine hanno militato in quell’esercito di cui parlava ieri mattina Marcello Fois, quella legione tutt’altro che straniera di donne e uomini che «costituiscono la segreta meraviglia di questo Paese, e silenziosamente fanno funzionare nonostante tutto e tutti le carceri, le scuole, gli ospedali, i tribunali. Gente di buona volontà». Di sicuro penne disinteressate se non al gusto del racconto, visto che i diritti d’autore saranno devoluti a familiari di detenuti che versano in condizioni di difficoltà. E non si pensi a un tocco edificante per candeggiare un’operazione furba: in un periodo in cui “il sociale” – così come “l’identitario” – può fruttare contributi e sostegni, la casa editrice non beneficerà di alcun supporto, assumendosi in pieno quello che un tempo, quando non erano i contribuenti a caricarsi sulle spalle le sbandate del mercato, si chiamava rischio d’impresa. E l’impresa, in definitiva, sta nel trasformare una colonia agricola ministeriale in un castello di destini incrociati, dove dodici voci sussurrano, urlano o cantano storie di gente nata in uno spicchio sbagliato di mondo, o scivolata sul lato buio del codice. «Se il pianto di un bambino ferisce, le lacrime di un vecchio corrodono». «Piero Pelù è un mito. Io ascolto le sue canzoni e ascolto le sue parole». «La Bulgaria si sgretolava e io avevo appena concluso l’università (…) Così arrivarono quelli che con la democrazia ci convivevano da sempre e ci proposero un affare». «A Giovanni era toccato il carcere di Stein. E lì venne condotto col mezzo verde che i detenuti austriaci chiamano grüne Krokodil, perché è di colore verde e perché come il coccodrillo ti mangia e poi ti sputa».

«Poi, una sera di maggio, tutto il mondo gli crolla addosso e finalmente, quasi come una liberazione, tutto arriva a una fine». «Da noi la birra si beve, ma non in pubblico. E con questi amici ci diciamo: “Andiamo in Italia!”, come una sfida». «Spesso sono le zanzare a rubargli il sonno». «Signor Gonzales? – Sì? – C’è un problema con il suo passaporto. È solo questione di un attimo. Si aprì una porta». «Sono e sono stato il mio peggior nemico». «Per il mondo, sono morto da bambino nei boschi dell’Afghanistan. Io, in realtà, non esisto». «Impiegai settimane a mettere in piedi la banda. Tre li trovai in Portogallo, altri tre in Spagna, gli altri in Italia. Tutta gente fidata». «Io, prima di stare qui, pensavo questo: chi sta in carcere è colpevole, e chi sta fuori è innocente».

(Celestinto Tabasso)


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