“La traversata del deserto” e “Lunga è la notte” su L’Altra Tunisia

Marinette Pendola: Sono Stata Sradicata Dalla Tunisia E Nei Miei Romanzi Racconto Queste Storie Minori

Marinette Pendola è nata e cresciuta in Tunisia, Paese che ha dovuto abbandonare dopo l’indipendenza. Fa parte dei cosiddetti «italiani di Tunisia», una comunità che soprattutto a partire dall’Ottocento si insediò nel Paese nordafricano, impregnando la cultura locale pur mantenendo le sue specificità.

È una storia sconosciuta ai più, quella degli «italiani di Tunisia», comunità che inizia ad insediarsi nel Paese nordafricano in modo stabile dalla fine dell’Ottocento. Né colonizzati né colonizzatori, questa comunità, perlopiù siciliana, è riuscita a integrarsi nel tessuto locale pur mantenendo una propria specificità. Dopo l’indipendenza della Tunisia nel 1956 e il processo di nazionalizzazione ed espropriazione delle terre, la maggior parte decise di emigrare, optando per l’Italia o la Francia. La famiglia di Marinette Pendola rientra tra chi scelse l’Italia. E lei ha deciso di raccontare questo sradicamento da quella che era la sua terra nei suoi romanzi: per non dimenticare questa parte della Storia italiana.

Quando l’emigrazione irregolare avveniva da Italia a Tunisia

«I miei bisnonni materni emigrarono in Tunisia nel 1897, in seguito alla crisi del grano: il bisnonno era fornaio, aveva dei parenti emigrati in America, ma scelse la Tunisia per una vicinanza geografica. I bisnonni paterni arrivano nel 1900: il bisnonno aveva assistito a un delitto di mafia, e aveva paura lo avessero riconosciuto come testimone, perciò il giorno stesso si recò al porto di Sciacca chiedendo a un pescatore se potesse portare lui e la sua famiglia in Tunisia. Anche allora si partiva da irregolari, anche se a portare le barche erano i pescatori, poichè profondi conoscitori del mare. Il costo del viaggio veniva pagato con i risparmi accumulati: non si avevano i mezzi per andare a Palermo e fare il passaporto. Nel mio primo romanzo ‘L’erba del vento’, quando racconto del viaggio di Angela, è il racconto di ciò che hanno vissuto i miei nonni paterni. I miei nonni sono arrivati in Tunisia da bambini, alcuni dei loro fratelli sono nati in Tunisia.

I miei nonni all’arrivo vivevano a Bir Halima, poi mio nonno paterno comprò un podere a Moghrane e un altro a Oued-el-Khadra, a pochi km dal primo, dove vivevamo. Mio nonno paterno aveva un forte spirito imprenditoriale: iniziò a lavorare come mezzadro in una compagnia francese a Draa-ben-Jouder, molti siciliani lavoravano la terra, ma man mano se ne sono andati. La mia famiglia gestiva 300 ettari: la produzione del grano era redditizia, così nel 1942 comprarono due aziende agricole, una delle quali venne data in gestione a mio padre, che era il secondogenito. In generale, nella comunità italiana in Tunisia, il legame con l’Italia si era perso; nella mia famiglia mia madre aveva un legame più forte in quanto suo fratello e sua sorella vi abitavano, rispettivamente a Lodi e Verona. A casa parlavamo il siculo – tunisino (il dialetto siciliano con introduzione di elementi in tunisino, ndr), mentre all’esterno il francese. In genere le famiglie della generazione dei miei genitori parlavano francese a casa con i propri figli, ma mia madre si rifiutò: un modo per far sì che la lingua non si perdesse, e che potessimo comunicare con i nonni».

I fatti di Bizerta e l’emigrazione verso l’Italia, considerati profughi

«A cinque anni iniziai il ‘cours preparatoire’ in una scuola di campagna: in mezzo a bambini siculi, la maestra sapeva che avrebbe dovuto fare uno sforzo maggiore. Anche se, a dire il vero, ho fatto molta più fatica a 13 anni, quando siamo arrivati in Italia, con la lingua italiana. Fino al 1961 frequentavo un internat mixte a Zaghouan, si stava lì tutta la settimana, si studiava e dormiva lì. Quando ci furono i fatti di Bizerta (scontri tra Francia e Tunisia in cui la Francia ritirò le ultime forze dal territorio tunisino, ndr) la scuola disse che non avrebbe più riaperto. Le alternative erano due: o mandarmi in un collegio a Tunisi, o lasciare la Tunisia. I miei genitori, pensando al nostro futuro, decisero di emigrare. Mia madre voleva andare in Francia, ma mio padre si rifiutò: «Meglio morire di fame, ma a casa mia», disse. Arrivammo a Napoli, e poi ci mandarono in un centro profughi. Eravamo considerati profughi in quello che, almeno sulla carta, era il nostro Paese: eppure eravamo cittadini italiani. Erano vecchie caserme o campi di concentramento abbandonati e ripristinati per questo uso, dove saremmo potuti rimanere per tutto il tempo necessario. Noi fummo mandati ad Alatri (Frosinone), arrivammo a febbraio del 1962. Nemmeno un mese dopo mio padre partì alla ricerca di una casa e di un lavoro: l’idea era di andare a Milano, ma passò prima a Bologna dalla sorella maggiore. Alla fine si fermò a Bologna, città dove sono cresciuta e dove vivo tuttora.

L’adattamento fu molto difficile per me: il sistema scolastico era completamente diverso, anche l’impatto con i compagni di scuola non fu semplice. Erano nuove dinamiche, meccanismi di relazione da mettere in pratica, che mi apparivano diversissime da quelle da cui provenivo. Mi fecero un piccolo esame e mi inserirono in seconda media, una classe sperimentale, dove a loro avviso sarei stata seguita con più attenzione, e così fu. L’italiano l’ho dovuto imparare da zero, con tutto il vissuto psicologico che mi portavo dietro: era una forma di violenza che sentivo di subire. Non avevo un approccio positivo nei confronti di questa lingua, ci ho impiegato anni per amarla davvero e sentirla mia. Il primo tema lo scrissi in francese e poi lo tradussi in italiano: fu un vero disastro. Dopo le medie, frequentai il liceo linguistico, dove studiai inglese come prima lingua, poi tedesco e spagnolo. Mi iscrissi all’Università di lingue, con specializzazione sul francese, e andai a fare il dottorato a Nanterre. E fu proprio in quel periodo che riscoprii la lingua italiana».

«Prima il rapporto con la lingua italiana era di sofferenza, fatica, sopportazione, forse perché sia al liceo che all’università non andavo molto bene in quell’ambito, anche quando si studiavano gli autori classici io non capivo niente: ero abituata a primeggiare nelle materie umanistiche, ma avevo delle lacune in italiano. In quel periodo, per il mio dottorato, mi recavo tutti i giorni alla biblioteca nazionale per effettuare le mie ricerche. Un giorno, mentre stavo uscendo, dirigendomi verso l’atrio, uno spazio con due poltrone dove ci si poteva sedere e chiacchierare, sento due persone parlare una lingua meravigliosa: non me ne sono resa conto subito, ma stavano parlando in italiano. Da quel momento, giorno dopo giorno, il mio amore per la lingua italiana si è fatto strada. Poi ho cominciato a insegnare francese, prima agli adulti lavoratori, nelle medie e infine nelle scuole superiori. L’insegnamento ha fatto parte della mia vita per trent’anni: era la mia vocazione».

Il ritorno in Tunisia, dieci anni dopo

«Non ho mai pensato di ritornare a vivere in Tunisia. Mio marito, come me, è nato a Tunisi e poi ritornato in Italia con la famiglia, abbiamo lo stesso percorso di vita. Come viaggio di nozze, nel 1972, abbiamo scelto di ritornare proprio in Tunisia: lì abbiamo ritrovato i luoghi della nostra infanzia. Siamo andati a Oued-el-Khadra, nella mia casa di campagna. La contadina, berbera, mi ha riconosciuto e mi ha detto: «Lo sapevo che saresti stata la prima della tua famiglia a tornare». Per lei, che cito nei miei romanzi, noi eravamo i primi «rumi», europei, con cui era entrata in contatto: nonostante la colonizzazione, lei aveva sempre vissuto tra le montagne. Tornare in Tunisia all’inizio è stato uno straniamento: mentre i ricordi rimangono fissi, nella realtà le cose cambiano. Ma è stata anche una riscoperta, di tutte le cose dimenticate: i colori, gli odori, i sapori, i gesti tipici che facevano mia madre e le mie zie. Il sabato sapevo che solitamente era giorno di mercato a El Fahs, così ci andammo: sentivo attorno a me tutti i contadini che dicevano «Guarda, c’è la figlia di Mariano». Lì è stato qualcosa di straziante per me, ho capito che era quello il mio posto, dove tutti mi conoscevano, nonostante io non conoscessi loro, perché avevano conosciuto mio padre.

La nascita del primo romanzo, «La riva lontana»

«Mentre stavo facendo il dottorato, immersa nella cultura e nella lingua francese, una sera ho cominciato a scrivere, in italiano: sarebbe diventato l’incipit de «La riva lontana». In quel periodo facevo psicoterapia perché soffrivo di emicranie allucinanti, che nessun medicinale era riuscito a risolvere. Mi sono passate quando ho cominciato a scrivere: credo che tutto quello che avevo in testa e che poi ho messo nei miei romanzi, avevo bisogno di esternarlo. È stato un percorso doloroso, ma positivo allo stesso tempo. «La riva lontana» l’ho finito di scrivere nel 1999, ma non pensavo di pubblicarlo: è stata mia figlia a dire che dovevo mandarlo a qualche casa editrice, perché era interessante. L’ho mandato alla casa editrice Sellerio: dopo otto mesi mi risposero che ne acquistavano i diritti e lo avrebbero pubblicato.

Dopo aver scritto questo romanzo, leggo ne «Il Corriere di Tunisi» un annuncio in cui chiedevano la partecipazione a un convegno agli italiani di Tunisia. Li contattai: ero interessata ad assistere, loro risposero che erano interessati a leggere il mio romanzo e mi invitavano a parlare attorno a questo tema. Il romanzo piacque molto e io feci un intervento che intitolai «Les mots de la memoire», «le parole della memoria»: avevo studiato linguistica all’università e cercai di articolare il mio intervento attorno ai prestiti linguistici. Da quel momento fui accolta nel gruppo di studiosi che si occupano di italiani in Tunisia. Per me fu una scoperta, non ne sapevo granché: lo avevo vissuto sulla mia pelle, ma non avevo mai storicizzato nulla. Per questo motivo volevo capire meglio».

Un popolo che non ha storie, non ha Storia

«Penso che un popolo che non ha storie, non ha la Storia, non esiste. Attraverso le storie minori, cerco di raccontare proprio questa Storia, degli italiani di Tunisia. Nel 2014 è uscito «La traversata del deserto» (Arkadia editore): la prima presentazione fu a Tunisi. Nel 2020 invece «Lunga è la notte», che apparentemente non ha a che fare con lo sradicamento, ma racconta anche esso una storia della comunità. E una comunità è tale, è viva, perchè ha delle storie. Ora sto lavorando a un romanzo per me molto impegnativo, riguardante la mia famiglia materna, costruito attorno al vuoto che c’è stato dal 1943 al 1945, anni in cui non avemmo più notizie di mio zio militare: si pensava fosse morto, invece poi è ritornato, ma non ha mai raccontato cosa ha fatto in questi due anni.

La Tunisia, un legame che continua

«In Tunisia, a partire dal 1980, con mio marito sono tornata d’estate, viaggiando con una coppia di amici, facendo campeggio libero. Per dieci anni abbiamo fatto così, girandola da nord a sud, scegliendo ogni volta itinerari diversi. Abbiamo davvero scoperto il Paese: quando ci vivi, hai le tue abitudini, raramente ci si sposta».

Marinette Pendola (Tunisi, 1948), scrittrice, è studiosa della storia della collettività italiana di Tunisia. È membro del gruppo di ricerca “Progetto della memoria” promosso dall’Ambasciata Italiana di Tunisi, a cui ha contribuito con numerosi lavori su alcuni temi come la lingua, l’alimentazione, il lavoro dei contadini siciliani, la letteratura. Ha curato il volume “L’alimentazione degli italiani di Tunisia” (Tunisi, Edizioni Finzi, 2006) e ha pubblicato “Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo)” (Foligno, I Quaderni del Museo dell’Emigrazione, Foligno, Editoriale Umbra 2007). È autrice dei romanzi “La riva lontana” (Palermo, Sellerio, 2000), romanzo autobiografico che ripercorre un’infanzia tunisina nel periodo coloniale, “La traversata del deserto” (Cagliari, Arkadia, 2014), che rievoca il ritorno degli emigrati dalla Tunisia all’Italia, “L’erba di vento” (Cagliari, Arkadia, 2014), storia potente di una donna che non si sottomette alle convenzioni del suo tempo “Lunga è la notte” (Cagliari, Arkadia, 2020)

 

Giada Frana

 

Il link all’intervista su L’Altra Tunisia: https://bit.ly/3iujnkp


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