L’anno che Bartolo decise di morire

Il primo capitolo del romanzo di Valentina Di Cesare

L’anno che Bartolo decise di morire, nessuno si era accorto di niente. Parenti, amici e conoscenti non avevano sospettato nulla di quel che stava per accadere. Ogni cosa era uguale a sempre: l’estate era finita, l’azzurro del cielo si affievoliva e il sole di settembre aveva ripreso a tergiversare dietro gli alberi e le antenne della piccola città. Il vento a volte si alzava già rapido al mattino, muoveva le foglie e i rami con rumore di ventagli, e trasportava via le fronde delle piante sui balconi. Al primo accumulo di nubi, gli uccelli volavano bassi, come impauriti, sdrucendo l’orizzonte per mettersi al riparo sotto i tetti, mentre l’odore della pioggia si era già sprigionato e, in un momento, le prime gocce battevano sui vetri e le ringhiere stinte. 
Erano trascorse ormai tante mattine autunnali e Bartolo non si vedeva più passare. Anche quel giorno nessuno lo incrociò. A tutti sembrò una cosa insolita e qualcuno, sbirciando oltre la vetrata del bar, nel tentativo di scorgerlo mentre arrivava con il solito passo pacato, aveva espresso preoccupazione. L’orologio segnava già le sette e mezzo e, tra silenzi e supposizioni, il bar si era pian piano svuotato ché bisognava andare a lavoro. Chiunque avesse avuto notizie di Bartolo avrebbe fatto sapere, erano rimasti così. 
A metà mattinata l’edicolante Roberto era tornato di nuovo a domandare se qualcuno lo avesse visto. 
“Le persiane di casa sono chiuse e anche il cancello è sbarrato. Forse è partito”, aveva supposto, toccandosi il mento. 
«E per dove? Per l’America? Ce l’avrebbe detto! Queste cose all’improvviso lui non le fa!», ribatté Renzo da dietro il bancone e riprese con tono sicuro: «Secondo me ha preso la febbre, con tutta questa umidità, lo sappiamo che lui soffre di cervicale, con questa non si scherza e, anche se è giovane, fa danni. Vedrai, è solo malato.» E azionò la lavastoviglie che strideva di tazze e cucchiaini. 
«Sì, la febbre può essere, hai ragione. Si lamentava per i dolori alle ossa. Però al telefono non risponde da un po’! Non è staccato, suona e risuona. Ho provato già tre volte stamattina, ma niente», fece ancora Roberto, ma Renzo alzò le spalle, lui che ne sapeva? 
«Vedrai che è come ti dico io, non ti preoccupare. Ci vediamo dopo.» 
Roberto, tornando all’edicola, aveva ripreso a telefonare: sei squilli ancora e dall’altra parte la monotonia del silenzio. 
Che fosse autunno o primavera, che nevicasse o ci fosse il sole, Bartolo usciva di casa a piedi e molto presto, poco dopo le sette. Si fermava in edicola a prendere il giornale, poi passava al Bar dei Gerani per la colazione e il caffè. Lì, le chiacchiere con i soliti: il tempo che forse non avrebbe retto, i programmi del giorno, le bollette, le visite, i ricordi, i piccoli fatti della città. Dopo il caffè, Bartolo sfogliava il giornale, seduto al tavolino vicino alla vetrata e ogni mattina le notizie gli rivelavano realtà complesse, vicine e distanti, episodi talvolta crudeli, altre volte assurdi che, pur con tutti gli sforzi, non riusciva a figurarsi senza una soluzione. 
“Ci sarà un modo”, si diceva, “ci dev’essere per forza”. Alla fine pagava, salutava e se ne andava a lavorare ripensando a quel che aveva letto. A poche centinaia di metri dal Bar dei Gerani, c’era Palazzo Gentile, un’antica residenza nobiliare della città. Il piano terra era adibito a museo e pinacoteca, Bartolo ne era il custode da qualche anno. 
Tempo prima aveva lavorato in altre città, anche parecchio lontane dalla sua. Aveva fatto esperienza. Poi, un bel giorno, l’avevano rivisto tra loro. 
«Che ci sei tornato a fare qui, Bartolo?», gli domandava spesso Nino, l’anziano e accigliato maestro in pensione, suo vicino di casa. «Non cambia mai niente da queste parti, nonostante adesso qualcuno affermi il contrario con tutti questi computer e Internét. Ma se la fame e la guerra non hanno cambiato niente, figurati se ci riesce uno schermo intermittente che promette migliaia di informazioni. Senti a me, fai le valigie e vattene che tu sei ancora in tempo, sei sprecato qui, con la tua cultura, la tua intelligenza, il tuo animo profondo! E poi guarda là!», diceva indicando il monte, «la frana è da secoli in agguato, prima o poi tornerà giù e ingurgiterà i castagni, la torretta, il campanile, il corso e queste case vecchie dove abitiamo che, chissà come, ancora si tengono dritte e invece sono soltanto nidi pronti a essere infranti. Vattene, vattene, ascoltami, qui è un intervallo eterno, tu devi passare al secondo tempo!» 
Bartolo ascoltava ogni volta con il sorriso accennato sulle labbra e gli occhi sbadati su un punto fisso: la balaustrata, il cassonetto, il lampione. Ma no, lui restava, era andato via già molti anni prima e andarsene, a un certo punto, non significa più niente. 
«Nino, che tu sappia, quando toglieranno il doppio senso su questa strada? Avevo sentito dire che dopo l’estate sarebbe tornato tutto come prima, due macchine grattano il muro se si incontrano…» 
«Ma quale senso», rispondeva Nino, «tu cerchi ancora un senso, qui niente ha senso, fanno come gli pare, ci capisci qualcosa? Promettono, promettono, rotolano parole alla rinfusa, potrebbero dire sì e no alla stessa proposta con la stessa enfasi, ma loro non sanno, parlano solo perché possiedono l’apparato fonatorio. Ne dicono così tante… dicono che la città è piena di turisti! Non mi sembra di vedere tutti questi gitanti abbronzati… chi ci vuol venire qui? Sono tutte invenzioni, fantasie di ciarlatani, manca la consapevolezza del declino, facce toste ovunque e sorrisi come una banconota da duemila e cinquecento lire! I turisti? Ma quali turisti! E poi, perdonami, ma che vocabolo utilitaristico, che volgarità! Finti e di poco valore, vengono qui a fare che? A fotografare i ruderi? Sono belli, sono antichissimi, ma alla gente ora interessano gli aperitivi e le mete in inglese, basta che ci sia una Spa e tutti si fiondano. Qui non abbiamo resort, non ci viene nessuno se non per un giorno, qualche ora di passaggio giusto per trascorrere un po’ di tempo.» 
Bartolo era abituato ai monologhi del maestro, ma quella volta il vecchio sembrava infastidito. 
«E poi la vuoi sapere un’altra cosa?», continuò. «Ormai tutto costa troppo: la benzina, i biglietti dei treni e dei bus, e poi devi mangiare, non vuoi mangiare? Sono rimasti in pochi a potersi permettere il ristorante, caro mio, e quelli che vogliono andarci a forza, ovunque vadano si indebitano o spillano i nonni come serbatoi, ma la stanchezza si fa sentire, è finita la musica!» 
Una volta terminato, chiudeva piano piano l’uscio e si rintanava in casa, continuando a predicare a voce alta da solo, a se stesso, fino a scomparire nelle stanze più lontane. Quel giorno, il giorno in cui, dopo diversi giorni, dopo tanto tempo, Bartolo non si vide passare, qualcuno si azzardò persino a sfidare la sorte andando a bussare a casa del maestro Nino. Tutti sapevano che i due erano in confidenza e forse lui avrebbe saputo dire qualcosa riguardo quella strana scomparsa. Bussarono forte ma il maestro non aprì, l’occhio miope e inumidito sorvegliava gli avventori dal grosso spioncino e non gli piacquero affatto. 
«Andiamo maestro, lo sappiamo che è in casa! È una cosa seria, urgente! Si tratta di Bartolo, non lo troviamo più, forse lei è l’unico in grado di aiutarci!» 
Dall’altra parte dell’uscio, l’orecchio era volto a distinguere il minimo movimento al di là della soglia. Nino rimase ad ascoltare senza muoversi e senza rispondere ma quando furono sul punto di desistere, sentirono un tonfo. 


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