Il traduttore letterario fiorentino, da anni residente a Siviglia, presenta il suo romanzo ambientato tra Rifredi e Novoli. Una storia di lotta sociale e riflessione esistenziale nella periferia del capoluogo toscano
Davide Risatti, quarantenne disoccupato “metodico”, combatte la sua personale battaglia contro le ingiustizie in una Firenze lontana dai flussi turistici. È il protagonista de “L’imbattibile lentezza delle tartarughe” (Arkadia), il nuovo romanzo di Alessandro Gianetti, traduttore letterario fiorentino che da diversi anni vive e lavora a Siviglia.
Il libro, ambientato tra Rifredi e Novoli, racconta la storia di un uomo che si trova a oscillare tra due possibilità di fronte alla vita: combattere contro tutto quello che considera ingiusto oppure contemplare con distacco, come fa la natura rappresentata dalla tartaruga del titolo.
Alessandro, perché hai scelto di ambientare il romanzo proprio in quella zona di Firenze?
“La risposta è semplice: ci sono nato. In letteratura o scrivi di quello che conosci oppure ti inventi qualcosa proprio perché non la conosci. In questo caso mi interessava ambientarlo lì perché la storia mi è venuta in mente tempo fa – la prima stesura risale a sette anni fa, quando il tema del reddito di cittadinanza stava emergendo. Volevo raccontare di uno che ha delle abitudini fisse che vengono sconvolte da un piccolo cambiamento, e questo determina la trasformazione della sua concezione del mondo. Dal piccolo al grande.”
Che sfondo ti dà ambientarlo in quella zona semi-industriale?
“Mi serviva uno sfondo con un po’ di rivendicazioni sociali. Non lo potevo ambientare in Via del Corso. Quella zona, con il collegamento a Sesto Fiorentino dove ci sono sempre state vertenze importanti, mi dava l’ambientazione urbana e un po’ cruda che cercavo. È una Firenze di periferia, lontana dall’immagine stereotipata. È la Firenze che cambia, un’immagine viva della città.”
Il romanzo ha infatti un sottofondo politico che l’autore non nasconde, raccontando anche come sono cambiate nel tempo le vertenze sindacali e la lotta sociale.
Nel libro c’è il personaggio dell’Airaldi, sindacalista vicino alla pensione…
“Esatto, lui rappresenta l’ultimo sindacalista di quella stagione quando si facevano vertenze anche a oltranza, con l’appoggio massiccio della base dei lavoratori e quando si sentiva nella società un sostegno, non l’indifferenza di oggi. Il protagonista invece è più giovane, ha meno basi ideologiche e oscilla tra diverse visioni. Mi interessava questa trasformazione di Firenze, che è sempre stata una città con un passato di sinistra e una parte industriale con molte lotte sociali. Ora tutto è più appiattito, anestetizzato.”
E la tartaruga del titolo cosa rappresenta?
“È l’indifferenza della natura. Le due possibilità di fronte alla vita sono: combattere, lottare, impegnarsi, anche quando non si ha completamente ragione, oppure contemplare, distaccarsi dalle cose e imparare a non partecipare, come fa la natura. Cito sempre quel quadro di Pieter Bruegel il Vecchio, ‘Paesaggio con Caduta di Icaro’: Icaro cade in un angolo del quadro mentre tutto continua a scorrere uguale, con l’agricoltore che lavora indifferente. È la relativizzazione dei problemi dell’uomo. Ho sempre sentito la mancanza di una visione anche distaccata dalle cose. Mi sono sempre sentito un po’ in colpa perché volevo imparare a non vedere tutto in termini politici, secondo quella logica per cui uno è buono se è comunista, cattivo se non lo è. La tartaruga rappresenta il distacco, l’accettazione dell’inevitabilità delle cose, perché qualsiasi conquista dell’uomo è sempre temporanea e contraddittoria. Ma senza combattere l’uomo non arriva da nessuna parte”.
Come mai hai lasciato l’Italia per la Spagna?
“Ho iniziato con l’Erasmus a Madrid, poi sono tornato, mi sono laureato in Scienze della comunicazione a Bologna. Ma l’idea di tornare all’estero mi era rimasta. L’opportunità, o meglio il pretesto, è arrivata quando ho iniziato a tradurre un’autrice spagnola per Voland, Espido Freire. Con il pretesto della traduzione sono tornato in Spagna e poi ho iniziato a lavorare come professore di italiano e traduttore tecnico, fino ad arrivare a fare il traduttore letterario, che è il primo lavoro che mi piace davvero.”
Come vedi l’impatto dell’intelligenza artificiale sulla traduzione?
“È interessante vedere che nei contratti di alcuni autori di eccellenza iniziano già a inserire il divieto assoluto di usare l’IA. Ma è una clausola un po’ velaria, difficile da far rispettare. Mi preoccupa di più la fascia grigia, quella della mediocrità. Se non hai un’elaborazione da autore e non controlli bene il testo, escono fuori errori evidenti. I traduttori automatici, quando non conoscono una parola, la lasciano in inglese, creando anglicismi inutili. Nella traduzione tecnica è molto più diffusa perché se devi tradurre una piccola guida, un depliant, ti affidi all’IA. Ti crea l’illusione di poter fare qualsiasi cosa, ma senza le competenze necessarie esce fuori un testo banale e spesso sbagliato.”
Parlando della tua scrittura, colpisce la fluidità dei dialoghi…
“Era una delle cose a cui tenevo di più. Volevo che i dialoghi fossero proprio di persone vere, senza quel velo che spesso si trova nella letteratura contemporanea. Il mio ideale è Calvino: apparentemente semplice, non devi aprire il dizionario, ma poi c’è molto senso morale della scrittura. Ho riscritto questo libro mentre preparavo un saggio su Calvino, e credo che abbia influito nel senso buono.”
Che Firenze ritrovi quando torni?
“C’è un distacco dalla cultura che mi fa arrabbiare, una mancanza di entusiasmo. Firenze si gongola del fatto di essere Firenze, ma poi non spinge le sue eccellenze, manca un ecosistema che le valorizzi e le tenga insieme.
Il romanzo di Gianetti offre un taglio inedito su Firenze, quello di una città che cambia e si trasforma, lontana dalle cartoline turistiche ma ricca di storie umane e contraddizioni sociali. Un invito a non perdersi nelle “buche del marciapiede” ma a mantenere uno sguardo più ampio sui problemi e le trasformazioni del nostro tempo.
Marco Bazzichi
L’intervista su FirenzeToday
Simone Paglietti: Toglimi una curiosità. Perché hai scritto una storia ambientata in Italia, pur risiedendo fuori?
Alessandro Gianetti: Devi sapere, caro Simone, ma tu già lo immagini perché vivi all’estero come me, che io l’Italia, Firenze in particolare che è la mia città, l’ho lasciata e non l’ho lasciata. Chi se ne va mantiene una sentinella, un avamposto nel luogo che finge di abbandonare; nel mio caso è un soldatino che mi fa dei rapporti molto dettagliati su tutto ciò che succede, ma il più delle volte sogna o se li inventa, e così son costretto a verificare coi miei occhi se quel che racconta è vero o no. Questo romanzo è una storia che potrebbe essere accaduta nel quartiere di Rifredi, a nord-ovest di Palazzo Vecchio, una decina d’anni fa o l’altro ieri; che sia accaduta o meno non ha importanza, la mia sentinella me l’ha riferita e io, dopo alcuni sopralluoghi, l’ho raccontata.
SP: Già, ma cosa succede in questa vicenda dal nome un po’ selvatico e un po’ filosofico, “L’imbattibile lentezza delle tartarughe”?
AG: Mi verrebbe da risponderti: chiedilo al libro! Tuttavia, non posso cavarmela così; mi vedo costretto a dischiudere il volume che troverai in libreria (sempre che lo trovi, escono moltissimi libri e non sempre ci si orienta). Come avrai visto, in copertina c’è una strada solcata dalle luci delle automobili, fermate da una fotografia con un tempo d’esposizione assai lungo. Le scie trasmettono l’idea di movimento rapido, ma c’è un trucco: è stato il fotografo a creare quell’effetto. Trucco o non trucco, le striature segnano il contrasto con la lentezza delle tartarughe, e rendono il divario tra noi, uomini e donne del XXI secolo, e la vita degli animali. Sai meglio di me che gli animali conservano un’antica saggezza, impermeabile ai cambiamenti, alle rivoluzioni e al concetto stesso di progresso. Sin da quando ero piccolo pensavo che osservare un cerbiatto nel 1980 doveva essere la stessa cosa che osservarlo nel V secolo a.C.. Il cerbiatto non è cambiato da allora, è cambiato il nostro sguardo.
SP: Perché questa geremiade sul cerbiatto e sullo sguardo?
AG: Per attirare la tua attenzione sul fatto che i cerbiatti son sempre gli stessi, siamo noi che abbiamo cambiato il nostro punto di vista su di loro. È naturale, dunque, che il protagonista di questo romanzo veda trasformarsi il mondo attorno a sé nel momento in cui cambia il proprio punto di vista sulla realtà. Non legge più i giornali, perché da quando è disoccupato entra più tardi nel bar dove fa colazione, e i quotidiani son tutti stropicciati, macchiati di caffè. Per un inspiegabile desiderio di purezza, il protagonista è indotto ad aprire un opuscolo che nessuno ha ancora letto, e ci trova argomenti del tutto diversi da quelli di prima.
SP: Non sarà mica un romanzo sulla lettura?
AG: Ti risponderei di sì, ma con riserva. È un romanzo sulla lettura se si intende lettura del mondo; ricerca d’una verità. Oggi, diceva Manlio Sgalambro, il filosofo che scriveva canzoni insieme a Franco Battiato, l’uomo occidentale è incapace d’agire perché non crede più nella trasformazione del proprio ambiente. Siamo sempre più relativisti, e questo è un antidoto ai dogmatismi del passato, ma anche vulnerabili alle verità che ci arrivano già belle che confezionare dai mezzi d’informazione. Il romanzo si cala nelle insicurezze d’un personaggio che cambia idea attraverso la lettura e innesca il confronto con un suo ex-collega, che interpreta invece le cose come si faceva nella «fase storica precedente». Il suo amico-rivale, Ferriano Airaldi, è un sindacalista, figura a rischio d’estinzione.
SP: È un romanzo politico, allora?
AG: Non è un romanzo politico se stai pensando a una ricognizione nelle viscere di quel potere che sembra oggi ancor più inscalfibile che in passato; si tratta invece di un romanzo politico nel senso di polis, di comunità. M’interessava ficcare il naso nel rapporto tra normalità e visione del mondo; nel sospetto che quella che definiamo «normalità» abbia per condizione una certa dose d’inserimento e soddisfazione delle aspettative personali che uno si crea. Cosa potrebbe accadere a un individuo che perde fiducia nella società in cui vive e comincia a sospettarne, a scardinarla, a costruirne una propria visione alternativa – solo in parte malata, certo egoistica e un pò disperata – che considera la più sensata e logica? Il protagonista è un combattente un po’ rocambolesco, un Don Chisciotte se preferisce chiamarlo così.
SP: Perché nel libro parli del reddito di cittadinanza, cosa rappresenta per te?
AG: Capita anche alla letteratura di starsene a lavorare a maglia davanti al caminetto, come una vecchia comare che s’accorge della guerra solo quando i soldati le distruggono il giardino per farci una postazione di tiro. Avevo l’impressione che l’introduzione del reddito di cittadinanza fosse una di quelle rivoluzioni che andassero esaminate. Certo, poi il suo impatto è stato relativo, la messa in pratica assai meno coraggiosa dell’idea che l’aveva ispirata, ma questo accade a tutte le idee. Quando iniziai a scrivere L’imbattibile lentezza delle tartarughe la fase attuativa era ancora lontana, si discuteva del principio e mi pareva uno di quelli destinati a segnare uno spartiacque. Che lo Stato sia disposto a farsi carico della rovina d’una persona è un dato importante, e l’Italia ha dimostrato di non essere ancora pronta. Il dibattito sul lavoro, per giunta, si è progressivamente appiattito: più che un diritto è una fortuna, quando capita.
SP: E poi c’è la tartaruga…
AG: Sì, la tartaruga è un animale particolare, lento e longevo. Rappresenta l’inevitabilità, la costanza, la rassegnazione se vuole, che a un certo punto l’uomo introietta o che subisce; un promemoria che spesso ignoriamo, come se la natura non dettasse già le sue regole, ma fossimo noi a volerle dettare a lei, che ci governa. C’è un quadro che mi colpì quando lo vidi: Paesaggio con Caduta di Icaro, di Pieter Bruegel il Vecchio. Il punto di vista sulla morte di Icaro, che si avvicina troppo al sole e brucia le ali con cui suo padre Dedalo voleva aiutarlo a fuggire dal labirinto, è distorta. Icaro affoga in un angolo del quadro, in basso, mentre il paesaggio è dominato dall’indifferente lavoro di un agricoltore e d’un pastore che pascola le sue pecore. Il pastore volge lo sguardo in alto, come se avesse sentito un grido d’allarme, ma guarda nella direzione sbagliata, e tutto continua a scorrere come se niente fosse accaduto.
SP: Qual è il ruolo dei mezzi d’informazione, in tutto questo?
AG: Mi sembra che ci sia un’allarmante incomprensione di quella che circola fuori dai canali per così dire «ufficiali»: la si sottovaluta o la si mitizza, ma non la si comprende. Il protagonista, da un certo punto in avanti, è una barca senza ormeggi che naviga alla cieca. Credo che la sua crisi rispecchi quella dell’insieme di istituzioni, organismi di tutela, rappresentanza e pubblica opinione, dello Stato per come lo concepiamo in questa parte di mondo. I mezzi d’informazione sono uno specchio della modernità e io volevo renderne l’insufficienza e, a malincuore, l’inettitudine. Per questo la tartaruga è imbattibile, perché non ha bisogno di opinioni o dibattiti, le basta il codice genetico.
SP: Un’ultima domanda, poi ti lascio andare. Anche tu hai dovuto cambiare punto di vista sulle cose, come il protagonista del romanzo?
AG: Hai colto nel segno. Volevo restituire l’atmosfera crepuscolare del quartiere in cui sono nato e ho vissuto fino ai diciott’anni, dove passano il Terzolle e il Mugnone, di cui parla Vasco Pratolini in Cronache di poveri amanti. L’aggettivo «crepuscolare» lo imparai dopo essermene andato; quando ci vivevo avvertivo soltanto una mancanza d’energia vitale che m’impediva d’immaginare la vita all’interno dei suoi confini. Col tempo poi ho capito che era simile a tanti quartieri di città medie e grandi sparse per il mondo, ma non avrei potuto comprenderlo senza uscirne, guardarlo di lontano. La capacità d’osservare si acquisisce con la distanza, come se le cose da vicino fossero troppo ingombranti, e in fondo il protagonista cerca solo una giusta distanza dalle cose. Da lontano anch’io ho imparato a guardare Firenze con gli occhi di chi la ammira, e mi sono abituato alle espressioni di meraviglia. È nato a Firenze, la città del Davide di Michelangelo! Sì, rispondo io, ma la mia città non ha molto a che vedere con quella che conosce lei. Firenze è una dama dai modi coltivati e animo campagnolo di cui s’innamorano in molti, ma i suoi problemi non li confida a nessuno e in segreto cerca confidenti. Spero che il paradosso di Zenone l’aiuti a trovarli.
Simone Paglietti
L’intervista su Nazione Indiana
I vari livelli interpretativi che dona il libro di Alessandro Gianetti riportano a un unicum che possiamo ipotizzare di personale intimità, qualcosa di intimo che ha a che fare con una contemporaneità decretabile anche nella forma della scrittura dell’autore. Intimità che resta coperta in molti sfondi apparentemente facili da seguire, ma i piani di ragionamento si moltiplicano aderendo a una storia che potremo definire semplice, con personaggi semplici, rappresentazioni stereotipate in ambienti molto comuni e ben conosciuti. Se andassimo a elencare ogni piccolo frammento del libro troveremo immagini di vita comune, nel senso che sono dentro ognuno di noi. Nel racconto però, insieme alle immagini, sono inserite parole e frasi poetiche come fossero un richiamo verso uno sguardo “altro”. Vi sono inseriti riferimenti “politici” che fanno ricordare, sia pure in modo indiretto, la storia dell’Italia degli ultimi decenni. Vi è un protagonista che poi scopriamo non unico in questo ruolo. Vi sono atmosfere che possono determinare nostalgie anche in chi non le ha vissute direttamente, penso soprattutto alle parole dedicate al bar di Giovanna e altri scorci. Un libro di quelli che non se ne vedono tanti per l’essenzialità di ciò che vuol dire, perché dire di più sarebbe superfluo, perché non è ammissibile che il non detto non sia comunque patrimonio di tutti. Perché narrare oggi significa per forza dare per scontato certe cose. Qui il bisogno di sentirsi dentro un cammino che necessita di punti di riferimento, non costretti al perenne guardarsi indietro. Non obbligati a dover ripetere sempre l’inizio dei percorsi umani e delle storie che ci appartengono. Molto sappiamo già e non possiamo fare semplice ornamento della storia. C’è un urgenza che, nonostante il titolo sulla tartaruga, si sente come metodo narrativo e come indicazione a guardare avanti, capire per esempio il senso del rifiuto del lavoro, di pensare come potrà essere un futuro fatto sempre più di scelte individuali e di incertezza a cui possiamo anche arrenderci come ultima possibilità di libertà, come fa il barbone Renzo su cui si apre il libro. Con una bellissima prima pagina che è qualcosa di più di un incipit ben riuscito perché rende subito l’idea di uno sguardo letterario raffinato. “L’imbattibile lentezza delle tartarughe” edito da Arkadia nella collana Senza Rotta sembra essere anche un esperimento letterario in un quadro generale sconfortante in cui mancano di solito molti temi, forse per paura, che invece in questo testo si affrontano con la dovuta onestà di chi non ha la presunzione di risolverli, ma che attraverso l’indicazione letteraria riporta al centro del ragionamento, per forza di cose complesso. Insomma, un libro che consiglio di leggere con la dovuta attenzione, cercando di scoprirvi i tanti spunti che possono rimanere più o meno nascosti e di cui sarà un piacere poterne parlare con l’autore quanto prima.
Maurizio Giardi
La recensione su Lidice
Mercoledì 27 novembre, a partire dalle ore 17,30, presso il centro culturale e residenza letteraria “Itaca”, in Via di San Domenico 22, si terrà un evento che raccoglierà la maggior parte degli autori toscani della casa editrice sarda Arkadia, che parleranno dei loro libri con la conduzione del direttore della residenza (e autore e co-curatore della collana arkadiana “Senza rotta”) Paolo Ciampi e, nella seconda parte, dello scrittore e traduttore Giovanni Agnoloni. Saranno presenti Tito Barbini (con Il fabbricante di giocattoli e Storie di amori e migrazioni sull’isola dalle ali di farfalla), Anna Bertini (con Le stelle doppie), Mauro Caneschi (con La chimera di Vasari, Le figlie dell’uomo e Il codice Stradivari), Paolo Codazzi (con Lo storiografo dei disguidi e Lo specchio armeno), Carlo Cuppini (coautore con Giovanni Agnoloni e Sandra Salvato del concept-book Da luoghi lontani), Massimo Granchi (con Il principe delle arene candide e Se/dici) e Marisa Salabelle (con Gli ingranaggi dei ricordi e La scrittrice obesa). Giovanni Agnoloni, oltre a parlare del suo romanzo Viale dei silenzi, intervisterà la “special guest”, la scrittrice e nota traduttrice milanese Olivia Crosio, con la sua nuova uscita Josh in fuga e con la precedente pubblicazione La mentalità della sardina, ampiamente ambientata in Toscana. Lo scrittore e traduttore fiorentino Alessandro Gianetti, autore del romanzo La ragazza andalusa e di numerose traduzioni della collana arkadiana di lingua spagnola “Xaimaca”, interverrà in collegamento video da Siviglia, e con lui l’editore di Arkadia Riccardo Mostallino. Interverrà in video anche il presidente dell’Associazione Sardi in Toscana.
Il link alla segnalazione su informazione.it: https://tinyurl.com/4975w45x
Nel terzo appuntamento con “Scrittori in fuga” incontriamo Alessandro Gianetti, nato a Firenze. Si avvicina al mondo dell’editoria scrivendo testi rivolti a turisti curiosi, mescolando viaggio e letteratura, e successivamente si dedica alla traduzione. Come romanziere esordisce nel 2020 con La ragazza andalusa, una storia ambientata tra Madrid e Siviglia. Ispirandosi alla propria esperienza di vita personale, il romanzo (che è stato anche tradotto in spagnolo) regala una fotografia accurata delle sfide che una persona deve affrontare in termini di interculturalità e adattamento quando si trasferisce, lavora, stringe amicizie e si innamora in un altro paese.
In quale paese risiedi attualmente e da quanto tempo vivi lì?
Vivo in Spagna da molti anni, ma in Italia vengo spesso.
Perché hai deciso di trasferirti?
Sentivo il bisogno di tracciare un percorso diverso da quello che mi si apriva dopo aver concluso l’Università, e come tutti i giovani ho cercato all’esterno ciò che avrei potuto trovare all’interno di me stesso. Vivere all’estero mi ha dato un’opportunità: essere di nuovo bambino. Poi ho finito per affezionarmi a un’esistenza iniziata due volte.
Di cosa parlano i due libri più recenti che hai pubblicato in Italia?
Ho pubblicato tre libri, solo uno tradotto in spagnolo. Il primo era una guida ai bar di Madrid, quelli che sembrano tane di coyotes spelacchiati. Il secondo era un omaggio al bacio. Il terzo un viaggio in Andalusia, che raccoglie alcuni elementi della mia esperienza personale.
In che modo la tua esperienza di vita all’estero ha influenzato la tua scrittura?
Vivere in un paese che non è il tuo induce a mettere in discussione ciò che appare scontato, come chiamare casa quando ti senti solo. Questo, credo, ha sviluppato l’attaccamento alle piccole cose che prima non consideravo. Impari a farti amico del buio.
Ci sono temi specifici legati alla tua esperienza di espatriato che ami esplorare nei tuoi lavori?
Credo che non vi sia scrittore espatriato che non cerchi di tornare, con le parole, nel proprio paese. M’interessa anche per questo il tema della memoria, la sua colpevolezza in qualsiasi fatto letterario venga raccontato, sia essa in forma di ricordo o di omissione.
Quali sono le principali sfide che hai affrontato come scrittore italiano all’estero?
Lo scrittore che vive all’estero è attratto da un gran numero di novità, pensiamo all’entusiasmo di Calvino o quando mise piede a New York. Si deve però prestare attenzione al fatto che la scrittura non è solo meraviglia, è allenamento dello sguardo.
Quali sfide hai incontrato nel promuovere i tuoi libri nel mercato italiano mentre vivi all’estero?
Le difficoltà sono di ordine pratico, sei fuori e devi muoverti per canali laterali, che d’altra parte mi si confanno.
Hai riscontrato resistenze da parte degli editori italiani a causa della tua residenza all’estero? Se sì, come hai affrontato queste difficoltà?
Nessuna in particolare, anche se devo prendere un aereo per parlarci di persona.
Puoi parlarci di alcuni dei tuoi progetti attuali o futuri?
Sto lavorando a un progetto su un giornalista spagnolo che, benché già tradotto in Italia, è ignorato dai più. Lavorò per evitare la Guerra Civile, che poi sarebbe diventata mondiale. Mi piacerebbe scrivere un libro sulla sua vita.
Pensi di tornare a vivere in Italia o di trasferirti in un altro paese in futuro?
Chi lo sa? Forse tra un po’ faccio di nuovo le valige.
C’è una citazione tratta da un tuo libro che vorresti condividere con noi per chiudere questa intervista?
Una frase dell’ultimo libro che ho tradotto, di Edgardo Cozarinsky, recentemente scomparso a Buenos Aires. Serva da omaggio e da saluto a un vero scrittore: “A un certo punto capì che per realizzare la sua ambizione di scrivere doveva affrontare una sfida imprevista: raccontare non solo un’azione, non solo un’avventura al di fuori della sua vita quotidiana, ma mettere in parole l’assenza che aveva appena scoperto, e che sembrava impermeabile a ogni finzione. Doveva provare a scrivere la morte in vita”.
Giuseppe Raudino
Il link all’intervista su Quaderni Boreali: https://tinyurl.com/44rfc7yf
Il protagonista la sera in cui tutto ha inizio si trova a capitare per caso in un locale madrileno, un bar messicano in calle del Olmo che si chiama Mi madre era una Groupie, detto anche Maria Bonita, su invito dell’amico Eduardo, a sua volta lì per festeggiare il compleanno di un’amica, una giornalista ecuadoregna all’esordio nella narrativa con un libro di racconti dal titolo evocativo Una bulla tra i galli. Quando arriva, il locale è ancora chiuso e insieme a Eduardo al bancone c’è un altro amico, Agostino: entrambi se ne stanno con i gomiti poggiati sul piano del bar, di tanto in tanto sorseggiando una tequila, e partecipano al gioco di ambigui palpeggiamenti di María Fernanda de Guzmán, il cui regno è la pista da ballo, dove soverchia la schiera di amici dalle tendenze sessuali intercambiabili come una direttrice d’orchestra, una burattinaia o una sacerdotessa. Per il protagonista non è il primo incontro con María Fernanda de Guzmán: si sono già visti l’anno precedente, a Halloween… Trent’anni, poche idee ma confuse, il desiderio di vivere la vita con leggerezza e freschezza – la stessa della prosa di questo romanzo fatto di colori vividi e personaggi, emozioni e situazioni dall’abile caratterizzazione, un omaggio alla Spagna e alla varia umanità che la popola, specialmente nelle lunghe e divertenti notti -, nonostante la crisi del 2015 lo attanagli e gli faccia bramare una svolta: è italiano, vive in Spagna e nella capitale iberica il protagonista del romanzo incontra una ragazza andalusa. Bella, seducente, intrigante: inevitabile, o quasi, che fra loro si instauri una relazione, certo complicata, anche se scandita da momenti di allegria, esperienze, viaggi, perché quando si hanno radici, ideali, valori, punti di riferimento diversi e persino lingue materne dissimili venirsi incontro e capirsi non è facile. Una relazione a tempo, un anno lungo il quale i due, tra complicità e malintesi, si spingono fino in Portogallo e a Siviglia, nella terra d’origine della ragazza, che il protagonista scopre davvero molto lontana dall’immagine che si era fatto di lei, capendo al tempo stesso molte cose anche di sé.
Gabriele Ottaviani
Il link alla recensione su Mangialibri: https://bit.ly/3ZKw0LD
Il più delle volte, sono i libri a venirmi a cercare, è come se intuissero, secondo quale legge sovrannaturale non saprei, di essere sulla buona strada per entrare nella cerchia dei miei favoriti. E, questo, spesso mi capita a scoppio ritardato, diciamo, coi miei tempi, i tempi di chi aspetta che si venga a creare un invisibile legame tra me (la mia attenzione, la mia curiosità, la mia empatia) e, in questo caso, il libro. Mi capita così, infatti, anche con le persone, ci possono essere mille occasioni di contatto, di avvicinamento, a volte perfino di condivisione, ma ce ne sarà una soltanto, che io chiamo “scintilla”, in cui la nostra attenzione verrà catturata con la testa, con la pancia e anche con il cuore. In questo caso, bisogna soltanto approfittare e gettarsi all’avventura. La ragazza Andalusa di Alessandro Gianetti (Arkadia – Senza rotta) ha fatto lo stesso percorso, a rilento, tanto a rilento che circa un mese fa, prima di acquistarlo, ho chiesto ad Alessandro quando sarebbe uscito il libro e lui, preso senz’altro dai turchi, mi ha risposto con la garbata calma, che gli è senza ombra di dubbio congeniale, che il libro era uscito più di un anno fa. Pazzesco! Pazzesco perché sono andato poi a rileggere i posts di un anno fa e mi sono ricordato, eccome. Insomma, tutto questo per dirvi che c’è voluto un anno per avvicinarmici e, una volta avvicinato, l’ho voluto e dovuto avere subito. Mi attirava come una calamita. Sarà che di Gianetti avevo da poco letto la sua traduzione puntuale e felice di un altro splendido libro, sempre di Arkadia, di Edgardo Scott, Lutto, sarà che il mestiere di traduttore è un mestiere d’amore nei confronti di ciò che si traduce. Sta di fatto che mi ci sono buttato dentro e lì mi trovo ancora, con mia grande gioia, in questo momento. La ragazza andalusa è la storia di un giovane adulto trentenne che decide di trasferirsi in Spagna e, precisamente, a Madrid. Viene descritto con un carattere mite ma deciso, affettivamente disincantato ma non privo di curiosità nei confronti dell’altro sesso, a tal punto da finire “imbrigliato” in una relazione amorosa. Per questa ragione, per il disincanto di cui sono pervasi i suoi dialoghi e le sue considerazioni, il personaggio del romanzo mi ha fatto subito pensare a Leo Gazzarra, il protagonista de L’ultima estate in città di Gianfranco Calligarich, entrambi infatti fuggono dai loro luoghi, entrambi senza avere idee chiare su ciò che vorrebbero fare, entrambi si legano a una persona fuori dal comune, ma estremamente bella (chissà perché ma le due cose vanno spesso insieme) e, soprattutto, malgrado ancora giovani, entrambi vengono “disegnati” sempre trasognati e già disillusi dalla vita. La relazione che intraprende il protagonista del libro di Gianetti lo costringe ad ampliare e ad allungare il suo “viaggio” dall’Italia, suo paese di origine, e raggiungere Siviglia con ulteriori tappe in altri luoghi che Gianetti ci descrive con la perizia di uno studioso paesaggista. Le pagine in cui descrive i suoi viaggi hanno qualcosa di magico, per la quantità di immagini che descrivono, e di emozioni e suggestioni che suscitano, “In mezzo a tanto nulla, le poche cose che scorgevo, una casa colonica, un uliveto, un ciuco, si separavano dalla loro oggettività fisica e galleggiavano in uno spazio che vibrava al calore del Sole, assumendo le sembianze di un miraggio. Il confine tra la Castiglia e l’Andalusia fu annunciato dagli alberi di eucalipto sul ciglio della strada. Le loro foglie oblunghe si accumulavano ai bordi di uliveti sterminati, che si alternavano ai campi di grano con le balle di fieno rettangolari, come enormi lingotti d’oro”. Per non parlare degli spostamenti all’interno delle due città. Io che ne ho calpestato i marciapiedi di entrambe, vi assicuro che sono state tantissime le volte in cui ho aperto Google Maps per rivivere quei luoghi straordinari, e straordinario è l’effetto che produce il suo modo preciso ma per niente pedante di descriverci vie, piazze, palazzi, monumenti, pub, bar. Sono tornato al Paseo del Prado, a Plaza de Santa Ana, alla Puerta del Sol, a Triana, in Calle San Jacinto. E non c’è cosa più bella di ricevere restituzioni geografiche così precise e riuscire a rivivere i propri luoghi del cuore, “Ci era venuto un certo appetito, e attraversammo il Barrio de las Letras per arrivare in Plaza de Santa Ana, dove la statua di García Lorca ci suggerì un posticino aperto fino all’alba, in calle del Prìncipe”. Perfino quando indugia sul corpo di Beatrix, si sofferma sui più piccoli dettagli, con un linguaggio peraltro talmente efficace da farci sentire lì, insieme a lei, “Erano piedi carnali e insieme metaforici, toccandoli non avevo la sensazione di sfiorare soltanto il suo corpo, ma di carezzare anche l’incomprensibile significato della sua presenza nel mondo, quel pulviscolo di colore, odore e geometria che aleggia intorno a una donna, una sensazione che indica fino a che punto ti puoi fidare, che induce in definitiva a essere ingannati”. Per questa ragione, questa sua passione per il particolare, questo suo indugiare sul paesaggio, sui colori, sulle forme, persino sulle sensazioni tattili, nel posare per esempio i polpastrelli sul corpo di lei, non è nient’altro che amore, e questo libro, malgrado l’aria disincantata del protagonista, malgrado il tema dominante di cosa possa significare vivere fuori dal proprio Paese, malgrado l’annoso problema occupazionale, è un libro che parla anche d’amore. Ma l’amore qui non è il fine, rappresenta il “motore” che lo aiuta ad andare avanti, che spinge il protagonista a osservare oltre la punta del proprio naso. L’obiettivo, se mai si possa dire che un libro debba avere un obiettivo, è altro, che io ho intercettato nell’importanza che il protagonista dà al ritorno, nell’ambito del viaggio in generale. Lui ci dice che il ritorno, da un viaggio, è una sorta di cartina tornasole del viaggio stesso e che un viaggio, di qualsiasi tipo, senza un ritorno non può essere raccontato e, di conseguenza, risulta monco, come amputato, “Senza il ritorno il viaggio non esiste, si dissolve, e io non desideravo la dissoluzione, aspiravo al contrario alla congregazione dei fatti e alla loro spiegazione”. L’autore sente il bisogno di verbalizzare questa considerazione che sta vivendo sulla propria pelle. Anche lui, infatti, è emigrato dal nostro paese, anche lui è senz’altro alla ricerca di qualcosa che possa dare una svolta alla propria esistenza, anche lui, infine, come il protagonista, ci riesce, trovano entrambi una “soluzione” attraverso la loro lingua madre, “Si torna sempre alla lingua, come nel mio mestiere di traduttore. Sprovvisto della lingua sarei stato come uno di quei satelliti che si lanciano per esplorare lo spazio profondo, senza una precisa data di ritorno: solo andata”. E questo poiché entrambi intraprendono un’attività che rinsalderà loro le radici, diventano cioè traduttori e attraverso la scrittura riescono a “tornare” a casa. “Finii per scegliere un modo diverso di tornare: scrivere. Si scrive sempre per tornare in un altrove, in un quando o in un dove. Scrivendo mi mettevo in viaggio, e viaggiavo in Italia. Era un continuo ritorno, per me, la scrittura”.
Riccardo Sapia
Il link alla recensione su Border Liber: https://bit.ly/3vdW3hz
È una storia d’amore? È un romanzo di formazione? Sì e no, sfugge a una collocazione nel momento in cui lo si ripone in libreria, La ragazza andalusa (Arkadia) di Alessandro Gianetti. La copertina, azzeccatissima, parla da sola, soprattutto a chi un po’ di Spagna l’ha vista, possibilmente non da turista. Ma attenzione: la ragazza andalusa in questione non è quella della copertina, tutt’altro, l’esatto opposto verrebbe da dire. Non è Beatriz (nome sul quale molto si potrebbe congetturare) che si nasconde dietro il sensuale ventaglio il cui colore dominante è sicuramente il rosso: in copertina c’è la vera protagonista di questa storia, cioè la Spagna. È un viaggio sentimentale allora? Vada per il viaggio sentimentale… non risolve comunque il dilemma dello scaffale più adatto… ma pazienza. La Spagna dunque: non una qualunque, ma quella della crisi del 2015, la Spagna alla ricerca febbrile di una sua collocazione in Europa e nel mondo, esattamente come il protagonista del romanzo. È la Spagna della vita notturna, dei paesaggi che non ti aspetti, dell’incrocio di culture che hanno messo radici qui da secoli e di tanto in tanto ricompaiono. Gianetti ci fa percepire tutte quelle atmosfere, di afa, di crepuscolo, di penombre; ci presenta una galleria di luoghi e personaggi che a modo loro si barcamenano nell’incertezza di sottofondo che caratterizza quegli anni, personaggi persi nei meandri di vie, nominate in modo preciso, una per una, tanto che viene voglia di aprire Google Maps per studiare i reticoli stradali di Madrid o di Siviglia, per aiutarli a uscire da quei labirinti; ma persi anche nei vicoli non meno ingannevoli del linguaggio, di una comunicazione che stenta sempre ad essere autentica, fatta di incomprensioni, di etimologie arcane e misteriose. Questa storia ci fa riflettere su come la ricerca di sé sia un percorso complesso e altalenante, soprattutto se la si intraprende attraverso “l’altro”. L’altro è una donna misteriosa, sfuggente, incostante, ambigua… ma anche un paese ricco di contraddizioni e di fascino, uno di quei paesi raccontati in tutta la loro mediterranea vitalità e dove, dopo aver letto questo romanzo, ti viene voglia di tornare.
Annarosa Francescut
Il link alla recensione su I libri di Mompracem: https://bit.ly/3n3ZthO