Sardegna


Mara Damiani. artista, designer e Art Director, nasce a Cagliari e consegue il diploma-laurea presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, cui segue un Master in illustrazione all’Accademia Disney di Milano. Lavora nei campi del pubblishing, licensing e merchandising, collaborando da circa venti anni con The Walt Disney Company. Ha una vasta esperienza di design e illustrazione a livello internazionale e collabora inoltre con Milan Calcio, Mondadori, Egmont, Mattel, Bormioli, Clementoni, Cartorama, Leolandia, Expo 2015. Nella sua pratica di ricerca artistica personale, Mara Damiani re-investiga alcuni tratti caratteristici della Sardegna e li connette a nuovi design contemporanei da lei ideati, sperimentando anche nel settore dell’artigianto artistico. www.maradamiani.com 



Giacomo Paglietti si è laureato presso la facoltà di Lettere e Filosofia di Sassari e ha conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università di Roma “La Sapienza” con una tesi sul complesso nuragico di Su Nuraxi di Barumini. Specializzato in Archeologia all’Università di Cagliari ha svolto presso lo stesso ateneo attività di borsista e di assegnista di ricerca. Ha partecipato a numerose campagne e missioni di scavo archeologico in Sardegna e all’estero (Corsica, Baleari e Tunisia) e dirige, attualmente, gli scavi archeologici presso il Santuario nuragico di Santa Vittoria di Serri. Nel 2015 la Fondazione Barumini Sistema Cultura gli ha conferito il premio “Giovanni Lilliu” per le sue ricerche sul complesso di Su Nuraxi. Sui temi di preistoria e protostoria è autore di più di quaranta pubblicazioni edite su riviste nazionali ed internazionali. Componente del comitato scientifico del Museo Archeologico.



“I giardini di Leverkusen”, quarto appuntamento domani, con la collana dell’Unione Sarda

L’estate tedesca del giovane sardo

Emigrazione, pregiudizi e lavoro nel romanzo di Ilario Carta

Quarto appuntamento con “La calda estate di carta”. Il libro scelto dall’Unione Sarda porta i suoi lettori in Germania con il libro di Ilario Carta, “I giardini di Leverkusen”, una sorta di romanzo di formazione. Il titolo è uno dei magnifici sette, inseriti nella collana estiva, legata alla “Biblioteca dell’identità”. Ha aperto la serie di incontri in edicola (il libro è acquistabile a 4,80 più il prezzo del giornale) Cristina Caboni, seguita da Milena Agus e Gesuino Némus. Dopo Carta, sarà la volta di Francesco Abate, firma del giornale; chiudono Alex Deplano e Daniela Frigau.

Giugno 1972. Antero Congéra, 15 anni, parte dal molo di Cagliari per raggiungere il padre in Germania. La scuola è finita e le vacanze estive le passerà in fabbrica a lavorare. Si intitola “I giardini di Leverkusen”, quest’opera di Ilario Carta che con una formula desueta si potrebbe definire un romanzo di formazione. I dolori del giovane Antero cominciano già dal traghetto. Sulla sontuosa nave Tirrenia viene subito sospettato da un arcigno controllore di essere scappato da casa. Ma no, il documento d’identità parla chiaro: valido per l’espatrio. Orfano di madre, allevato dalla zia Assunta, il ragazzo è si ingenuo ma non sprovveduto. Studente liceale al convitto Pertusola, lascia il suo paese, San Rocco, accompagnato da una raffica di raccomandazioni. Non mollare mai la valigia (appesantita da pecorino, pane fatto in casa e cannonau), non parlare con gli sconosciuti, non fidarti di nessuno, non sbagliare il binario.

sacrifici. Il genitore ha tanto faticato per mantenere il rampollo. Ha fatto raccoglitore di fragole, ha posato le traversine sulle linee ferroviarie e infine è stato assunto alla Rote Fabrik, nei pressi di Colonia, Alta Renania, bacino della Ruhr. Ed è molto grato ai tedeschi per la paga sicura e il posto fisso. Entusiasmo non condiviso dal figliolo che si professa ateo e comunista e trova che l’alloggio destinato agli operai sia una sorta di letamaio. Per arrivare sin lì ha fatto un lungo viaggio, circa 22 ore, e alla stazione avvolta dalla nebbia quasi non riconosce il commosso Bachisio in quel tipo con la camicia bianca e il borsalino grigio. Il dormitorio ha il tetto di lamiera e i materassi sporchi. L’acqua solo a certe ore. La delusione di Antero è un pochino mitigata dalla divisa blu che gli viene consegnata e lo fa immediatamente sentire un vero operaio. In fondo, per qualche mese a spostare bidoni prenderà la strabiliante cifra di un milione e centomila lire.

fabbrica. Dodici ore alla catena di montaggio, reparto verniciatura, malevolmente sorvegliato da Heinrich, consumatore compulsivo di cioccolata e caffellatte. E il tempo libero non sa come passarlo, in questa landa fredda e troppo ordinata. Prati rasati, tetti in ardesia, strade pulite. Per fortuna fa amicizia con Evaristo, coetaneo scafato con i jeans Levi’s e la mascagna, che lo porta al centro commerciale Baunhof, mecca del divertimento locale frequentata da emigrati e autoctoni. Polacchi, slavi spagnoli, greci. Sardi come Placido Murredda, ex allevatore che ha abbandonati gli abiti di velluto per indossare camicie fantasia o Peppino Muscau, capraro barbaricino che non esce mai.

carattere fiero. Ilario Carta dota il suo protagonista di un carattere piuttosto fiero. Conscio della sua cultura e soprattutto del fatto che a ottobre tornerà a scuola e ai pranzi di zia Assunta, Antero tenta di politicizzare i suoi compagni, li sprona a opporsi al padrone, a rivendicare i loro diritti. Nessuno gli dà retta, anzi suo padre si addolora di tanta irriconoscenza. Nel frattempo si innamora di una bellissima bionda Rebecca e a lei dedica ogni pensiero. E anche una buona parte dello stipendio. Non parla tedesco, il maccarone, e non lega con i colleghi. Tranne che con Peta, il custode che ama l’Italia e gli parla di arte e musica.

pregiudizi. Assorbito dai suoi sogni, l’adolescente metallurgico s’infila in qualche situazione pericolosa. E siccome è un tipo riflessivo scopre di avere dei pregiudizi nei confronti degli altri. Dei turchi, per esempio, nonostante apprezzi il kebab e la compagnia di Orantes, musulmano cortese.

“I giardini di Leverkusen”, ha una genesi autobiografica. Memore della sua personale esperienza in terra teutonica, l’autore rivela di aver voluto scrivere «una storia che vuole dare dignità alla moltitudine eroica degli emigrati italiani che negli anni ’60, senza cellulare, Internet, voli low cost, hanno cercato di fare crescere i figli in modo più o meno normale». Raccontata, con brio, attraverso le avventure del ragazzino che diventa grande.

Alessandra Menesini



Morte, streghe, superstizioni: un viaggio nella Sardegna di inizio ‘900 con Spiriti nella notte della Delussu

 

Siamo in un villaggio della Sardegna rurale e il Novecento è iniziato da poco. Maria, incinta, cammina faticosamente. I parti l’hanno sfiancata, le hanno logorato il fisico, ciononostante si trascina, malgrado la gravidanza avanzata, per fare tutte le faccende che le spettano. Suo marito, Giuanni “il dolente” – chiamato così per un curioso caso del destino –, la ama, lui ricambia l’amore. Lo chiamano “il dolente” per un curioso caso del destino, per un evento fortuito ma dolente non lo era per nulla. Da questo loro affetto sono già nate due bambine, Margherita – una bambina rubiconda e allegra – e Antonietta, sempre così pallida, gracile e malaticcia; il Signore, come amano spettegolare in paese, sembra volerla richiamare a sé costantemente. Il terzo frutto d’amore giace nel suo ventre, è quasi pronto a nascere. Non si fa troppe illusioni, Maria, del resto è cresciuta sapendo che la morte è parte della vita. Lo sanno bene, le donne del paese: per quaranta giorni dopo la nascita la tomba è aperta per i nuovi venuti. Nessun bambino si può dire immune a quella che è una maledizione che odora di morte e di tragico, di buio assoluto e di lacrime.

È triste, Maria, ancora non ha dimenticato la morte della madre. Torna indietro, lasciandosi andare ai ricordi. Il cervello della donna si era letteralmente fritto mentre, un giorno, era nei campi a lavorare. Da allora, più niente. Il corpo pieno di piaghe, di vermi, che moriva lentamente, e gli occhi sempre aperti, incapaci di abbandonare il mondo seppure in quella situazione così agghiacciante. Maria era stata obbligata dal destino a compiere una scelta. Le pene della poveretta erano state quietate dall’Accabadora, la signora deputata a togliere le sofferenze per sempre.

Malgrado si senta ancora in colpa dopo tempo, Maria sa bene quanto le sofferenze possano essere peggio della morte stessa.

“Maria vide la donna che usciva da casa loro allontanandosi veloce. L’indomani le avrebbe portato in dono miele e olio. Si alzò mesta dalla soglia, trasse un profondo respiro ed entrò. Assunta ora aveva il volto disteso. Sembrava essere tornata quella di un tempo. Come addormentata. La ricompose sentendosi in colpa, poi scrutò la sua serenità e capì che lei oramai era fuori da tutto: dal dolore, dalle brutture del mondo, dalle fatiche. Atroce ma giusta. La scelta fatta era l’unica possibile. Anche i parenti sarebbero stati d’accordo sul fatto che era inutile far soffrire oltre e inutilmente la povera Assunta. S’accabadora l’aveva accompagnata nelle mani del Signore prima che perdesse, oltre al resto, anche la dignità.”

Inizia così “Spiriti nella notte“, una storia che ripercorrerà molti anni e che non si fermerà alla famiglia di Maria. Il villaggio intero è lo scenario di questo racconto. È un racconto che odora di tradizione, di leggende e superstizioni da tramandare, voce bassa e pelle rischiarata dal camino, dopo il tramonto. È un racconto che ripercorre anche storicamente quello che è stato il nostro passato. È un racconto che ci insegna il sapore amaro del dolore, della miseria e del destino avverso molto più di quello dolce delle gioie e dei momenti felici – ché, purtroppo, in quei tempi e nei nostri luoghi, quelli che con i piedi calpestiamo ancora oggi, non era semplice guadagnarsi da vivere –.

È un racconto dove le donne hanno parte centrale, le donne così forti ma anche disgraziate. Le donne che devono difendere il proprio onore dai bruti. Le donne che devono lavorare, sodo e senza lamentele, per tirar su una famiglia cui è venuto a mancare il perno. Le donne che sono le custodi della tradizione. Le donne che sono anche streghe e fantasmi, di tanto in tanto, e che devono, devono essere madri amorevoli e mogli oneste – e che non si dica che non sanno essere entrambe.

In questo testo, tutto quello che conosciamo della nostra Sardegna.

La Sardegna che unisce vita e morte con un filo invisibile ma forte come acciaio. La Sardegna che scorre nelle vene di coloro che ci sono nati tanto che, anche quando si è lontani, se ne sente il richiamo. La Sardegna delle Panas, della Giobiana, della processione dei morti, dell’Accabadora. La Sardegna della testa alta e dell’orgoglio da difendere con le unghie e con i denti. La Sardegna della dignità. La Sardegna delle Janas. La Sardegna che beviamo nell’acqua pura delle sorgenti, quella che respiriamo nell’aria, naso all’insù e occhi persi nel cielo. La Sardegna che amiamo e che ci nutre, mamma attenta e scrupolosa, tramandandoci tutto e insegnandoci tutto. La Sardegna che è così uguale e diversa al tempo stesso rispetto a quella di cento anni fa.

La Sardegna che ci narra in modo magistrale la Delussu con il suo racconto attento e minuzioso. E con la sua scrittura coinvolgente. E con il suo amore per la terra.

Un libro bellissimo.

“Fuori i cani ululavano, il vento iniziava a soffiare. Presto le anime dei defunti avrebbero iniziato il loro pellegrinaggio. In fila, uno dietro l’altro, avrebbero attraversato ancora quelle lande alla ricerca di chissà cosa, magari facendosi vedere dai vivi., da coloro che avevano amato.”

Federica Cabras



Morte, streghe, superstizioni: un viaggio nella Sardegna di inizio ‘900 con Spiriti nella notte della Delussu

Siamo in un villaggio della Sardegna rurale e il Novecento è iniziato da poco. Maria, incinta, cammina faticosamente. I parti l’hanno sfiancata, le hanno logorato il fisico, ciononostante si trascina, malgrado la gravidanza avanzata, per fare tutte le faccende che le spettano. Suo marito, Giuanni “il dolente” – chiamato così per un curioso caso del destino –, la ama, lui ricambia l’amore. Lo chiamano “il dolente” per un curioso caso del destino, per un evento fortuito ma dolente non lo era per nulla. Da questo loro affetto sono già nate due bambine, Margherita – una bambina rubiconda e allegra – e Antonietta, sempre così pallida, gracile e malaticcia; il Signore, come amano spettegolare in paese, sembra volerla richiamare a sé costantemente. Il terzo frutto d’amore giace nel suo ventre, è quasi pronto a nascere. Non si fa troppe illusioni, Maria, del resto è cresciuta sapendo che la morte è parte della vita. Lo sanno bene, le donne del paese: per quaranta giorni dopo la nascita la tomba è aperta per i nuovi venuti. Nessun bambino si può dire immune a quella che è una maledizione che odora di morte e di tragico, di buio assoluto e di lacrime.

È triste, Maria, ancora non ha dimenticato la morte della madre. Torna indietro, lasciandosi andare ai ricordi. Il cervello della donna si era letteralmente fritto mentre, un giorno, era nei campi a lavorare. Da allora, più niente. Il corpo pieno di piaghe, di vermi, che moriva lentamente, e gli occhi sempre aperti, incapaci di abbandonare il mondo seppure in quella situazione così agghiacciante. Maria era stata obbligata dal destino a compiere una scelta. Le pene della poveretta erano state quietate dall’Accabadora, la signora deputata a togliere le sofferenze per sempre.

Malgrado si senta ancora in colpa dopo tempo, Maria sa bene quanto le sofferenze possano essere peggio della morte stessa.

“Maria vide la donna che usciva da casa loro allontanandosi veloce. L’indomani le avrebbe portato in dono miele e olio. Si alzò mesta dalla soglia, trasse un profondo respiro ed entrò. Assunta ora aveva il volto disteso. Sembrava essere tornata quella di un tempo. Come addormentata. La ricompose sentendosi in colpa, poi scrutò la sua serenità e capì che lei oramai era fuori da tutto: dal dolore, dalle brutture del mondo, dalle fatiche. Atroce ma giusta. La scelta fatta era l’unica possibile. Anche i parenti sarebbero stati d’accordo sul fatto che era inutile far soffrire oltre e inutilmente la povera Assunta. S’accabadora l’aveva accompagnata nelle mani del Signore prima che perdesse, oltre al resto, anche la dignità.”

Inizia così “Spiriti nella notte“, una storia che ripercorrerà molti anni e che non si fermerà alla famiglia di Maria. Il villaggio intero è lo scenario di questo racconto. È un racconto che odora di tradizione, di leggende e superstizioni da tramandare, voce bassa e pelle rischiarata dal camino, dopo il tramonto. È un racconto che ripercorre anche storicamente quello che è stato il nostro passato. È un racconto che ci insegna il sapore amaro del dolore, della miseria e del destino avverso molto più di quello dolce delle gioie e dei momenti felici – ché, purtroppo, in quei tempi e nei nostri luoghi, quelli che con i piedi calpestiamo ancora oggi, non era semplice guadagnarsi da vivere –. 

È un racconto dove le donne hanno parte centrale, le donne così forti ma anche disgraziate. Le donne che devono difendere il proprio onore dai bruti. Le donne che devono lavorare, sodo e senza lamentele, per tirar su una famiglia cui è venuto a mancare il perno. Le donne che sono le custodi della tradizione. Le donne che sono anche streghe e fantasmi, di tanto in tanto, e che devono, devono essere madri amorevoli e mogli oneste – e che non si dica che non sanno essere entrambe.

In questo testo, tutto quello che conosciamo della nostra Sardegna.

La Sardegna che unisce vita e morte con un filo invisibile ma forte come acciaio. La Sardegna che scorre nelle vene di coloro che ci sono nati tanto che, anche quando si è lontani, se ne sente il richiamo. La Sardegna delle Panas, della Giobiana, della processione dei morti, dell’Accabadora. La Sardegna della testa alta e dell’orgoglio da difendere con le unghie e con i denti. La Sardegna della dignità. La Sardegna delle Janas. La Sardegna che beviamo nell’acqua pura delle sorgenti, quella che respiriamo nell’aria, naso all’insù e occhi persi nel cielo. La Sardegna che amiamo e che ci nutre, mamma attenta e scrupolosa, tramandandoci tutto e insegnandoci tutto. La Sardegna che è così uguale e diversa al tempo stesso rispetto a quella di cento anni fa.

La Sardegna che ci narra in modo magistrale la Delussu con il suo racconto attento e minuzioso. E con la sua scrittura coinvolgente. E con il suo amore per la terra.

Un libro bellissimo.

 “Fuori i cani ululavano, il vento iniziava a soffiare. Presto le anime dei defunti avrebbero iniziato il loro pellegrinaggio. In fila, uno dietro l’altro, avrebbero attraversato ancora quelle lande alla ricerca di chissà cosa, magari facendosi vedere dai vivi., da coloro che avevano amato.”

Federica Cabras



Arkadia Editore

Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

P.iva: 03226920928




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