Viale dei silenzi

Il primo capitolo del romanzo di Giovanni Agnoloni

 

 

Ancora quella sensazione. 
Che tutto si stesse svuotando, risucchiato in un gorgo. Uno spazio oscuro, un corridoio d’ombra dove deboli bave di luce permettevano a stento di distinguere profili di oggetti. Come se la vita fosse scivolata in uno stato di apnea e per pochi, brevi attimi, le cose si mostrassero per com’erano quando nessuno le osservava: traslucide, prive di sostanza. 
Mi capitava sempre più spesso, forse perché anch’io stavo diventando invisibile. Del resto, era questa l’impressione che ricavavo dagli sguardi della gente che incrociavo per strada. Una garbata, imperturbabile indifferenza. 
Era così da quando avevo intravisto per la prima volta quella parentesi aperta: quella che tu avevi creato dentro di me, non so se prima o dopo essertene andato. Quando il calzino umido e appiccicoso del mondo aveva iniziato a capovolgersi, sfilandosi dai miei piedi indolenziti e lasciandomi nudo a contatto col suolo. 
L’aria di Varsavia era una cenere immateriale e senza nome, che ben s’intonava con la mia inconsistenza; uniforme come il tono medio dei miei giorni, che ormai non contavo più. Il tempo mi si sfarinava tra le mani, che tendevo nello spazio per afferrare, fugacemente, soltanto luoghi. 
Quella fuori dalla finestra era un’arteria trafficata. Percepivo il suo brusio di fondo, simile al suono del mare. Remoto, appartenente a un universo irraggiungibile. Come il passato, che a tratti si avvicinava alle mie sinapsi intorpidite, sfiorandole con uno stelo urticante e accendendo lampi di immagini nitide della vita di prima. Quella dove c’eri ancora tu, e che non avrei voluto ricordare. 
Osservai la mia stanza per un intervallo indefinito. Cominciava l’ultimo tratto di quel periodo di tre mesi che mi ero preso per stare lontano da tutti. E per scrivere. Un’opportunità offertami da un’istituzione culturale polacca, che mi era parsa una benedizione. L’occasione per far coincidere il mio bisogno di concentrarmi sul lavoro con l’esigenza irrimandabile di lasciare Firenze. Via dall’ombra del mio matrimonio finito. Via dagli spettri della città, e soprattutto dal tuo, immancabile fin dal giorno in cui eri scomparso. 
La scrivania, che spiccava col suo dignitoso marrone sull’indaco pallido della carta da parati, era in ordine: il portatile, il mio taccuino degli appunti, una penna. Non avevo mai perso l’abitudine di scrivere prima a mano. Era una necessità fisica, di contatto con le cose. Mi aiutava a sentire che la realtà era ancora solida, che il macro-contenitore nel quale mi muovevo in cerca di un significato non era prossimo a sfaldarsi in un’entropia di calcinacci. Così, con una gradualità costante, quel libro era venuto prendendo forma. Un romanzo che avrebbe dovuto riguardare tutt’altro, ma che aveva finito per parlare di te. O forse con te. 
Mi riscossi. Non potevo più restare lì: avevo bisogno di uscire, di camminare. Mi chiusi la porta alle spalle con la sensazione di aver lasciato quella storia in custodia a una casa che non era mai stata – né sarebbe diventata – veramente mia. Un ambiente anonimo, incaricato di conservare, per qualche ora, il nucleo del tuo segreto. 
Scesi le ampie scale di quel palazzo elegante e aprii il vecchio portone su Ulica Marszałkowska. All’istante mi si riversò addosso tutta l’onda di quel traffico e di quell’umanità che dalla finestra mi erano sembrati un universo alieno. Feci un passo e mi ci immersi. 
Per la prima volta in quei tre mesi di isolamento, mi sentii connesso a quel mondo, dove in fondo ero capitato per caso. Vidi volti che seguivano traiettorie rettilinee, a tratti più ondulate, sospinti da pensieri frammentati e ansiosi. Le auto procedevano lente, in un accenno d’ingorgo diretto verso il centro nevralgico della città. Il rombo sommesso che producevano mi avvolse, mentre m’incamminavo nella direzione opposta. Avrebbe potuto essere il giorno del mio arrivo, che già quasi non ricordavo. Ma in effetti era un inizio, perché finalmente la bolla di separatezza che normalmente mi incapsulava sembrava essersi dissolta. Come se tu fossi stato accanto a me. Come il giorno di quattro anni prima in cui ti avevo seguito fin qui nel tuo ultimo viaggio di lavoro. 
Ma non c’era più posto per i rimpianti o il rammarico. Volevo affondare con il corpo e la mente in quell’ambiente, del quale soltanto adesso mi pareva di essermi accorto. E speravo che quella passeggiata portasse in superficie i grumi d’incomprensione che ancora ostruivano il mio percorso verso la verità. 
Oppure no: quello che veramente desideravo era solo dimenticare te, Firenze, la vita vissuta fino a quel preciso istante. Perfino quel libro, nato contro le mie stesse intenzioni. Abbandonarlo lì, in quella casa, e non rientrarci neppure. Prendere un treno, un autobus, un qualunque mezzo e partire per un luogo imprecisato. Ammesso che una partenza – ogni partenza – avesse un senso, in questo enorme scatolone di mondo in cui tutto richiamava tutto, e tutto era vicino. Anche quello che non avresti voluto. Anche il ricordo di un padre che una mattina ti aveva salutato e poi non era più tornato, senza una telefonata, un’e-mail o un biglietto. Un ricordo che oggi celebrava il suo quarto anniversario. 
Ormai vivevo in un’alternanza di pieni e di vuoti, di suoni e di pause, simile alle fasi del respiro. Scrivevo, e un’enigmatica forza gravitazionale mi trascinava verso gli abissi, veri o temuti, dove forse tu eri finito. Uscivo, e mi affidavo alla realtà esterna per riscattarmi da quella compressione.
Era così che quei lacci, quelle bave collose di memoria, pian piano si erano allentati, cedendo il passo a un sentore di maggior libertà. Fino alla massima apertura di oggi. 
Arrivai in Plac Zbawiciela con la sensazione di aver superato una prova. Magari avevi voluto sottopormi a un test, costringendomi – attraverso lo shock della tua assenza – a sprofondare nel mistero di ciò che a Firenze non funzionava. Di un passato mai digerito. Ma era un pensiero assurdo, un paradossale tentativo di razionalizzazione. Probabilmente, dopo tanto lavoro, sentivo di aver fatto tutto quello che potevo. Come un cantiere costretto a fermarsi per un sopraggiunto vincolo artistico, o un disegno di legge mai approdato a nulla. 
Quel libro non aveva un vero finale. Era, in fondo, la celebrazione della tua incompiutezza, e pure della mia. In pratica si era scritto da solo, mentre pensavo ad altro, manifestandosi con fare strisciante, come una voce interiore; quasi che tu, grato per il mio sforzo di vedere le cose con i tuoi occhi, avessi iniziato a parlarmi, a dettarmi percezioni che per me, al tempo dei fatti raccontati, erano estremamente vaghe o incomplete. Ma adesso, dopo aver tentato di concludere il capitolo sulla mattina di quattro anni prima in cui mi avevi detto «Ci vediamo a pranzo», mi rendevo conto che tutto questo era servito a mettermi sui tuoi passi, avviando una ricerca che, in definitiva, una parte recondita di me aveva sempre desiderato. 
Altrimenti a Varsavia non avrei rimesso piede. 
Non avevo mai visto la città così viva. Questa stessa piazza, in precedenza, mi era sempre parsa un angolo spento, dominato da un grigiore triste. Proprio qui, a una sola settimana dal mio arrivo, avevo ricevuto un’impressione vivissima di certi giorni della mia infanzia in montagna con te, in un paese delle Alpi venete, sotto una cappa di nubi gravide di un imminente temporale. Quelle case, strade e palazzi sembravano pezzi di un enorme dolce inzuppato in un liquore scuro, mentre un’aria stagnante e fermentata impregnava ogni nicchia di spazio.
Era così che mi eri apparso: senza dichiararti, senza neanche un nome, come un timbro incorporeo apposto su cose del passato che trasparivano dalla cortina semitrasparente dei luoghi del presente. La ‘storia’ aveva preso a inanellarsi a partire da lì. Fino a oggi, con questo sole incongruo, giunto a rompere gli equilibri e ad aprire, nel caos della vita della capitale polacca, uno squarcio di luce imbevuto di speranza. La speranza di una soluzione che finora non avevo nemmeno intravisto. 
E tutto, forse, per quanto era successo la notte prima. 
Era stata una giornata produttiva. Mi ero avvicinato sensibilmente al punto del romanzo in cui parlavo della tua scomparsa, con la descrizione della sera che l’aveva preceduta. L’avevamo trascorsa insieme a una coppia di tuoi clienti, i titolari di un’azienda produttrice di ricambi per auto di cui saresti diventato rappresentante. Avevamo cenato in un bel locale, il caffè-ristorante del Teatro della Commedia, sotto il Palazzo della Cultura e della Scienza. C’era aria di novità, un fermento che sapeva di nuove prospettive. L’opposto del vuoto che sarebbe seguito il giorno dopo. La festa prima della fine. 
Nel libro ero riuscito a rendere tutto questo, e per una volta ero davvero soddisfatto del mio lavoro. Così, stanco ma appagato, nonostante l’ora tarda avevo deciso di andare a cena fuori – anziché cucinarmi qualcosa nella residenza, come al solito. Varsavia, col buio, sapeva essere splendida. La zona circostante il Pałac Kultury i Nauki era contornata da grattacieli moderni illuminati che sembravano contraddire lo spirito antico e sofferente della capitale sventrata dalla guerra e poi ricostruita, conferendole un certo tocco newyorkese. Eppure se ne restavano in disparte, lasciando svettare la sagoma merlettata dell’altissimo edificio donato alla città da Stalin, enorme magnete isolato e altero che irradiava attorno a sé un’aura di quasi-sacralità.
Mi ero inoltrato lungo la fila di negozi e centri commerciali di Marszałkowska e, imboccando una traversa, avevo trovato un ristorante ceco dall’aria gradevole, abbastanza frequentato da non farmi sentire ramingo. O forse mi aveva convinto il fatto che si trovava così vicino al luogo di quell’ultima cena con te e quelle persone di quattro anni prima. 
Mi ero accomodato a un tavolo laterale e avevo ordinato un arrosto e una birra. Poi, con mia grande sorpresa, ero riuscito a smettere di pensare. Adesso ero solo un uomo che mangiava e beveva, lasciando vagare gli occhi per quel locale, con i suoi arredi in legno, le sue tv accese su una partita di calcio tedesco e i suoi avventori mediamente chiassosi. Solcavo quel mare sonoro con la fluida indifferenza alle onde di un surfista provetto, e intanto una parte di me, come in automatico, sorvolava anni che sapeva essere stati duri, ma che, per un miracoloso armistizio, non facevano più male. Anestetizzato a qualunque dolore, contemplavo la vita altrui con la pacifica quiete di un anonimo semi-apolide. L’indomani avrei finito il mio libro e sarei stato in pari con me stesso. Ma già questa cena era un piacevole anticipo di pienezza. 
A un tratto, lo sguardo mi cadde su una coppia di fidanzati. Una di quelle rare combinazioni di volti ed espressioni che trasudano amore e desiderio. Forse era perché anch’io avrei voluto trovarmi in quella condizione, o perché, in effetti, mi ci ero trovato, agli inizi, con mia moglie Valeria, conosciuta sei mesi dopo che te n’eri andato. Rividi me stesso in una situazione analoga, molto prima che quella matta – sposata troppo in fretta, magari per venir fuori da una crisi più profonda – si rivelasse per quello che era. Così misi giù la forchetta, finii di masticare il boccone che avevo appena addentato e lo ingoiai; quindi posai gli avambracci sul tavolo e li osservai meglio. Lui era un uomo sulla quarantina, barba di media lunghezza, occhiali dalla montatura nera. Lei, una bionda coi capelli a caschetto, trucco leggero, occhi chiari e ridenti. Ero sicuro di non averli mai visti, ma non potei fare a meno di notare qualcosa di consueto in loro, o piuttosto tra loro. Una chimica, un’energia particolare. E non era semplicemente il fatto che mi ricordavano il me stesso di qualche anno prima. No, era qualcosa di più sottile e sfuggente. Dissimulai il mio interessamento dietro un’altra sorsata di birra, e intanto cercai di aguzzare l’attenzione, concentrandomi sui tratti di lei, davvero carina ma profondamente diversa dalla mia ex moglie. Quella luce speciale nei suoi occhi: dove l’avevo già vista? 
Fu a quel punto che rammentai. O meglio, misi a fuoco, ricordando a quello che la mamma aveva sempre pensato di te – che fossi scappato con un’altra donna. In effetti, mi resi conto che quello sguardo l’avevo colto proprio sul viso della tua cliente. Te l’aveva rivolto in un paio di momenti di quella serata, in risposta alle battute buffe che sapevi sempre fare. Al tempo l’avevo presa per civetteria femminile, ma ora, davanti alla scena di questa coppia di innamorati, la probabile verità mi si stava rivelando nella sua banale evidenza. Una fuga d’amore. Forse le cose erano andate davvero così. Improvvisamente mi apparve scontato, perfino ridicolo nella sua ovvietà. 
Non fosse stato che per un particolare: un uomo che fugge con un’amante può, se ha pochi scrupoli, non farsi più sentire dalla moglie, ma mai e poi mai dimenticherebbe un figlio. Men che meno tu, che mi volevi bene e avevi insistito perché venissi a fare quel viaggio in Polonia insieme a te. 
La mattina dopo mi ero svegliato con l’intenzione di scrivere l’ultimo capitolo, ma il compito si era rivelato subito irrealizzabile. Non riuscivo a immedesimarmi nel tuo punto di vista, per raccontare una storia ancora immersa nell’ombra di tanto mistero. Avrei voluto farti confessare, con un atto di autoaccusa che avvalorasse la tesi più semplice, permettendomi di smettere di pensarti. Ma com’era possibile? Tu che, cinicamente, mi davi un arrivederci pur sapendo che sarebbe stato un addio? Sarebbe stata un’immotivata crudeltà, un’inaccettabile contraddizione col buon senso dell’uomo che conoscevo. 
A quel punto avevo capito: il romanzo doveva portarmi a quell’inevitabile punto morto. Era un’equazione impossibile, una di quelle senza risultato, o magari con infinite soluzioni, tutte contrastanti tra loro e tali da delineare percorsi di verità simili a universi paralleli. E allora avrebbe smesso di essere una cronaca, un mémoire o qualcosa del genere, per cedere il passo a una ricerca destinata a svolgersi nella realtà, fuori dalle pagine di un manoscritto. 
Per questo ero uscito: per tirare un rigo nero, che segnasse il mio nuovo inizio. 
Da Plac Zbawiciela mi diressi verso il Park Łazienki, dove spesso venivo a ricaricare le batterie mentali. Qui, forse, avrei individuato uno spunto capace di orientarmi. Il mio orario preferito era la sera, quando trovavo meno gente in circolazione e potevo lasciar pascolare i pensieri, intravedendo scenari che poi avrei messo su carta. Ma adesso la situazione era diversa. Il testo non contava più. Era la vita a chiamare: la misteriosa vita che avevi intrapreso dopo esserti lasciato alle spalle me e la mamma. E, dovevo ammetterlo, anche la mia: perché da quel giorno non ero stato più veramente vivo, ma una specie di satellite di una stella implosa, in attesa di essere risucchiato nel gorgo del suo buco nero. 
Decisi di seguire la suggestione di questa metafora, mentre m’incamminavo per uno dei viali laterali del parco, a quell’ora attraversato da signore col passeggino, anziani e qualche studente in tenuta da jogging. 
Dicevano che, sull’orizzonte di un black hole, il tempo si fermava. Che, superato quel limite di singolarità, non poteva più esservi ritorno, perché tutto, luce compresa, veniva attratto in un precipizio superiore a qualunque resistenza. Be’, io dovevo essermi fermato proprio in prossimità di quel punto, perché percepivo la contraddittoria sensazione di essere sottoposto a un’attrazione irresistibile, ma insieme era come se il tempo, anzi tutti i tempi che avevo sperimentato sulla mia pelle, fossero andati incontro a una progressiva e impressionante frenata. E se il tempo scorreva tanto più lento quanto maggiore era la gravità, voleva dire che la tua assenza si era convertita, per me che avrei voluto dimenticarla, in un magnete capace di azzerare qualunque fuga in avanti. 
Ero rimasto solo, e qui, davanti a una parata di alberi e viali ordinati nel verde, il mondo sembrava essersi denudato, ridotto a mera superficie di svolgimento delle cose, sulla quale ero come spalmato e impossibilitato a perforarla per scendere più in basso. E, su questa membrana mossa e corrugata, riuscivo a distinguerli, quei tempi: momenti, periodi, epoche. Tutti i pezzi della mia vita – segmenti d’interazione con l’universo che inevitabilmente erano passati attraverso te, anche da quando non c’eri più o eri chissà dove. Erano lì, simili a creature isolate su una pianura, incapaci di orientarsi perché concepite per non comunicare tra loro; legate da un filo invisibile di nessi di causalità, ma fondamentalmente limitate in se stesse. La mia infanzia, l’adolescenza, la giovinezza, con gli amici, gli studi, l’emergere di una vocazione artistica che inizialmente avevi osteggiato, ma che in seguito avresti iniziato a rispettare. E poi il tuo lavoro, in cui a volte – compresa l’ultima – ti avevo seguito, il definitivo raffreddarsi dei rapporti tra te e la mamma, che poi avrebbe deciso di trasferirsi nella casa al mare. I miei primi successi letterari, le mie errabonde storie d’amore. 
Era tutto lì, intorno a me, e sembrava ammiccarmi, indicarmi da lontano o aspettarmi ritto sulle zampe, come fanno i cani quando vedono arrivare un estraneo da una certa distanza. Voleva interagire con me, anche se io non ero sicuro di desiderarlo. Forse non ero pronto. O magari invece sì, chissà. 
Pensai questo mentre imboccavo il mio viale preferito. Soffiava un vento leggero e non faceva caldo, per quanto fosse un settembre particolarmente mite. Ci fu una pausa di almeno dieci secondi, durante la quale il tratto di strada rientrante nel mio campo visivo non venne attraversato da nessuno. Mi sentii in una condizione di pace e riposo che ormai di rado mi capitava di sperimentare. Quel rettilineo somigliava vagamente a un percorso che a Firenze mi trovavo spesso a fare a piedi. Giusto dietro casa. Non era simile nelle forme – quello era un sentiero lungo un torrente –, ma decisamente consonante nelle atmosfere. Anche lì, come qui, molte volte non c’era anima viva. Solo pallide ombre spettrali, disseminate su quello che aveva l’aria di essere un piano convesso, frutto della curvatura terrestre. Se ne stavano silenziose e tristi, orientate in direzioni diverse e incuriosite dalla mia presenza. Io non le consideravo; sapevo soltanto che c’erano, e intanto sentivo la ghiaia sotto le mie suole e procedevo lungo l’argine di quel corso d’acqua nei pressi di Scandicci, inseguendo idee, astraendomi dalle pressioni per non ricaderne vittima, ma in ogni caso guardando in faccia alle cose, o almeno alla parte di realtà che riuscivo a vedere. Non era l’unica parentesi di silenzio che Firenze sapeva regalarmi. Ne avevo trovate pure altre, in varie zone della città. Ma quella era la più frequente, come un atto rituale che tornava a presentarsi per suggerire accenni di risposte. Vi si riverberavano suoni di casa, echi di pentole spostate, di aspirapolvere trascinati sulla moquette, di voci di vicini filtrate dai solai. Tutti microfilamenti di presenze che ancora mi circondavano, evocate da te, dalla tua assenza e dall’enigma che mi avevi lasciato in carico. 
Se non eri scappato con una donna, perché lo avevi fatto? Per la prima volta mi balenò chiara in testa la possibilità che quella fosse stata una parvenza di verità – costruita o meno, non potevo saperlo – tale da indurre in errore, nascondendo però una sostanza ben diversa. Così ripensai al nostro rapporto: una curiosa miscela di formalismo e confidenza, distanza e intimità. Una successione discontinua di fasi in cui non eravamo mai veramente arrivati a conoscerci. Tu, uomo d’affari, personificazione della con- cretezza, spesso risuonavi con me in dissonanza, soprattutto da quando la mia mente era stata permeata dalla lettera- tura. Eppure, fino all’ultimo mi avevi sempre seguito con affetto. Ma allora – ancora una volta – perché eri svanito nel nulla? 
Lo Zamek Ujazdowski si ergeva tranquillo in lontananza, con la sua sagoma elegante e la sua copertura color verde chiaro, ricordandomi una villa sulle colline dietro Scandicci su cui lo sguardo mi si appuntava, quando camminavo lungo il mio personalissimo viale dei silenzi. Era una specie di calamita energetica, capace di assorbire innumerevoli vibrazioni interferenti con la percezione del mio centro interiore. Avevo percorso molte volte quella strada dopo la tua scomparsa, e ancor più dopo che anche mia moglie si era dileguata. Doveva essere stata la sommatoria delle vostre due assenze a rendere più viscerale il mio rapporto con quell’itinerario. In quella pace avevo cominciato a cercare risposte, o quanto meno a pormi domande. Ma l’unica vera urgenza che avevo sentito era stata quella di allontanarmi. Aveva preso possesso di me lentamente, con la determinazione di un maestro deciso a farti apprendere una lezione. Mi tratteneva un senso di lealtà verso la mamma – che peraltro viveva la sua vita a Marina di Pietrasanta senza alcun apparente problema. Poi, però, la vocazione artistica aveva preso il sopravvento, e mi ero convinto a venire fin qui: nel luogo dello strappo. 
Adesso che c’ero e avevo pressoché completato il mio lavoro, ecco che il viale e il castello-villa sullo sfondo tornavano a manifestarsi, portando con sé echi magnetici capaci di zittire tutte le altre voci e immagini, e perfino gli odori: l’aria era perfettamente neutra, senza neppure vaghi sentori di fragranze naturali. 
Fu in questo vuoto che, senza un perché, mi venne in mente il cognome della coppia con cui avevamo cenato nel ristorante del Teatro della Commedia. Era impronunciabile, e per questo dovevo averlo rimosso, optando, nel romanzo, per due nomi di fantasia.
Kaczmarczyk. Mirosław e Justyna Kaczmarczyk: così si chiamavano, ed erano forse le uniche due persone che avrebbero potuto darmi uno spunto. 
Ammesso che fossero disposte a dire la verità. 


Arkadia Editore

Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

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