“Volevo soltanto salvare le mie parole” su Il Pensiero Mediterraneo
Giorgio Bona, Volevo soltanto salvare le mie parole
“Osip Mandel’štam come Anna Achmatova aveva imparato prima di altri cosa significasse l’epoca staliniana”, scrive Giorgio Bona in Volevo soltanto salvare le mie parole. E lo sapeva ancheMarina Cvetaeva: tutti e tre vivevano gli stessi problemi e condividevano gli abiti logori e consumati, “stracciati come la loro anima.” Mandel’štam (Varsavia 1891, Vladivostok 1938), poeta, letterato e saggista, da molti considerato il più grande poeta russo del Novecento, fu vittima delle purghe staliniane. Fu esponente importante dell’acmeismo, un movimento letterario nato in opposizione al simbolismo francese. “La sua popolarità era pari a quella di Vladimir Majakovskij, Sergej Esenin e con Marina Cvetaeva esprimeva grandi e nobili valori con la profondità e la bellezza dei suoi versi.” Era cresciuto in una benestante famiglia ebrea che non frequentava la sinagoga, aveva frequentato la Sorbona e l’università di San Pietroburgo, aveva viaggiato molto, anche in Italia, e pubblicato presto poesie che gli valsero la fama. Il primo maggio del 1919 incontrò Nadežda non ancora ventenne a Kiev; si sposarono tre anni più tardi e lei gli rimarrà sempre accanto, coraggiosa, tenace e innamorata. Con una importante bibliografia che contempla tutte le opere di Mandel’štam, quelle di Nadežda Mandel’štam, di Sergej Esenin, di Marina Cvetaeva, Giorgio Bona accompagna il poeta nell’ultimo anno di vita, quando ha occhi di spie addosso, ridotto a straccione affamato, malato, tuttavia dignitoso, che trova la forza nella scrittura, pur essendo questa la ragione della sua condanna. Infatti, pur aperto inizialmente alle idee socialiste come portatrici di progresso, si fa duro critico della politica staliniana. Se già il suo Viaggio in Armenia era stato criticato dalla Pravda per idee anticonformiste e di critica al sistema militare, nel 1933 l’Epigramma di Stalin definito da Mandel’štam “il montanaro del Cremlino” suggellò la sua rovina: “Viviamo senza sentire sotto di noi il paese / a dieci passi le nostre voci sono belle e perdute / e ovunque ci sia spazio per poche chiacchiere/ si porge un breve dialogo / là ti ricordano il montanaro del Cremlino / le sue tozze dita come grossi vermi / come ghisa le sue ferme parole / ti scherniscono i suoi occhi di blatta / brillano i suoi stivali.” Dopo l’esilio coatto a Voronež, un posto dimenticato dal mondo, dove ogni tre giorni doveva firmare la presenza nell’ufficio della milizia, rientra a Mosca, ormai non più accolto né accettato dall’Unione degli Scrittori, e nemmeno aiutato da Boris Pasternak, il suo direttore, “troppo utile all’apparato perché ne potesse perdere i privilegi” sostenendo Mandel’štam, e il cui lavoro “consisteva nella valutazione per il riconoscimento del valore di poeti e scrittori, ma forse non si fermava qui.” Ora “lo scrittore doveva passare, senza arte né parte, dalla parte del nuovo committente sociale”, altrimenti era perseguitato: “Seduta sul cadavere della poesia uccisa da Stalin e i suoi accoliti, la polizia segreta dava la caccia ai poeti, inseguiva i liberi pensatori, le anime belle e questa era la vera ragione della loro disperazione, della disperazione di Osip.” Ormai tutto ciò che scrive viene considerato contro il sistema; lui è minacciato e “invitato” a non scrivere più niente: i miseri sedici metri quadri dove vive vengono perquisiti e viene sequestrato ogni scritto che Nadežda non è riuscita a nascondere. “Era un sorvegliato speciale che sentiva la corda tesa intorno al collo da circa tre anni, aspettandosi da un istante all’altro l’arresto.” Inutili le sue richieste di un lavoro che potesse salvare lui e Nadežda dalla fame, poco quello che lei ricavava dalle lezioni private e dalle traduzioni, loro sopravvivono per la pietà di qualche vicino, si dividono un uovo regalato e un pugno di ceci. Camminando per le strade gelate con un cappotto rattoppato e le allucinazioni della fame, “si fermava ad annusare l’odore dei cibi che uscivano dalle cucine delle mense di Stato e osservare quei pochi, frettolosi passanti con la borsa della spesa fatta con la tessera alimentare.” Ciò che scrive, compresi gli studi su Dante, deve essere tenuto nascosto nella consapevolezza del rischio. L’alternativa è rinunciare a scrivere, obbedendo al regime. Non potevano aiutarlo Marina Cvetaeva e Anna Achmatova, anche loro “poeti imbavagliati. Lontani dai lettori. Narcotizzati. Senza parola”, a cui era impossibile affidare gli scritti. Ma Nadežda si mette con ostinazione a imparare a memoria i versi del marito. La poesia era “la spinta verso la disperazione, ma era anche il canto da elevare verso l’alto”, con uno sguardo verso la miseria, la sofferenza, ma anche la bellezza delle cose. Nella sua poesia, come in quella delle due poetesse, c’era sempre una grande dignità, “una fierezza che la volgarità dei tempi in atto non sarebbe mai riuscita a piegare.” E se il potere uccideva in nome della poesia, significava che essa era temuta. Purtroppo era arrivato il momento “della gente qualunque. La gente qualunque non è intelligente. La gente qualunque ama questo stato di cose. E allora l’intelligenza dovrà bussare per entrare.” Lo stalinismo era “una barbarie dal volto disumano”, il suo processo di avvelenamento della letteratura appariva inarrestabile. Vivere era un atto di coraggio, ma i sogni alimentavano ancora l’amore di Nadežda: “Aveva sognato una casa con una finestra aperta su una via piena di vita. Sognava una dispensa con verdure, latte e formaggio.” Rimaneva, a consolazione, la consapevolezza che “la poesia è il potere perché ha vigore, perché va oltre il tempo. Quando il poeta muore, continuerà a vivere nei suoi versi.” Pur nel dolore, se Nadežda “imparerà questi versi, ne farà una cassaforte della memoria, non sarà per il dolore e per la paura, sarà per la gioia e per la vita. Per la vita di Osip, per l’eternità.” Osip Mandel’štam muore nel 1938, sfinito, affamato, malato, nel campo di concentramento di Vtoraja Rečka presso Vladivostok.
Marisa Cecchetti
La recensione su Il pensiero Mediterraneo




