“Volevo soltanto salvare le mie parole” su Zona di disagio
Osip, il poeta che voleva salvare l’uomo con le parole
Giorgio Bona, Volevo soltanto salvare le mie parole, Arkadia, Cagliari, 2025, pp. 204.
È un libro aspro, potente, terribile quello che Giorgio Bona consegna ai suoi lettori. Un libro che scandaglia gli ultimi mesi della vita di Mandel’štam, una delle voci più alte dell’universo poetico novecentesco, e lo fa con una prosa profondamente intrisa di poesia, spezzettando la narrazione con frasi che sono quasi versi, e che del verso posseggono a volte la crudele perentorietà. Ma lo fa anche con il piglio dello storico che vuole documentare ogni passaggio, appoggiandosi sulle fonti dell’epoca, fra le quali impossibile non ricordare le magnifiche memorie di Nadežda, la moglie del poeta. Ma lo fa, soprattutto, dialogando con i versi del poeta stesso, che tramano i sedici capitoli del romanzo, prima che il libro giunga al suo compimento con la bellissima lettera che Nadežda volle inviare al marito, sapendo che non l’avrebbe mai letta, il 22 ottobre 1938. Volevo soltanto salvare le mie parole è il titolo di questo libro tutto in bianco e nero, in cui già si riassume la sproporzione tra la fragile persona del poeta, armata solo di immagini e di parole, e l’impressionante apparato repressivo dell’era staliniana. E non è un caso se nel piccolo catalogo che il poeta riesce a salvare dopo tante peregrinazioni (siamo ancora nel secondo capitolo del libro), spicchino i nomi di Dante e di Tasso: uomini che avevano patito l’ombra del potere, anche se mai come lo stavano patendo i poeti russi scivolati a poco a poco nell’imbuto degli anni Trenta, dominati dalla figura del «montanaro del Cremlino, / l’assassino e il mangiatore di uomini» di due versi che certo molto costarono all’autore, e che ricorrono nello squallido dialogo che intercorre tra Mandel’štam e Pasternak. A volte, come all’inizio del cap. 3, la narrazione si fa concitata, al limite del monologo scenico: «Sparire! / Suicidarsi! / Dire basta! / Urlare basta con il corpo, perché l’anima è immortale». A volte l’autore indugia in particolari descrittivi che restituiscono il clima poliziesco di quei giorni, l’affresco di una Mosca «invasa dalla pellagra e dal tifo», dove l’aria «puzzava di fogna e di pesce marcio». Solo la figura di di Nadežda sembra poter alleggerire le tonalità scure del racconto, spostandolo sul piano degli affetti e della dedizione. E a volte, nella bruma dolorosa delle pagine, si insinuano ricordi di un altro passato, come quello dell’appartamento borghese di San Pietroburgo, dove la madre del poeta suonava il pianoforte o leggeva i grandi poeti del romanticismo tedesco. E dentro la trama del libro sono i versi del protagonista, le parole che esprimono non solo una resistenza morale ai tempi, ma una forza conoscitiva che oltrepassa i tempi stessi. E sta proprio qui il valore del libro di Giorgio Bona, scrittore che ha sempre evitato ogni forma di semplificazione dei fatti storici e sociali, cercandone i nessi profondi. Lungo i sedici capitoli del libro, fino all’Epilogo finale, non è solo lo sprofondamento di un poeta nello spaventoso laboratorio sociale del regime staliniano, ma anche una sorta di caduta dentro la bocca di quello che i tragici greci avrebbero chiamato un destino. Mandel’štam, il poeta che confessò di non appartenere al presente, sente a un certo punto del suo tragitto esistenziale di non appartenere più a nulla, come se questa fosse la scoperta più tragica del suo breve tragitto esistenziale. «Manca il respiro, il firmamento brulica di vermi, / non una sola stella parla», aveva scritto quasi vent’anni prima. E adesso, sul vagone che lo porta al campo di concentramento di Vtoraja Rečka, sente che «Il dolore, il male, non hanno vie d’uscita. / Soltanto vicoli ciechi», e che il «suo cuore era vuoto». A colmarlo, forse, sarebbero stati i suoi versi, o la strenua dedizione di Nadežda. «Addio» è l’ultima parola del libro. Ma in epigrafe avevamo già letto questi due versi premonitori: «Ho imparato la scienza degli addii, / nel piangere notturno, a testa nuda».
Giancarlo Pontiggia
La recensione su Zona di disagio




