Xaimaca

I primi due capitoli dell'opera di Ricardo Güiraldes. Traduzione di Riccardo Ferrazzi e Marino Magliani

 

28 dicembre 1916. Buenos Aires 

Prima di tutto vorrei riappropriarmi delle mie sensazioni, come se il mio viaggio fosse il punto di partenza verso una meta prestabilita.
Le cose si iscriveranno in me sulla base alle mie nevrosi e mi interessa così tanto l’osservazione di me stesso che intendo fissare ogni giorno il mio modo di reagire agli imprevisti.
Vado in Perù per approfondire la conoscenza dei resti della civiltà preincaica. Però non so ancora se sbarcherò a Mollendo, al Callao o a Trujillo.
Da modesto esploratore delle mie sensazioni, porto con me il bagaglio ideale della mia grande curiosità; il mio patrimonio è una cifra sufficiente per un viaggio di cinque mesi e il mio bagaglio, indispensabile, sono i miei bauli e il biglietto di imbarco.
Per oggi basta. 

 

31 dicembre. FCP

 

Ore 8.00. Mi sono sistemato in treno in tutta fretta. (Un treno che qui è piuttosto lungo e fra poco sarà un nulla perduto nella pampa). Buenos Aires, Mendoza, Santiago. Attraversamento della Cordigliera con grande esibizione di vette, declivi e ogni altro immancabile ingrediente.
Farà caldo e l’aria sarà piena di polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli indigeni. Frattanto, gruppi di gente della provincia si aggirano per le banchine e i corridoi: eroi che tornano a casa dopo aver conquistato la metropoli. Meglio stare in un angolo e guardarli con il dovuto rispetto. Cappelli grigi, martingale, guanti consumati, colorito smorto e capelli lisci.
Sale nella mia carrozza una coppia che ho incontrato nell’agenzia dove ho comprato il biglietto. Ricordo che allora guardai la donna come se fosse un’attrice di cinema che vive in un paese dove non andrò mai. Adesso mi par di cogliere un significato nella coincidenza che ci fa ritrovare. Mi domando: sarà pericoloso?
Rispondo con un’altra domanda: vivere non è un pericolo continuo? 

Ore 11 meno 25. Mercedes

Ci siamo sorbiti due ore di piattume, interrotto da frequenti «eruzioni» di alberi.
È tutto così spianato. Oh, che nostalgia della Svizzera!
Oh, convesse soavità e piccoli rivi che gorgheggiano dolcemente! 

Ore 15, 10. Alberdi

A poco a poco gli alberi sono divenuti meno alti, la terra si è riempita di erba medica e, chiara come un varco fra due montagne, la pampa si è spopolata nella sua naturale aridità.
Dalla nostra piccola statura di uomini infimi, lo sguardo è una corta tangente che ritaglia una frazione del pianeta. Oltre, al di là di ogni immaginazione, il mondo continua; il mondo, cioè la pampa.
La pampa madre infonde in me una goccia di linfa che vuole farsi canto.
Mi hanno parlato del caldo con tanta insistenza che il fatto di non essermi ancora sciolto mi consola. Sto in pigiama, chiuso nel mio scompartimento. Il vento entra dal finestrino aperto, agita i miei panni e soffia sulla mia pelle: è tiepido e pesante come un piumone. Respiro lentamente. Di quando in quando, gocce di sudore tracciano striscioline di solletico sui miei fianchi. Non mi viene in mente niente di bello e, costretto come sono a sopportare ore e ore di questi opprimenti eccessi climatici, ansimo abbrutito dall’astenia, come un cane schiacciato dal sole a perpendicolo nell’ora della siesta.
Alle cinque, un vento che trascorre sulla superficie della pampa mi ha restituito le forze corrispondenti alla mia età di venticinque anni.
Alle sette, al ritmo sbarellato del treno, passo nel modo meno ridicolo possibile fra i tavoli del vagone ristorante.
Il cameriere mi conduce lungo il corridoio e mi indica il posto assegnato. Toh, che fortuna! Capito proprio al tavolo della coppia che mi interessa.
Saluto sobriamente per mostrare che non voglio essere inopportuno, e siedo al mio posto deciso a comportarmi con la massima discrezione. Ciononostante, ciò che sul tavolo è in comune ci costringe a essere cortesi; e così, per via del sale, di una carota o del formaggio profumato, ci scambiamo compite gentilezze.
Il mio interlocutore è poco loquace e la sua compagna neanche si accorge di quanto mi sforzi a interessarla parlando di armadilli marinati o agoni al forno. Per fortuna, proprio mentre ci stiamo offrendo e restituendo lo zucchero per il caffè, qualcuno ci saluta e ci chiede il permesso di conversare con noi.
Paco è un ragazzo cileno che conosce tutto e tutti da Lima a Montevideo. Soddisfo due o tre domande sulla mia famiglia e i miei amici, e lui subito si rivolge ai miei commensali e intavola un dialogo che mi preparo ad ascoltare.
Chi è, cosa fa nella vita la mia vicina dagli occhi chiari immersi in una persistente concentrazione? Per un po’ la loquacità di Paco non dà modo di accorgersi che qualcosa è di ostacolo alla conversazione. Finalmente chiede scusa e fa le presentazioni: «Il signor Galván, la signora de Ordóñez, il signor Peñalba.»
La signora de Ordóñez e il signor Peñalba? Questa differenza dei cognomi mi dà da pensare: li rimescolo come se cercassi di scoprire il trucco di un gioco di prestigio.
Il resto della conversazione è breve. Vengo a sapere che i presunti sposi sono fratello e sorella. 


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