Michela Capone con “Ascoltami” su Affaritaliani.it
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3 novembre 2014
Separazione, ecco i racconti dei figli spezzati dalla guerra tra ex
In libreria “Ascoltami. Le parole dei figli spezzati” di Michela Capone (Collana Paideia, Arkadia Editore; con un intervento di Luigi Cancrini; pagine 136, euro 13,00). Il saggio rientra nella terna di finalisti della sezione saggistica del Premio Letterario Francesco Alziator. Affaritaliani.it, in accordo e per concessione dell’editore, pubblica l’introduzione e una delle storie raccolte nel volume.
Genitori separati e figli contesi: un binomio che caratterizza in maniera sempre più importante la famiglia italiana. In caso di separazione le prime vittime sono loro, i figli: adolescenti, ma anche bambini, ‘spezzati’ e troppo spesso inascoltati. Michela Capone, giudice del Tribunale per i minorenni di Cagliari, ha raccolto le loro storie in un libro: “Ascoltami.. Le parole dei figli spezzati”. Il saggio ricostruisce le dinamiche familiari e psicologiche che si creano in seguito alla separazione attraverso le testimonianze dirette dei ragazzi, condannati a districarsi in un panorama di relazioni familiari distruttive. La voce del magistrato è in sottofondo, quasi celata, così come le figure dei genitori, tratteggiate dalle parole, ora dure, ora cariche di una sorprendente saggezza, dei figli. Il lavoro di raccolta delle dichiarazioni dei figli condivisi, articolato in varie parti, ciascuna delle quali è accompagnata da un breve commento dell’autrice, si propone di difendere il diritto dei minori a vedere riconosciuta la propria individualità da adulti che tendono a ridurli a specchio dei loro desideri e disegni personali.
L’AUTRICE – Michela Capone vive e lavora a Cagliari. Sposata e madre di tre figli è entrata in magistratura nel 1987 e attualmente è giudice presso il Tribunale per i minorenni di Cagliari. Svolge seminari nel corso di Legislazione Penale Minorile alla Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari e ha pubblicato diversi articoli su riviste giuridiche specializzate. Il suo primo romanzo Quando impari a allacciarti le scarpe (Carlo Delfino editore, 2009), ha vinto il premio Alziator 2010. Nel 2012 ha pubblicato sempre per Arkadia Editore il romanzo “Per sempre lasciami” e partecipato alla raccolta di racconti La cella di Gaudí.
Affaritaliani.it, in accordo e per concessione dell’editore, pubblica di seguito l’introduzione dell’autrice Michela Capone e una delle storie raccolte nel volume (Valeria, 12 anni)
INTRODUZIONE
Entrano nella mia stanza, la stanza del giudice, con il capo chino, il viso pallido o lievemente congestionato, mi guardano appena e non si voltano verso i genitori che, insieme agli avvocati, li hanno accompagnati in Tribunale: sono imbarazzati. Si accomodano sulla poltrona con le rotelle: l’agitazione subentrerà all’iniziale stato di immobilità. Su mio invito si presentano, si identificano con voce incerta: cognome, nome, luogo e data di nascita; lasciano andare un’espressione rassegnata, da adulto che ne ha passate tante. Io sto dall’altra parte e spiego le ragioni del nostro incontro: un incontro importante, per loro che devono capire il procedimento che li coinvolge, e per il Tribunale che deciderà tenendo conto di ciò che diranno. Lo sanno: la madre, il padre, l’avvocato li hanno informati. Sono sulla difensiva e scrutano la stanza: i più disinvolti mi chiedono a che serve la “tunica nera” appesa nell’attaccapanni di acciaio, arredo di serie del mio ufficio. La toga da giudice vero, come qualcuno commenta soddisfatto, riveste di solennità la situazione. Mi siedo nella poltrona accanto alla loro. D’istinto si allontanano e iniziano a raccontarsi stentatamente mentre io, come ancora spiego, scrivo per non dimenticare niente. Faccio il possibile per instaurare un rapporto di fiducia, faccio appello alla mia lunga esperienza di giudice minorile. Non è per la mia abilità di professionista che mi danno del tu e che, dopo poco, mi investono come un fiume in piena; percepiscono di avere un’occasione preziosa per essere ascoltati. Sono ragazzi in sottovuoto emotivo che improvvisamente sbottano e parlano in un crescendo vorticoso. Hanno molto da dire e vogliono dire a me, ma soprattutto ai genitori che leggeranno le loro dichiarazioni. Non invocano la riservatezza, anche se mi chiedono di conservare i loro “segreti”, in fondo desiderano il contrario: traspare dal loro modo di esprimersi la volontà di avere ben altri interlocutori. In quei turbini di parole percepisco disagio, impotenza, insicurezza, sensazione di mancanza di protezione e di allarme continuo, solitudine, rabbia, tristezza, prepotenza, voglia di vendetta, di fuga, stanchezza, desiderio di libertà emotiva, sentimenti racchiusi nella sofferenza del sentirsi “spezzati”. A volte piangono silenziosi, oppure si imbronciano e frenano le lacrime quando ostentano risentimento verso uno dei genitori e mi implorano di non farglielo più incontrare, quando ricordano scene di violenza in famiglia, quando mi confidano il sogno di una famiglia, della loro famiglia, con mamma e papà che fanno pace o che, almeno, non urlino. Sono amareggiati per il fallimento di una realtà familiare in cui avevano riposto affetti, ideali, valori. Vivono la loro crisi adolescenziale in un mare aperto, senza appigli e senza speranze. Si agitano, si fregano le mani, si toccano i capelli, tossiscono, girano nella poltrona con le ruote e spesso mi danno le spalle. Balbettano o si mangiano parole faticose, per esorcizzare il dispiacere. Sembrano fratelli, parte di una stessa famiglia andata in frantumi, reclamano un adulto che li ascolti senza farli sentire in colpa e senza caricarli di responsabilità. Vogliono essere riconosciuti come persone e recuperare un’identità resa invisibile da un adattamento forzoso a una situazione che ha richiesto un pesante investimento di energie psicologiche. Rivendicano il diritto a una vita affettiva svicolata da beghe di adulti. Il momento della sottoscrizione delle dichiarazioni (faccio sempre firmare il verbale a prescindere dal valore giuridico) contribuisce a farli sentire protagonisti della loro storia: le firme sono sempre apposte con grafia chiara e sicura. Sono i figli della conflittualità genitoriale, i figli dell’affidamento condiviso, i minori che la legge nazionale e internazionale mi prescrive di ascoltare. Hanno tra gli undici e i diciassette anni, sono ragazzi con “capacità di discernimento”, ragazzi che, senza nessuna velleità di interpretazione psicopedagogica, sento direttamente con la collaborazione degli avvocati che, sensibili, non domandano di presenziare alla loro audizione e consentono che si esprimano liberamente. I figli non sono testimoni da interrogare per trovare riscontri di tesi di parte o per individuare la soluzione allo sfaldamento della famiglia, non sono i registi della separazione dei genitori. L’ascolto del minore da parte del giudice che si occupa delle sue vicende familiari non può ridursi a un mezzo di ricerca della sua volontà per liberare gli adulti da scelte consapevoli, perché ciò significherebbe attribuirgli una responsabilità che non gli compete. L’ascolto è strumento fondamentale per l’attuazione del diritto di comprendere le istanze e le scelte che lo coinvolgono e per raccogliere la sua opinione che orienterà nella tutela dei suoi interessi primari. È stata l’intensa reazione emotiva dei genitori, e talvolta degli stessi avvocati, durante la lettura del verbale delle dichiarazioni dei minori da me raccolte a farmi pensare a questo libro, che non vuole essere un testo giuridico, non contiene riferimenti normativi o interpretazioni giurisprudenziali, né statistiche o note bibliografiche. Sono rimasta colpita dai padri e dalle madri che nel corso delle udienze si erano massacrati in nome dei figli, chiamati in causa solo come alleati o giudici dell’uno o dell’altro, ma che nel sentire la loro voce si sono commossi insieme, onorando, nella ritrovata empatia, una genitorialità condivisa. È necessario favorire la cultura dell’ascolto e del dialogo che devono essere mantenuti vivi soprattutto nelle difficoltà familiari, come la separazione della coppia genitoriale, evento che richiede per il figlio un forte ed equilibrato supporto per l’elaborazione di un grave lutto che mina la sua stabilità e la sua sicurezza. L’ascolto dei figli presuppone, nell’adulto, attenzione, disponibilità, sacrificio dei propri obiettivi egoistici. Non è facile quando si devono affrontare le intricate dinamiche relazionali e le molte difficoltà oggettive che accompagnano la separazione di una coppia e che inibiscono una corretta gestione delle emozioni, ma sono convinta non sia impossibile. Trasferito nell’ambito dei procedimenti inerenti alla famiglia, questo obiettivo si traduce nel superamento della diffidenza che accompagna il tema dell’audizione diretta dei minori che, già segnati da vicende dolorose, si vorrebbero proteggere dall’ingresso in un’aula giudiziaria, esperienza considerata foriera di ulteriori e prevedibili traumi psicologici. Fermo restando l’apprezzamento della singola storia del minore, per il quale potrebbe rivelarsi dannoso il contatto diretto con un giudice, deve, per quanto possibile, rispettarsi quello che costituisce un suo vero e proprio diritto: il diritto di essere parte sostanziale del giudizio che riguarda la sua famiglia cui corrisponde, per tutti i protagonisti del procedimento, non solo per i giudici, il dovere di dargli la possibilità di capire, di esprimere i suoi bisogni e le sue aspettative e di tenerne poi conto in decisioni che possono anche essere difformi dalla sua opinione, ma solo quando la stessa appaia in aperto contrasto con i suoi interessi. Nel mio progetto, maturato per la difesa di questo imprescindibile diritto, per dare voce ai ragazzi, ho riportato la sintesi dei nostri colloqui e ho omesso riferimenti a dati personali specifici per scongiurare un loro riconoscimento; nelle parole dei figli spezzati ho individuato e commentato i prevalenti comportamenti genitoriali da loro più sofferti. Mi preme sottolineare che questo lavoro non ha alcuna finalità scientifica.
M.C.
VALERIA (12 anni)
I miei genitori sono in causa perché papà non mi vuole tenere e non vuole pagare per me. Mamma me lo ha detto: abbiamo bisogno di aiuto e mio padre non paga. Mamma ha bisogno di aiuto, lo so e io non so che fare. Mio padre e mia madre sono due persone molto impegnate, si sono conosciute dove lavorano: hanno parlato, si sono guardati negli occhi, sono andati al bar e si sono baciati. Dopo un mese hanno fatto me. Erano molto innamorati e mi hanno fatto per questo, ma forse era meglio aspettare. Se io non nascevo, magari continuavano a essere innamorati. Quando mi sposo, aspetto prima di fare figli, aspetto ad avere i soldi che per la famiglia servono. Io, mamma e papà abbiamo vissuto insieme per cinque anni: non andava bene, i miei genitori bisticciavano. Non mi ricordo nulla, non mi ricordo neanche cosa ho fatto ieri! Mamma mi ha raccontato che io e lei, a un certo punto, siamo andate via da casa, però io la vera storia non la so e non mi interessa. È andata così, non si può cambiare, poi mio padre ha un’altra moglie che mi è pure simpatica; lui mamma non l’ha sposata, anche se erano innamorati, non l’ha sposata. Mia mamma non è la moglie di mio padre, la moglie di mio padre si chiama Anna. Mi piacerebbe avere un fratello, magari figlio di mio padre e di Anna, vorrei un fratello o una sorella per parlare. I miei genitori hanno proprio rotto; non si vedono e parlano dal balcone quando papà mi viene a prendere. Quando papà viene a prendermi citofona e dice a mamma, “falla scendere” e mamma risponde “scende”. Basta. Poi mamma si affaccia al balcone per salutarmi, mi manda un bacio e non guarda mio padre. Anche mio padre non la guarda, rimane in macchina con il motore acceso. A me va bene: i miei genitori non hanno niente da dirsi ed è meglio che non si parlino, perché, se no, bisticciano e io ho paura. Vedo poco mio padre: due volte al mese. Mi piacerebbe vederlo di più, ma lui lavora molto e mi dice che deve essere reperibile. So che dice la verità, mio padre non è uno che dice le bugie. Certe volte mi viene voglia di sentirlo e allora lo chiamo al telefono senza dirlo a mamma. Sto bene e della mia vita non cambierei niente, vorrei solo che papà non prendesse in giro mamma davanti a me e che mamma non parlasse male di mio padre e, soprattutto, mi piacerebbe che i miei genitori non andassero in Tribunale. Sono anni che vanno in Tribunale. Tanto non cambia nulla.