“Forse un altro” su Satisfiction

FORSE UN ALTRO. INTERVISTA A MICHELE ZATTA

Forse un altro è un romanzo di Michele Zatta uscito per Arkadia nella collana Sidekar e pare dilatazione di una partitura cinematografica, teatrale, una scrittura che implica un oltre la pagina. La musica è presente non solo come riferimento della memoria e del presente espanso della voce narrante, ma anche nell’organizzazione dei capitoli e dell’azione. L’accadere è metafisico ma imbevuto di uno stralunato realismo allegorico che riprende i cicli delle moralità medievali, i morality plays. Nella sospensione e nella transizione si svolge dunque il destino di una scelta. Alcuni personaggi cruciali, pur essendo allegorie, hanno per così dire una loro personalità. La Morte, il Destino, la Vita, non sono semplici maschere ma esseri mortali alle prese con le proprie nostalgie, i desideri, il tempo. La temporalità del romanzo è una tregua dalla logica binaria, in un caleidoscopio onirico che sa rendere ogni dialogo azione e contemplazione olografica: il presente è passato è futuro. La storia, tra romanzo e sceneggiatura, percorre i bordi delle scelte, si frammenta in capitoli che mescolano invenzione e filosofia, meditazione e metafora. Alterna punti di vista e ci spiazza, di volta in volta, con la vena da humor surrealista (o iperrealista?) Non manca il sottile umorismo (si leggano i sottotitoli ai vari capitoli) e l’autoironia che permette all’autore di scrivere del suicidio e dell’abbandono senza rischiare la retorica o la banalizzazione. Forse un altro è un romanzo originale, esperimenta le forme: Mike, il protagonista, non è un personaggio di carta e dopo la fine del romanzo, «anche quando chiuderai questo libro e non lo riaprirai più» scrive la voce narrante rivolgendosi a chi legge, anche dopo l’ultimo capitolo, potrà capitare che lo si incontri in giro, il giovane Mike, fuori dalla pagina, che magari «sta ancora ballando».

«Un grosso tomo, dal titolo Come riparare i mobili di casa, sostituisce un piede del divano. Aveva giurato di aggiustare anche quello, prima o poi… Ma si sa come vanno certe cose. E comunque ora si apre in un sorriso.»

Sembra che la stessa soluzione sia un problema, e Mike è un personaggio vivo, non una macchietta, un po’ sfortunato, malinconico e proprio il suo gesto problematico e definitivo si ribalta nella soluzione, nella comprensione. Nella realtà potrebbe esistere un personaggio del genere, in un certo senso: a chi ti sei ispirato quando hai creato Mike?

Temo a me stesso. Mettiamola così: tutti i difetti di Mike Raft sono i miei. I pregi invece sono solo suoi.

«Allora, chiariamoci.

Io sono la voce narrante di questa roba qua.

Purtroppo mi hanno licenziato dalla rosticceria e non ho trovato

di meglio.

Neanche ti dico quanto mi hanno pagato quindi ti chiedo il favore di non farmi ripetere le cose.

Ti dico subito che questo è un testo semplice, il vocabolario è povero e già alla ventiquattresima pagina si capisce dove la storia va a parare.»

Fin dall’inizio la tua scrittura ci spiazza con l’ironia e l’umorismo, non solo, ma anche perché è molto simile a una sceneggiatura, ma lo schermo è la pagina: come nasce questo romanzo e quali sono le difficoltà o le opportunità di scrivere, per così dire, un film per una pagina?

Ho scritto migliaia di pagine per la tv ed è chiaro che sono condizionato da questa esperienza. La scrittura per le serie mi ha insegnato a ragionare per  dialoghi e immagini. La mia finalità è quella di coinvolgere quanto più possibile il lettore, di ghermirlo come un’aquila e non mollarlo più. Quanto alla genesi del romanzo è una storia a sé –con innumerevoli colpi di scena- che ho riassunto nel finale. Questo romanzo è figlio del dolore ma alla fine vuole essere un inno alla vita e all’amore. Nonostante tutto.

«I Supertramp, The Korgis, Yann Tiersen e molti altri. Mike infine trova quello che stava cercando e fa partire le note di Twilight Time dei Platters. Accompagna la musica cantando male: “Heavenly shades of night are falling, it’s twilight time… Out of the mist your voice is calling ’tis twilight time…”»

La musica, la leggerezza del passaggio, il volo, la caduta e il ritorno nel mondo: seppur nella brevità del testo, le azioni rendono densa la storia, senza degenerare nell’eccesso. Armonia e varietà, una sinfonia che racconta la vita. Quanto ti è servito ascoltare musica e perché hai scelto proprio quei brani che citi?

In realtà il mio grande sogno sarebbe stato quello di diventare musicista ma sono totalmente incapace di coordinare i movimenti delle dita (e infatti scrivo –a fatica- usando due sole dita, fortunatamente non della stessa mano…). La musica è essenziale nella mia vita. Da giovane passavo giornate intere a incidere le mie compilation sulle audiocassette. Non riesco a scrivere una sola parola se non ascolto musica. I brani che sono citati hanno tutti un particolare significato per me. I due più significativi sono ‘Everybody’s got to learn sometime’ dei Korgis che è legato alla storia d’amore e che segna un momento di svolta del protagonista. L’altro, ‘Sugar baby Love’ dei Rubettes è il brano più emblematico. E’ vitalità pure, è gioia, è follia. Sono entrambi brani della mia gioventù ai quali lego molti ricordi. Ma sono anche –almeno per me- due capolavori assoluti e in qualche modo due pezzi unici dato che il successo dei rispettivi gruppi musicali è essenzialmente legato a quei due brani. Ogni volta che li sento mi emoziono e mi piacerebbe che il lettore li sentisse e li immaginasse quando legge le rispettive scene.

«La Vita gli pone una mano sulla spalla.

“Ma lo puoi ancora esaudire il desiderio dei tuoi genitori, Mike. Devi solo rimetterti in gioco, avere più fiducia in te stesso e riprenderti un sogno, non occorre altro.”»

C’è poi, subliminale, ma poi mica tanto, il fil rouge delle esistenze, il desiderio. Cosa lega, secondo te, desiderio e tecnica letteraria? Sei più nel versante della legge o dell’ispirazione? Credi che la letteratura sia ancora in grado di divertire e far riflettere attraverso l’invenzione e le allegorie, (penso appunto ai morality plays ai quali hai abbondantemente attinto per la scrittura di questo lavoro)?

Desiderio e tecnica letteraria… mettiamola così: il desiderio, la spinta interiore a scrivere è il motore. Per me non ha senso mettersi a scrivere se non si avverte l’assoluta impellenza di raccontare una storia. Poi, certo, bisogna saperla raccontare. Gli israeliani, che sono i più grandi ideatori di concept seriali dicono che il successo è dato per il 10% dall’idea originale e per il 90% dal modo in cui la si racconta. Saper scrivere è una dote che hai o non hai, c’è poco da fare. Certo, puoi affinarla e perfezionarla, ma se quel talento non lo hai, lascia perdere. Sì, ma come si fa a capire se si ha il dono della scrittura o meno? Si scrive e poi – con tenacia ferrea e quasi sovrumana– bisogna riuscire a farsi pubblicare. Io credo che solo il solo il giudizio dei lettori può dare il responso finale. E quel responso per me è legge. Quanto alla seconda parte della domanda sono assolutamente convinto che la letteratura debba essere in grado di divertire. Ho scritto il libro anche con questo intento. Mi gratifica moltissimo il riscontro di alcuni lettori che hanno riso molto leggendolo. Far ridere è difficile e ce l’ho messa davvero tutta per raggiungere questo intento. Ma per risultare davvero coinvolgente il libro deve anche commuovere e far riflettere. Chi prende in mano il romanzo e inizia a sfogliarlo sta spendendo la moneta più preziosa di tutte: il suo tempo. E dunque ho il dovere di ripagarlo al meglio e fare in modo che quella preziosissima moneta venga spesa nel migliore dei modi. Se il romanzo in qualche modo riuscirà a edificare un piccolo nido nell’anima del lettore allora anche tutto il mio tempo passato a scriverlo avrà avuto un senso.

«La storia di questo libro e un piccolo romanzo a sé. Forse un altro trae origine da una delle mie ricorrenti disavventure sentimentali. La prima versione nasce in una calda serata di fine luglio. Ero in procinto di partire in vacanza con la mia ragazza. Che pero il giorno prima della partenza – saggiamente, oggi posso dirlo – mi molla al telefono senza alcun preavviso.»

Alla fine del tuo romanzo hai scritto la Genesi e i ringraziamenti che è davvero un capitolo a sé che mi ha molto emozionato, perché mi sembra che tu abbia messo a nudo il tuo cuore, con la semplicità di chi sa raccontare la complessità del vivere senza precipitare nell’autoreferenzialità, pur raccontando sé stessi. Secondo te che rapporto ha l’opera d’arte, il romanzo, in questo caso, con la vita reale?

Il romanzo è ambientato per buona parte nel limbo e dunque sembrerebbe non aver alcuna attinenza con la vita reale. Ma poi cos’è la nostra vita se non un grande limbo? Non sappiamo come l’universo si sia formato (in ogni caso saremmo di fronte al paradosso che c’è sempre stato o che è nato dal nulla), non sappiamo cosa accade dopo la morte, arranchiamo in un’esistenza totalmente priva di giustizia. Siamo destinati a invecchiare, perdere progressivamente il controllo del nostro corpo, perdere tutte le persone che amiamo. A volte penso che in realtà siamo già all’inferno e che questa vita costituisca la nostra ultima possibilità di riscatto. E il riscatto può essere dato solo ed esclusivamente dall’amore. E quanto più sembra impossibile o inutile trovare la forza di amare, tanto più è necessario farlo. E quando pensiamo di non farcela è lì che dobbiamo cambiare. È di questo che parla il romanzo. Anche io dopo aver scritto questo libro non sono più lo stesso ma un altro. Forse.

 

Gianluca Garrapa

 

Il link all’intervista su Satisfiction: https://bit.ly/3DZLZLX


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