Mario Melis. Il presidente dei sardi

Un estratto del saggio di Anthony Muroni

 

 

 

Un senatore controcorrente

 

 

«Onorevole collega, prendendo occasione dal suo discorso vorrei richiamare tutti ad attenersi al contenuto vero delle dichiarazioni di voto, che non possono essere occasione per disquisizioni esulanti dall’oggetto specifico delle dichiarazioni di voto medesime. Tengo comunque conto che lei è senatore di prima nomina e giustamente ha inteso manifestare il proprio attaccamento alla sua terra: in questo ci trova tutti solidali».
È il 6 agosto del 1976. Quella è l’estate dei temporali, ma a Roma la fa da padrona un’afa che toglie il respiro. Alla radio impazzano le due hit di quei mesi: Non si può morire dentro, di Gianni Bella, e Margherita, di Riccardo Cocciante.
A Palazzo Madama, nel cuore della Roma governativa, al Senato si tiene l’ottava seduta pubblica della VII legislatura repubblicana.
Quel pomeriggio, issato sul piccolo trono della Presidenza dell’Aula, c’è il democratico cristiano Amintore Fanfani, uno dei cavalli di razza della politica post Costituente.
L’onorevole “collega” al quale si rivolge, con affettato e noncurante fastidio, è l’esordiente senatore Mario Melis, avvocato sardista eletto come indipendente tra le fila del Partito Comunista Italiano. Una cooptazione che sa quasi di salvataggio per il glorioso partito dei Quattro Mori, entrato nel decennio con molteplici affanni e percentuali elettorali da prefisso telefonico.
Melis ha appena terminato la sua dichiarazione di voto nel dibattito sulla fiducia al gabinetto presieduto da Giulio Andreotti, quello che passerà agli annali della politica come il governo della “non sfiducia”, fortemente voluto da Aldo Moro, come tappa di avvicinamento a un coinvolgimento più organico dei comunisti, dopo quasi trent’anni di incontrastato dominio democristiano.
L’avvocato sardista dissente, dice che non solo non potrà votare la fiducia ma non potrà nemmeno astenersi. Perché? Semplice, Andreotti, nelle sue dichiarazioni programmatiche, ha scordato la Sardegna e i suoi atavici ritardi infrastrutturali: i trasporti, il turismo fino ad allora riservato alle élite non sarde, la rapina delle materie prime, l’assenza di investimenti sul futuro.
Fanfani, un mostro sacro della Repubblica, gli tira le orecchie per essere andato fuori tema ma l’esponente sardista non soffre gli imbarazzi degli esordienti.
Si rizza in piedi sul suo scranno e tiene lo sguardo fisso sulla Presidenza, forse allenato dalle mille contese nelle aule di Corte d’Assise, in giro per la Sardegna: «Accetto il suo richiamo, ma ritengo fermamente che il Governo avrebbe dovuto occuparsi dei problemi di un’Isola che fa parte del territorio nazionale e dei sardi che sono a loro volta comunità nazionale e che sono discriminati in modo grave e inaccettabile».
Il presidente di Palazzo Madama, dotato di un animus pugnandi che era proverbiale, non gradiva che l’ultima parola fosse di altri, figurarsi di un fino ad allora anonimo senatore arrivato dai confini dell’impero: «Senta, lei può avere anche ragione, ma non può rimproverare questo a un Governo che si propone di fare le cose che ha appena detto».
Era fatta. Fanfani aveva accettato il contraddittorio, cosa non usuale quando un parlamentare ha terminato la sua dichiarazione di voto.
Melis si riappropria della parola e fa quasi una seconda arringa: «Signor Presidente, in quest’Isola di dolore e di oppressione, noi sardisti in piena solidarietà con le altre forze popolari e autonomistiche, conduciamo con incrollabile fiducia la battaglia per la Rinascita, sicuri di quanto il “sardista”, me lo consentano gli amici comunisti, Antonio Gramsci intuì oltre 50 anni fa indicando nell’alleanza tra i lavoratori del Nord e i pastori sardi la mossa vincente della nostra travagliata storia. Il voto contrario non significa però opposizione sistematica sempre e comunque. Noi attendiamo il governo agli appuntamenti offerti dagli annunciati provvedimenti legislativi e saremo ben lieti di votare a favore ove ritenuti capaci di suscitare positive innovazioni. Saremo attivamente partecipi allo studio e alla ricerca di quei nuovi spazi autonomistici che consentano al governo della nostra regione di attuare appieno lo statuto speciale che è alla base della vita democratica isolana: non mancheremo al dovere di iniziativa e di proposte in una visione creativa di nuovi momenti costituzionali, specie per quanto attiene la riforma delle istituzioni statuali, nelle quali si realizza il potere centrale del governo, attraverso il quale oggi si attenta all’autonomia delle regioni. Assolveremo al mandato nel fermo convincimento che la nostra voce critica non si perderà nell’indifferenza di quest’Aula. Sentiamo presente e incisiva la solidarietà degli amici della sinistra sarda e italiana. Con questa abbiamo combattuto la battaglia elettorale, con la sua solidarietà guardiamo con fiducia al nostro futuro nella prefigurazione di un’Italia più giusta e civile».


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