Un paese intero, una nazione, un mondo che faceva finta di niente. Come se di noi non importasse realmente a nessuno. E a nessuno importava dell’altro. Ci stavamo tramutando in fantasmi.
Chi aspettava semplicemente che la guerra finisse; chi pensava che l’Italia avrebbe comunque vinto; chi coperto da una tonaca si credeva capace di trattare con quella carogna di Hitler come aveva trattato con Mussolini; chi trafficava con la speranza di diventare ricco a discapito della vita degli altri. Agli albori della seconda Guerra Mondiale, due ragazzine, due storie che corrono parallelamente senza mai incrociarsi, se non con uno sguardo, ma che hanno in comune la sopravvivenza nel periodo più vergognoso della storia. Sara e Silvana, una ebrea l’altra tisica, una viene allontanata dai genitori per salvarle la vita in un piccolo borgo di Sperlonga,”accolta” da una famiglia dove troverà poi l’amore, l’altra trascorre le giornate immaginando il mondo dietro una finestra del sanatorio Forlanini tra la vita, l’amicizia, la morte e l’amore. “Oddio, la guerra” pensai. “Come sembra lontana. Qui nella terra di mezzo, ogni giorno che passa, è un giorno sottratto alla morte. La battaglia personale di ognuno di noi. Di questa moltitudine di ragazzi e ragazze” Sara, di origine ebrea deve lasciare Roma per volere dei genitori, per sfuggire ai rastrellamenti nazisti, troverà ospitalità (dietro compenso) in una famiglia di Sperlonga dove vivono anche i due fratelli Leone e Giuseppe, uno impavido l’altro si rivelerà un meschino, Sara darà alla luce un meraviglioso bambino di nome Gentile, nato davanti a quel mare che ama tanto, lo proteggerà e lo farà crescere nonostante le avversità della vita. Silvana, la gracile e pur bella Silvana che imparerà a guardare la vita attraverso i finestroni del sanatorio, guarderà le giovani vite che si spengono (Il mio dolce amore stava morendo e io continuavo a far finta di nulla. A sperare che quella vita non si spezzasse.) altre che resistono, che lottano per la sopravvivenza come il “matto” Orlando, in quel luogo dove si faceva un piccolo pezzo di storia… Un atto incredibile di resistenza… episodi simili non si trovano scritti nei libri, ma sono raccontati da coloro che li hanno vissuti e la voce correrà di strada in strada, di piazza in piazza, di rione in rione. Che resistenza fu quella dei ragazzi del Forlanini! Dolce come zucchero e amara come fiele. Maria Caterina Prezioso consegna ai lettori una storia ammantata di magia, quella magia che solo i coraggiosi, i resilienti, i buoni sanno regalare, tra immaginario e autenticità storica, tra personaggi di fantasia e personaggi che hanno reso grande la storia italiana, si muovono i protagonisti de “I giorni pari”, edito da Arkadia Editore. Con un taglio narrativo cinematografico, nel più ampio rispetto del neorealismo italiano che ne omaggia mirabilmente la diacronia degli eventi, dagli anni cruciali del 1940 al 1955, con l’evoluzione delle due ragazze che hanno saputo lottare per salvarsi dalla malattia, dalla povertà, dalle persecuzioni razziali, fino a riprendersi la propria vita, un riscatto nei confronti del male e delle avversità, del resto non c’è speranza senza perdono. Con una scrittura vera e autentica senza fronzoli linguistici, l’autrice ci regala una storia indimenticabile!
Maria Caterina Prezioso è nata a Roma nel 1961 ha pubblicato una raccolta poetica intitolata Nelle rughe del muro (Ibiskos, 1991). Per il teatro ha scritto La risposta di Leonardo (con Giuliana Majocchi, Il Segnale, 1996), messa in scena per la regia di Sergio de Sandro Salvati dalla Compagnia della Medusa (Teatro Oda di Foggia e Teatro Verga di Milano, premio migliore spettacolo) e La stanza. La festa dei Tuareg (Titivillus, 2004). Ha poi pubblicato i romanzi Il gioco n. 33 (Il Ventaglio, 1993), Il colpo (Pequod edizioni, 2008), Cronache binarie (Enzo Delfino Editore, 2011), Blu cavolfiore (Golena, 2013), La ballata dei giorni della pioggia (Kogoi Edizioni, 2016). Nel 2018 esce, coautrice Giuliana Majocchi, Pina & Max (Edizioni Leucotea, 2018). Alcuni suoi racconti e novelle sono stati pubblicati in diverse riviste di letteratura (“Storie”, “Omero”, “In-Edito”, “TutteStorie”, “EllinSelae”). Collabora con la rivista “Satisfiction”.
Loredana Cilento
La recensione su Mille Splendidi Libri e non solo
Mi sono imbattuto in Scudeletti nel leggere, con piacere, il suo Little China Girl. Ammetto che ho saltato alcune cose da lui scritte, ma non sono riuscito a sottrarmi a La laguna del disincanto. In sottofondo, e nemmeno troppo, l’India ma soprattutto Calcutta – che ha subìto, nel 2008, un attentato islamico alla caserma – con il suo quartiere a luci rosse, le costruzioni che cadono a pezzi- veri e propri agglomerati di vita e di morte – con i ceckpoint gestiti da delinquentelli tra vicoli e baracche, una città nella città, un bubbone infetto. In sottofondo e nemmeno troppo Porto Marghera e l’allerta inquinamento in una città dove il cancro è un dono del petrolchimico. Sono tante le cose evidenziate da Scudeletti, e cose non secondarie, come ad esempio l’infibulazione faraonica o sudanese, la più terribile in assoluto; il bullismo, il razzismo e lo snobismo. Sono pagine che ci fanno conoscere l’ “Ufficio lotta e contrasto alla pedopornografia”. Sì perché i bambini sono una merce rara e remunerativa, e le organizzazioni criminali non possono che essere interessate a quel tipo di traffico. La laguna del disincanto ci mette a tu per tu con l’arte cinese che deve essere tenuta in assoluta considerazione, e non solo l’arte, ma anche quella filosofia che dice di seguire un buon viatico investigativo: la prima volta è un caso, la seconda un errore e la terza? La terza è una mossa del nemico, e il miglior risultato è finire in piedi. Un noir che entra nei meandri della tecnologia della comunicazione e del suo controllo, con tutto ciò che comporta, dalla lavagna multimediale alla telecamera wi-fi; con le sue terminologie anglosassoni come deep web o tor (the onion router ) utile per raggiungere siti non graditi a governi repressivi restando anonimi, o lo snuff movie e il wardriving. Il porno vecchio stampo è stato messo da parte per far posto ad un voyeurismo estremo, un vero e proprio grande fratello pedopornografico che arriva alle uccisioni delle vittime, in un evento planetario di pedopornografia. Se si ha a che fare con Scudeletti, non possiamo fare a meno di fare conoscenza anche con le attività di copertura della malavita cinese, come il salone massaggi o il centro benessere e la prostituzione cinese messa in atto non solo per gli italiani ma anche per l’imprenditorialità criminale orientale. Scudeletti indaga, tramite queste pagine, sui cambiamenti che vivono le organizzazioni criminali: le mafie non hanno più capi carismatici ma consigli d’amministrazione.
Volete leggere qualcosa che mette insieme spionaggio, tecnologia, informatica, satanismo? Il piatto è servito.
Edoardo Todaro
La recensione su La Città invisibile
La guerra intima di due donne e delle loro famiglie. La guerra di tutti i giorni in quei giorni che hanno visto l’Italia affondare.
Ho finito di leggere “I giorni pari” di Maria Caterina Prezioso sabato 8 marzo scorso, un giorno pari e Giornata internazionale della donna. Un libro che parla di donne buone ma anche cattive ed egoiste. Donne resistenti, a volte ciniche, ma anche piene d’amore e di vita. Donne che hanno vissuto in un’epoca che le ha segnate e che ha segnato una nazione intera. Leggerlo è stato immergersi in un inciso, tra due parentesi piene di particolari e di persone che non si trovano sui libri di storia. O almeno non in quelli delle scuole superiori. Un inciso che si apre con una citazione di Luis Sepúlveda che rammenta l’importanza di ricordare le storie dei nostri morti per non farli morire. E poi si chiude con degli efficacissimi post-credits che raccontano come si sono concluse le vicende delle due protagoniste e dei personaggi a loro legati, sia quelli realmente esistiti sia quelli nati dalla mente della scrittrice. È una storia, anzi due (numero pari): quella di Sara e quella di Silvana. È una storia nella Storia che arricchisce. Se ne esce con della conoscenza in più nella testa e nel cuore su cosa è stata la seconda guerra mondiale. Nei quartieri, nei negozi, nei campi e nelle case delle persone normali; quelle che vivevano nel basso Lazio, tra Latina (all’epoca Littoria), Sperlonga, Fondi, Itri e Lenola e quelle, malate di tubercolosi, che vivevano in sanatorio. Luoghi semplici di gente semplice dove l’onda lunga degli accadimenti terribili di quegli anni arrivava non con il clamore della deflagrazione ma col dolore lento, la lontananza, la perdita. Sara e Silvana sono due sopravvissute. Entrambe di Roma, le loro vite si intrecciano e si toccano per una manciata di giorni solo alla fine della narrazione. La prima, ebrea del Ghetto di Roma, figlia di un farmacista che decide di farsi “arianizzare” per il bene della sua attività e della famiglia tutta, e di una madre acuta e lungimirante, viene costretta a rifugiarsi a Sperlonga presso l’avida famiglia di cugini, dove troverà conforto solo in Leone, il minore dei due figli, e dovrà sposare Giuseppe, il maggiore. La seconda, figlia di un invalido di guerra e di una madre anaffettiva, vive nel quartiere popolare di Val Melaina con la numerosa famiglia ed è considerata dai suoi come un ingombro. Lei è di troppo, soprattutto quando si ammala di tubercolosi. Viene internata al Forlanini, suo rifugio e sua salvezza. Il sanatorio sarà teatro dei primi amori adolescenziali e della nascita di un legame indissolubile con il dott. Giusto Fegiz. Sara è costretta a maturare in fretta. Sia perché chiamata a seguire le disperate misure intraprese dal padre per proteggere la sua farmacia dalle leggi razziali, con le inevitabili tensioni introdotte nelle dinamiche familiari, sia perché il suo primo amore, Rodolfo, viene umiliato e allontanato dai fascisti. Silvana viene ricoverata in sanatorio. E lì si accorge che mai come in quel microcosmo di umanità, dove l’amore, l’amicizia e la lotta contro la malattia si intrecciano alla resistenza al disfacimento portato dalla guerra e a quello della sua famiglia di origine, lei si era sentita così piena di voglia di vivere. Prezioso affonda le radici del suo romanzo in storie vere che toccano personaggi veramente esistiti e le intreccia con l’intima storia delle protagoniste con una narrazione che coinvolge e incuriosisce. È un piccolo dono questo libro, è uno studiare la storia dall’interno delle case, delle famiglie, dei luoghi di cura. Un modo di vedere oltre, proprio come “il dono” della protagonista Sara, che compare più volte durante tutta la vicenda, a inquietarla prima e confortarla poi, giocando un ruolo significativo nella sua vita e nelle sue percezioni.
Post-credits, come Prezioso insegna, da una mini intervista all’autrice:
E: Maria Caterina, perché I giorni pari, dal momento che nel libro mai c’è un riferimento esplicito a questi?
M.C: I giorni pari è un omaggio alla Cantata dei giorni pari di Eduardo De Filippo. La raccolta delle sue commedie giovanili dal 1920 al 1942. Per i napoletani i giorni pari sono i giorni fortunati, felici, nei quali guardare al presente e pensare a un futuro diverso. Per Sara e Silvana i giorni pari sono i giorni di una rivoluzione interiore. E… un piccolo inciso: ogni capitolo si apre con una data: questo ha un significato preciso, quello di una data che ritorna, perché non ci può essere presente senza il ricordo e non ci può essere futuro senza immaginazione.
Elena Marrassini
La recensione su L’Altro Femminile
Adriana Valenti Sabouret, scrittrice e saggista, nata a Siracusa, laureata in Lingue e Letterature straniere, da molti anni risiede tra la Francia e Alghero. Ha insegnato presso l’Istituto Statale Italiano Leonardo da Vinci, a Parigi, e presso il Liceo Internazionale di Saint-Germain-en-Laye. Ha lavorato come traduttrice e tuttora collabora con diverse riviste. Come narratrice ha esordito nel suo Paese di adozione con il romanzo Le rêve d’Honoré (Éditions du Panthéon, 2019). Con Arkadia Editore ha iniziato un ciclo dedicato ai personaggi e alle vicende della Sarda Rivoluzione: Madame Dupont (2021), Le nobili sorelle Angioy (2024) e Rivoluzionari sardi in Francia (2024). Fuori dal ciclo ha pubblicato La ragazza dell’Opéra (2023).
La intervistiamo per S’Indipendente anche in vista dei suoi prossimi impegni sardi in occasione della celebrazione del 28 aprile.
Domanda: Come nasce la tua autentica passione per la Sardegna e in particolare per un periodo tanto tormentato quanto poco conosciuto come quello del cosiddetto triennio rivoluzionario?
Risposta: La mia passione per la vostra meravigliosa isola affonda le radici in un recente passato. Era il 2007 allorché, scoprendo la Sardegna in un periplo familiare, mi sono sentita come a casa, oltre che circondata da una bellezza naturale sobria e magnifica al contempo. I sardi non sono molto dissimili dai siciliani: calorosi, ospitali, semplici e accoglienti. Un amico scrittore sardo a cui tradussi un romanzo in francese, mi disvelò il mondo della Sarda rivoluzione nella persona di Giovanni Maria Angioy. Sapendo che abitavo a Parigi, mi raccontò che Angioy vi era morto esule e che molti sardi anelavano a conoscere il luogo della sua sepoltura per rendergli un doveroso omaggio. Affascinata dalla generosa nobiltà del personaggio, cominciai a effettuare ricerche archivistiche su di lui, sulla sua azione in Francia, la sua vita parigina e la sua morte… Era il 2014. Da quell’anno, le ricerche sui rivoluzionari sardi hanno accompagnato il mio quotidiano in maniera prepotente. Più scoprivo e più volevo saperne. Ho esplorato tutti gli archivi di Parigi e provincia, quelli di Lyon, di Marsiglia, oltre che ovviamente le biblioteche e gli archivi di Alghero, Sassari e Cagliari. Ho intessuto legami con alcuni discendenti dei patrioti. Due di essi mi hanno aperto – generosamente – le porte dei loro archivi familiari.
Domanda: Al di là del notevole spessore narrativo, sono evidenti nei tuoi libri, così come nei tuoi articoli, una forte curiosità e una spiccata volontà di verità storica, che ti hanno portata ad esempio a scoprire nel cimitero Pere Lachaise di Parigi la tomba di Don Michele Obino, oppure a ricostruire la figura del patriota algherese Matteo Luigi Simon. Quanto ancora c’è da scoprire sugli esuli della repressione conseguente al periodo rivoluzionario sardo?
Risposta: Ti ringrazio. La curiosità è forte, in effetti, e vibra in me spingendomi ad andare sempre oltre. La scoperta della tomba di don Obino è stata ardua e quindi altamente emozionante. La sua tomba è oggi meta di pellegrinaggi e omaggi da parte di sardi, italiani, francesi, americani. Ed è per me fonte di soddisfazione: quasi a ricompensare le peripezie e le sofferenze che il manipolo di patrioti sardi in Sardegna sostenne e patì negli anni fino a morirne. Personalmente, ritengo che la ricerca non debba fermarsi, innanzitutto, perché gli archivi non cessano di migliorarsi sottraendo all’oblio documenti ancora non classificati o non digitalizzati. Inoltre, sono convinta che certi documenti preziosi possano trovarsi in collezioni private e che quindi siano suscettibili di ritrovarsi in un’asta o su un sito specializzato. Ultimamente, solo per farti un esempio concreto, mi è sfuggito un rarissimo scritto del dottore in medicina Pietro Antonio Leo, amico di Angioy, Simon, Obino…È stato venduto in un’asta toscana, segno che l’interesse per certi personaggi sardi è ancora vivo presso gli studiosi. Anche in Francia e in Italia ci sarà ancora qualcosa da scoprire ma occorre tempo, pazienza e possibilità finanziaria di viaggiare per effettuare le ricerche archivistiche.
Domanda: perché, a tuo avviso, si è verificata una sorta di rimozione della memoria storica di quegli anni tanto che pochissimi libri di storia delle scuole, ne riportano gli avvenimenti e i personaggi, peraltro vittime di feroci torture e condanne o costretti all’esilio?
Risposta: Una domanda che – da docente – mi fa molto male. Mi piace risponderti utilizzando la citazione di uno storico olandese scomparso nel 1966, Pieter Geyl. «La storia è sempre scritta dai vincitori. Quando due culture si scontrano, il perdente viene cancellato e il vincitore scrive i libri di storia, i libri che glorificano la propria causa e denigrano il nemico vinto». È ciò che accadde ad Angioy e alla Sarda rivoluzione, benché ritengo che la loro non fu una totale disfatta. Seminarono infatti delle idee che sarebbero germogliate nel tempo costruendo quindi le basi per la Sardegna moderna. “La loro damnatio memoriae’’, comunque, non mi stupisce affatto, considerato che dopo la loro sconfitta – purtroppo – in Sardegna non cambiò quasi nulla e quando Michele Obino, dopo tanti anni, poté infine ritornare nella sua isola con un progetto benefico che gli fu rifiutato, fu tanto deluso da voler ritornare a vivere e morire a Parigi. Si tratta di un episodio estremamente importante ed esemplificativo della delusione di un grande uomo e patriota, di un erudito sardo da non dimenticare.
Domanda: Cosa dire con un breve messaggio in particolare ai giovani studenti per celebrare la ricorrenza del 28 aprile, “festa della liberazione” dei sardi dall’oppressione feudale dei barones filo piemontesi?
Risposta: Il mio messaggio ai giovani studenti sardi è di amare e proteggere la propria Isola. Studiare e guardare al passato per prendere esempio dai grandi patrioti – oggi purtroppo un po’ dimenticati – che spesero la propria vita studiando, indignandosi per le ingiustizie del feudalesimo, consacrandosi alla difesa dei diritti di tutti. “Libertà, uguaglianza e fratellanza’’ guidò questi grandi personaggi che rinunciarono a tutto – famiglia, patria, beni materiali, lavoro – per tali ideali, con generosità e spirito di abnegazione. Spero tanto che i giovani accolgano tale mia speranza, insieme all’impegno di non dimenticare gli sforzi compiuti dai patrioti, leggendo, informandosi, onorandoli in Sardegna e all’estero per non spegnere la fiaccola che stiamo mantenendo accesa.
Domanda: Quale sarà il tuo prossimo contributo alla ricerca storica? Riguarderà ancora gli anni angioyani?
Risposta: Il mio prossimo contributo alla ricerca storica riguarda un medico illuminato nativo di Arbus, amico di Angioy, Simon, Obino: il dottor Pietro Antonio Leo. Fu un instancabile studioso intollerante ai pregiudizi contro la Sardegna e dei metodi imperanti di una falsa medicina, come ad esempio i salassi. Intuitivo e coraggioso, benché privo di grandi mezzi, viaggiò in Italia e all’estero al fine di specializzarsi alimentando la sua smisurata sete di sapere. Si spense a Parigi – dove si era recato per studio – a soli 39 anni e le sue tracce si perdono nella Chiesa parigina di Saint-Sulpice dove ricevette funerali cristiani.
Ninni Tedesco Calvi
L’intervista su S’indipendente
Un romanzo in cui è facile perdersi alla ricerca di se stessi e del significato delle cose. Una donna, un diario, i ricordi di una famiglia e di una vita. Si tratta de “Il tema di Ethna” (Arkadia), scritto da Anna Bertini e recentemente pubblicato.
1997. Ethna Sarfatti, nata a Dublino e cresciuta a Firenze, dove il padre ha trasferito la famiglia per assumere il ruolo di insegnante alla International School of Florence, intende separarsi dal marito. Per meditare meglio sulla propria esistenza si ritira nel Castello di Sonnino, un hotel particolarmente suggestivo.
2004, casualmente, passando con il treno da quelle parti, Ethna rivede l’antica sede di quel soggiorno e, d’istinto, decide di tornarci. Forse per riallacciare le fila degli avvenimenti del passato e capire meglio qualcosa di se stessa, forse nella speranza di un incontro. La professoressa di musica e violoncellista matura l’idea che tornare a quel luogo sia l’occasione adatta per iniziare a scrivere il racconto di ciò che ha vissuto negli ultimi sette anni. E mentre compone musica per un quartetto jazz americano, inizia a mettere insieme le pagine della sua biografia, raccontando circostanze del passato e di un presente in parte inaspettato: dalla morte del padre alla scoperta di non esserne la figlia biologica, dalla storia d’amore dei propri genitori alla pletora di personaggi che fanno parte da tempo o si sono affacciati man mano nella sua vita. Si compone così il quadro di una vita minima e a suo modo unica, come lo è quella di ciascuno di noi.
La recensione su Toscanalibri
Ho 30 anni e leggo da sempre. I libri sono il mio passatempo e la mia passione.
CONSIGLI
La bella virtù
“Come sei arretrata, Mamma! Non sono più i tuoi tempi, siamo negli anni ’50, oggi la donna lavora, come te lo devo dire?”
Pag. 111
TRAMA:
Seguito de “Gli ingranaggi dei ricordi”, in queste pagine ritornano i giovani Felice e Maria Ausilia nel periodo del loro fidanzamento e poi del lungo matrimonio. Mentre la figlia Carla rievoca la malattia e la morte del padre, Kevin, suo figlio, studente universitario, dedica la propria tesi magistrale alle vicende della famiglia del nonno materno, ricostruendo intrecci tra casate più o meno nobili del napoletano e dell’avellinese e indagando sul legame di parentela tra il nonno Felice e il santo Giuseppe Moscati. In questa nuova puntata di una saga famigliare che si dipana nel periodo tra il dopoguerra e i giorni nostri, attraverso plurime voci narranti, conosceremo sempre più a fondo i personaggi di questo potente e sapiente affresco. Felice, giovane intelligente e volitivo ma dal carattere aspro; Maria Ausilia, che si rivela una ragazza e poi una donna molto determinata, con un sentimento ambivalente verso il fidanzato e poi marito, che ama ma con il quale ha un rapporto conflittuale. E poi Carla, molto legata al padre, del quale tuttavia non ignora i limiti e che segue con grande pietas durante la sua malattia. Infine, Kevin, studente un po’ riluttante e scettico, ma impegnato con successo nel ricostruire la storia famigliare. Ancora una volta Marisa Salabelle riesce a costruire un’epopea di affetti affascinante e ricca di profondità.
RECENSIONE:
Un ritratto famiglia che trascende lo spazio e il tempo. Quattro voci narranti che si alternano e che pitturano con colori vivaci le peripezie dei personaggi di Felice e Maria Ausilia, già conosciuti ne “Gli ingranaggi dei ricordi”. Il primo volume presentava infatti il loro fatidico incontro, un’unione che avrebbe cambiato le sorti di molti protagonisti di questa saga famigliare. In questo romanzo viene quindi approfondita la storia di questi due innamorati, ormai anziani, la cui vicenda è narrata in parte anche dalla figlia Carla, che con tenerezza descrive Felice in questo modo:
“Era l’uomo che amavo, l’uomo della mia vita. Certo, avevo mio marito e mio figlio, e amavo moltissimo anche loro, ma con mio padre non c’era gara. E dire che non era neanche particolarmente amabile: non importa. Mi bastava vederlo là, sulla sua poltrona, le mani piene di macchie, il viso ancora bello, il neo in rilievo sotto l’occhio destro che era diventato un’escrescenza un po’ ripugnante, le labbra sottili, la sigaretta in mano, per sentirmi stringere il cuore”.
Carla racconta infatti con pathos la malattia del padre, che soffre di tumore al pancreas, descrivendo la sua decadenza, la sua disabilità e la difficile accettazione di questa situazione, del tempo che passa e della paura di perderlo. Ai capitoli narrati da Carla si alternano le voci di Maria Ausilia e di Felice ai tempi della loro giovinezza e la loro storia pare quasi un romanzo di formazione: il loro amore adolescenziale, fatto di timori e di prime volte, le disparità quasi abissali tra i due (lui religiosissimo e devoto, lei femminista convinta), distanze intellettuali che li condurrano comunque ad amarsi alla follia. Un altro personaggio pittoresco e simpatico che viene riproposto ne “La bella virtù” è il giovane Kevin, questa volta alle prese con la tesi per la sua laurea magistrale. Incoraggiato dalla madre, per l’appunto Carla, e dal suo professor Mencarelli, questa volta dovrà indagare la relazione tra il nonno Felice e il santo Giuseppe Moscati, medico e fisiologo italiano, beatificato e poi fatto santo alla fine degli anni ’80. Come per la tesi precedente Kevin inizierà la sua indagine quasi svogliatamente ma finirà presto per appassionarsi “La bella virtù” attraversa la Storia, percorre un lungo arco di tempo che dura più di cinquant’anni, fino ad avvicinarsi alla recente pandemia del Covid, che abbiamo vissuto con paure e difficoltà. Un affresco vivido e brillante che esplora tanti sentimenti ed emozioni.
Elisa Giulia Agosteo
La recensione su Introspectif
Un gioco della mente o ciò che davvero accade nel passaggio tra la vita e la morte? Il romanzo di Paola Musa ci pone sul misterioso confine su cui nessuno potrà fornirci certezze, se non altro perché parliamo di una condizione irreversibile. “La vita in più di Marta S” si diverte a unire la narrativa con il meglio delle idee che circolano sulla reincarnazione, chiamando in sua difesa il matematico Roger Penrose e lo psichiatra Brain Weiss, personalità illustri che sul perdurare della coscienza dopo la morte hanno detto diverse cose. Logicamente, sono tutti argomenti che godono di molto scetticismo, ma l’intento del libro di Musa non è quello di stabilire cosa sia vero e cosa sia falso. Partiamo dalla protagonista del romanzo, ossia Marta Scacchi, ingegnere che lavora nell’industria del sesso. L’interesse per tale attività avrebbe inizio fin dall’adolescenza, quando la maggior parte del suo tempo lo passa nel Sexy Shop del padre. Ma a ciò bisogna aggiungere anche certe visioni, accompagnate da vere e proprie ossessioni, che si manifestano in lei fin dalla tenera età. Immagini innate, istinti che secondo Marta provengono da un passato remoto che non appartiene alla sua attuale esistenza. Da qui la costruzione di un fantasioso viaggio a ritroso che investiga, senza volerlo, sull’eros in ogni sua forma. Marta si convince di portare sulle spalle quello che potremmo definire un debito karmico. Nulla la schioda dall’idea di aver bazzicato per necessità o per curiosità luoghi di promiscuità e di disinibizione. Raccoglie prove e si domanda quale sia il senso del suo passaggio terreno. Ciò che innesca alcuni suoi quesiti è l’esplosione del palazzo nel quale abita. Un incidente da cui si salva ma che permetterà anche l’incontro con Virgilio, un infermiere che in lei risveglia un timore ancestrale. Musa costruisce tutto sospendendo il suo personaggio tra mondi onirici e reali, tra lucidità mentale e stati alterati della coscienza, fino a giungere a episodi di regressione che spalancano le porte sulle vite precedenti. Per gli argomenti toccati, il romanzo spazia anche in gradevoli divagazioni che rendono ancora più solide le convinzioni della protagonista, spingendo pure noi a una leggera quanto interessante autoanalisi. “La vita in più di Marta S”, infatti, non si ferma all’apparenza, non spara nel mucchio dei mondi possibili ma dà voce a un personaggio che incarna le preoccupazioni della nostra epoca. Vita, morte, sesso, edonismo, eros, promiscuità e invadenza del cyberspazio. Insomma, tra le pagine del libro troveremo frammenti che riescono a legarsi con naturalezza. La personalità di Marta è una metafora della nostra coscienza collettiva. La protagonista attinge da più parti pur di dare una spiegazione alla propria inquietudine; va addirittura al di là della vita e della morte, creando una mappa della sua evoluzione spirituale. Ma questo attraversare i secoli nasconde una triste realtà: l’impossibilità di appartenersi del tutto, di conoscersi completamente, di dominarsi da cima a fondo.
Martino Ciano
La recensione su Border Liber