A proposito de “I giorni pari”
Storia doppia
Il romanzo di Maria Caterina Prezioso affronta la storia attraverso due differenti punti di vista: il Ghetto e la periferia di Roma. Come a segnalare l’andamento binario della realtà stessa
I giorni pari (Arkadia, 200 pagine, 16 Euro), romanzo di Maria Caterina Prezioso, è racconto di una vicenda dall’andamento binario: le vite delle due protagoniste, Sara e Silvana, coronate dalle rispettive costellazioni di persone, corrono ciascuna lungo il suo tra(gi)tto e paiono incrociarsi (ma è un’amena fola o l’illusorio coronamento di un desiderio dei lettori) solo alla fine, al di qua del guado. A libro chiuso viene naturale ragionare proprio su quel sintagma: i giorni pari. E dopotutto, scorrendo le indicazioni temporali che segnano, su un ipotetico calendario, le tappe salienti dei quindici anni in cui si svolgono le storie, e intanto si dipana la Storia del nostro Paese, si fa caso al fatto che si tratta sempre di giorni pari. Ma sentiamo che non basta. Le pagine sono lì, sotto il nostro sguardo che divora le vite di queste due donne di cui seguiamo l’evoluzione: da bambine a ragazze a giovani adulte, e subito abbiamo la tentazione di sostituire i giorni pari con vite parallele, anche se non alla stessa maniera in cui Plutarco intendeva questa espressione. E poi sentiamo che l’altalena tra le loro vite alterna centro e periferia a Roma; e Roma alla costa tirrenica; il mare e la sua aria salubre alla cittadella infettiva del Forlanini; la resistenza al nazifascismo e le storie di chi è in mezzo alla Storia che tutti travolge. portando allo scoperto la vera grana umana di ognuno. In un senso leggermente spostato rispetto alla lezione di Levi, troviamo tra quanti brulicano nei due teatri fondamentali del romanzo un’alternanza tra sommersi e salvati. È duale anche il senso della parola dono, in questo libro. Sara, rifugiata a Sperlonga quasi ancora bambina grazie ai genitori, Gino e Miriam, che pagano una famiglia del posto per sottrarla al clima di odio razziale abbattutosi sul ghetto di Roma, ha doti quasi di sensitiva, ereditate da nonna Ada. Silvana, che proviene da Val Melaina, quartiere nuovo tirato su da Mussolini per alloggiare i nuovi proletari romani, e spaccato internamente tra Pechino e Shangai, le due neo-realtà suburbane che faziosamente la animano, avrà il suo dono, inatteso e fino a poco prima del tutto improbabile, e sarà un frutto che maturerà su quest’albero lieve e robusto, tenace e tenero. Giusto nella prima parte del romanzo, nel ghetto romano al Portico d’Ottavia, si fa avanti, subito, l’altra faccia dell’amicizia, la delazione – il lato viscido e oscuro dell’animo umano che si desta e prende forza dall’ambiguità dei tempi incerti, sguaiati, violenti, volgari, perfidi, sottili, alimentati da un clima di propaganda che tutti stana e espone al pubblico ludibrio senza rispetto, masticando e risputando la dignità dimessa di chi è additato. C’è un personaggio, che pur senza vilipendio né dileggio verso il colpevole conclamato, racchiude tutto ciò scivolando tra le pieghe dei fatti con tutto l’opportunismo del caso. E non è l’unico. Questo però è anche un romanzo che sa coniugare armoniosamente Palestina ed ebraismo riportando a zero, cioè alle fasi fondanti che avrebbero potuto generare coesistenza e non opposizione, l’intera questione del ritorno dalla diaspora alla Terra Promessa, senza alimentare l’odio etnico peraltro specioso e ingiustificato. Il libro racconta l’attraversamento della Storia da due sponde che corrono parallele quasi mai guardandosi e, pure, sensibili al fiume che le divide e le accompagna, e quasi le trascina per tutto il proprio corso come sorelle connesse da mani tese verso loro due, termini opposti – due tragitti speculari, a volte rischiarati dal mare dal sole dall’aria fine, altre volte avvolte da una nebbia reale e simbolica, che un po’ confonde ma molto nasconde e dà riparo. Perché dopotutto qui incontriamo anche la clandestinità, che può essere esclusione ma può anche offrire rifugio, protezione, senza per questo tagliare fuori da funzioni civili attive: qui viene subito in mente Giusto Fegiz, grande medico, mago del pneumotorace al Forlanini, e subito dopo, a guerra finita e a dopoguerra sfrenato avviato, perplesso rispetto all’uso smodato degli antibiotici – grande dono (eccolo) della Liberazione portata dagli Americani ma poi troppo abusati e a rischio di essere resi inefficaci. Una figura reale, Fegiz, come molte altre, incrociate dagli eroi anonimi del romanzo: tra loro anche gli estensori del Manifesto di Ventotene e Vittorio De Sica che gira Ladri di biciclette a Val Melaina. Capisco anche come l’autrice, che pure conferisce il compito del racconto in prima persona alle due protagoniste, si sia concessa a volte delle sintesi dimostrative fin troppo didascaliche su alcuni passaggi storici o in qualche spiegazione troppo elementare, per esempio sul cinema: forse pensando che, e non le do torto, mentre fino a qualche generazione fa i passaggi e le nozioni in questione erano parte della dotazione culturale, per i molto giovani forse questa eredità non è né così nota e familiare, né così scontata. Buon ultimo il dualismo del cambiamento radicale di Roma, portato non solo dai palazzinari del dopoguerra ma anche da un urbanismo sociale voluto da Mussolini. Fa specie leggere in queste pagine, non certo per la prima volta in assoluto, cosa fossero certe borgate che oggi sono aree di lusso: si pensa spontaneamente alla lettura altra di certi quartieri romani, oggi, dettata, e da tempo, ormai, dallo scriteriato mercato immobiliare. I giorni pari, romanzo che in certi punti può richiamare il bianco e nero del neo-realismo (più quello del colore trattenuto di C’è ancora domani che del cinema di De Sica e Rossellini), è illustrato da una bella foto di copertina che, una volta letto il romanzo, sprigiona vigorosamente tutti i suoi significati.
Daniela Matronola
La recensione su Succedeoggi