Trasversalmente “oltre” tra cinque libri
“Trasversalmente oltre tra cinque libri”
di Giovanni Agnoloni
Negli ultimi tempi mi è capitata più spesso un’esperienza che avevo già vissuto in precedenza, sempre nel solco del tema a me caro delle sincronicità junghiane: ovvero, riscontrare sorprendenti assonanze tra i miei stati d’animo e pensieri e i temi trattati o nei libri che sto traducendo o in quelli che sto leggendo. Senza volerlo, trovo una continuità trasversale in e tra tutti questi scritti, che sembra accompagnare i miei percorsi interiori, portandomi oltre gli stati mentali attuali e nella direzione di un’evoluzione spirituale capace di produrre risultati migliori di quelli forniti dai meandri della mente. Trasversalmente oltre, insomma, come ho indicato nel titolo di questo pezzo. Gran parte di questa strana sintesi è riflessa da una recente intervista fattami da Gianluca Garrapa, dove per la prima volta ho visto con chiarezza le mie due anime letterarie – contemplativo/metafisica e di osservazione e critica sociopolitica – convergersi e fondersi appieno. E, se lo dico, non è tanto per autopromozione, quanto perché per me sarebbe ridicolo ergere barriere tra i vari aspetti del mio lavoro quotidiano (scrivere, tradurre, leggere, interpretare la realtà, nonché viaggiare e perfino suonare), visto che nell’universo “tutto è uno”. E i cinque libri di cui oggi voglio parlare rispecchiano perfettamente, nella trasversalità dei temi che li attraversano, l’incontro di quelle due anime nella direzione di un Oltre geografico, culturale, emotivo, professionale e sociale.
Il primo è Romanzo olandese di Marino Magliani, edito da Scritturapura (2025). Si tratta di una trilogia, come recita il sottotitolo, o meglio di una sinfonia in tre movimenti, mi verrebbe da dire. Qui l’autore ligure – che vive nei Paesi Bassi, e che ha fatto del tema del confronto tra l’orizzontalità olandese e la verticalità dell’entroterra ligure, nonché di quello dello sradicamento e del vagare nel mondo, alcuni dei motivi (appunto) trasversali di tutta la sua produzione – riunisce, rielaborandoli profondamente, tre suoi vecchi lavori, che finiscono per assumere una sostanza del tutto nuova, diventando le tre parti di un discorso unitario che ha al centro la sua terra di adozione. Il primo atto, “La talpa”, è un itinerario – inizialmente in bicicletta – nella capitale olandese (dove Magliani non abita ma va di tanto in tanto per attività letterarie presso l’Istituto Italiano di Cultura e, in passato, nella libreria italiana “Bonardi”, dove una volta presentammo anche insieme un mio libro per l’appunto ambientato ad Amsterdam, e che purtroppo ha chiuso), ma non solo. È un autentico sovvertimento della dimensione orizzontale, così intrinseca ai Paesi Bassi, perché lo conduce nei sotterranei della città, nel cuore stesso della sua struttura nascosta e oscura, con due guide “dantesche” come il suo traduttore olandese Roland Fagel e una ragazza del posto, Walmoet. Sì, perché si tratta di un percorso prima di tutto simbolico (anche ricco di suggestioni bolañiane, tema che Marino e io amiamo per aver tradotto metà per uno la raccolta di saggi su Roberto Bolaño Bolaño selvaggio edita da Miraggi), dove l’esplorazione delle “magagne” olandesi – speculazione edilizia, acque di scolo, correlati rischi di smottamento e altro – fa tutt’uno con una discesa negli inferi del subconscio. Insomma, ciò che ci si aspettava di trovare di sopra, in una città dove la luce, quando non piove, è meravigliosa, ha ceduto il posto a un mondo di sotto la cui “risoluzione” appare un’imprescindibile premessa alla riscoperta della vita nel “fuori”.
Ed è appunto il “fuori” l’orizzonte del secondo racconto lungo (o romanzo breve) di questa singolare trilogia, ovvero “Le vetrate di Rembrandt”, il cui scenario è Zeewijk, il sobborgo di IJmuiden, sulla costa del Mare del Nord, dove l’autore in effetti vive. Il protagonista è uno scrittore che è sostanzialmente un suo alter ego, il quale esplora il posto cercando di coglierne l’essenza anche attraverso conversazioni con l’amico Piet, che ne conosce bene la storia. Scopre così ben presto che la sostanza di questo paese non è molto meno sfuggente della sabbia delle dune del posto, dato che è stato ed è ancora spesso demolito e ricostruito in diverse sue parti, per cui cercarne l’identità – e anche cercarvi la propria – non è cosa facile. Ecco allora la contemplazione degli interni delle case, spesso trasparenti perché praticamente aperti, date le vetrate non coperte da tende che qui sono molto frequenti: e, intanto, il pensiero che risale indietro, alla Liguria, alle sue alture e ai suoi rovi, nell’eterna dialettica maglianiana tra questi due mondi così diversi e così, per lui, complementari. Siamo di fronte a una declinazione poetica e concettualmente densa dell’inevitabile iato tra mondi lontani e quasi opposti, che non sono solo le due terre in questione, ma gli universi che gli abitanti si portano dentro, e che a volte è possibile intuire nella loro “verità” solo guardandoli da fuori, e sia pur attraverso il diaframma di una vetrata trasparente. Si innescano così delle autentiche epifanie – altra parola a me cara –, insomma delle rivelazioni subitanee che sembrano fondere in sé lo spirito del luogo con l’anima di chi lo vive.
Su queste stesse frequenze si articola l’ultimo “atto” della trilogia – a mio avviso, il più bello e poetico di questo libro –, “Biografia di un paesaggio anfibio”, che è la storia dell’esplorazione e della contemplazione profonda di un canale, il Nordzeekanaal, che porta da IJmuiden al mare. Anche qui ci sono incontri, con persone ma soprattutto con i protagonisti del mondo naturale, creature vegetali e anfibie che mettono di fronte alla compresenza di stati (per esempio il solido e il liquido, il dolce e il salmastro) che caratterizza la vita in questi luoghi. Anche qui compare l’“oracolo” locale Piet, l’amico che, come il protagonista, è un’anima sola, e gli dà risposte e suggerimenti che ispirano il suo percorso lungo le acque di questo canale che unisce in sé caratteristiche di fiume e di mare, ma in definitiva non è né l’una né l’altra cosa. La matericità epifanica di Magliani diventa così un modo per parlare della solitudine dell’uomo di oggi, che è una cosa diversa da quella dei romanzieri d’inizio secolo, perché quella nasceva dalla corsa della modernità, mentre questa è ciò che resta dopo la fine della postmodernità e nonostante l’illusione della digitalizzazione globale – e principalmente in un paese ipersviluppato come l’Olanda. E, inoltre, per un altro particolare importante: la solitudine dell’oggi, diversamente da quella di allora, ha trovato la chiave per la propria possibile risoluzione nel ritorno alla natura – la grande madre che ci insegna a non aver paura dell’essere soli. Lo evidenzia molto bene uno dei passi più belli di tutto il volume, per l’appunto uno di quelli in cui è scattato in me il meccanismo di identificazione cui accennavo all’inizio:
“Un canale deve pur iniziare con una frontiera, ma il mare è mare e quando il canale inizia il canale è ancora mare, una frontiera la può determinare solo la vita che passa. È la vita che fa di un canale un canale, nient’altro, le alghe e i pesci, i crostacei migranti, viventi prima di qua e poi di là, e le alghe e i pesci, i crostacei viventi di qua e di là no. Per raccontarne le forme e la vita occorre partire da un rifiuto, da una volontà, la coscienza di un continuo tentativo di farsi contaminare. Il corridoio era già la casa, ne costituiva solo la parte più inospitale, il cielo ci ha messo un giorno a preparare il tramonto, eppure lo spettacolo più bello era già nella premessa. Quanto tempo girerò ancora attorno alle parole prima di decidermi?” (p.230).
La natura ci riporta all’essenza nuda di un universo in cui tutto è collegato, ma non serve più cercare di “farsi contaminare”, pur di non essere soli. Serve accettare il rischio della solitudine e aprirsi a quella relazione cosmica spalmata su tutto, e che viene ancor prima delle parole letterarie spese per raccontare l’avvicinarsi, il prendere le distanze e poi ancora rituffarsi nel mondo. Serve, cioè, vivere ancor prima che raccontare. È questo l’Oltre trasversale delle solitudini olandesi di Marino Magliani, e mi ci riconosco appieno.
Altre solitudini, legate a un qui che conosco molto bene e che spesso ho sentito soffocante, sono quelle del protagonista fiorentino de L’imbattibile lentezza delle tartarughe di Alessandro Gianetti (Arkadia Editore, 2025), romanzo che ha per protagonista Davide Risatti, un tecnico esperto in impianti elettrici rimasto disoccupato, e che perciò deve ripensare la sua vita cercando di trovarvi un senso che vada oltre – appunto – il vuoto e la solitudine che adesso ne saturano le giornate. Dico subito che mi viene spontaneo accostare lo spirito della IJmuiden di Magliani e della Firenze di Gianetti, e non perché le loro opere abbiano elementi di trama o stilistici in comune. No, si tratta proprio dei luoghi che raffigurano e delle umanità che le imbevono – del loro alone psichico similmente scosso, anche se con esiti diversi. Lo evidenzia la descrizione del bar di Giovanna, un immaginario locale dalle parti di Piazza Dalmazia dove Davide va tutte le mattine a far colazione e a leggere i giornali:
“Erano le nove e trenta del mattino, il quartiere era smorto, ma in un angolo quasi nascosto da tendoni, semafori a mezzo servizio e lampioni sonnolenti, la gente conversava. Il bar di Giovanna brillava come se fosse uscito da una fiammella, anch’esso fulgido come il lume da cui era miracolosamente sortito, e la saletta centrale era già gremita, una decina di tavoli.” (p. 9)
Pochi sapienti tocchi, ed ecco prendere vita proprio quella ricerca di contatto, di “contaminazione” (per rifarmi al terzo racconto del libro di Magliani), che spesso è con-causa importante del problema della sconnessione da se stessi e dalla lucreziana “natura delle cose”. Davide si illude di portare avanti i riti di quando lavorava, anche se, paradossalmente, in questo contatto solo sfiorato con quello che faceva prima – che lo porterà anche ad avvicinare ex-colleghi e sindacalisti a lui noti in cerca di un possibile riscatto –, troverà lo spazio necessario per un (sia pur bislacco) tentativo di rivalsa. E glielo suggeriranno proprio gli articoli letti in quel bar, e in particolare gli editoriali “barricaderi” di un tale Girolamo Rovescio, una sorta di maître à penser proletario e vicino a certe figure di blogger politicizzati che ben conosciamo. Sarà lui a ispirarlo a prendere posizioni più radicali anche rispetto al rapporto coi condomini del suo palazzo e con sua madre. Insomma, l’orizzonte della contemplazione qui è una vita sola calata in un contesto che potremmo definire (con un aggettivo che per me è assolutamente un complimento, visto che ho adorato quei film), “fantozziano”; con la differenza che, in questo caso, la vita alienata e succube che cerca di ribellarsi non è quella dell’impiegato, ma quella del disoccupato, sullo sfondo di una città pressoché indifferente, dove la differenza finiscono per farla – come spesso avviene – gli amici generosi e la disponibilità al compromesso. Solo a questo prezzo sembra potersi continuare ad avvertire l’eco di una vita più intrisa di Oltre, di natura vivificatrice e di speranza di quanto non sia la quotidianità ammorbante. Altrimenti, tutto appare avvitato in un qui carico di ombra, che la mano di un grande traduttore come Alessandro Gianetti (cosa che peraltro vale anche per Marino Magliani) sa raffigurare con ricchezza letteraria.
Ne La laguna del disincanto di Massimiliano Scudeletti (Arkadia Editore, 2025) Firenze ritorna – insieme a Venezia, a Bologna e alcuni luoghi anche esteri, come certi sprazzi di India – come teatro di una solitudine, di un attraversamento e di un Oltre ben più angosciosi. Il romanzo, che segue (ma non è in senso stretto il sequel de) La laguna dei sogni sbagliati, ha ancora per protagonista il reporter Alessandro Onofri, reduce da dure esperienze in guerra ma anche da una difficile ricognizione nei territori dell’occulto. Stavolta Onofri si trova alle prese con un’apparentemente inspiegabile questione che coinvolge il figlio di un’amica americana, il cui comportamento e la cui stessa aura sono misteriosamente cambiati – com’è successo anche a diversi suoi compagni di classe – da quando, nella scuola (un esclusivo istituto internazionale nelle campagne toscane) è giunta un’insegnante della quale si sa molto poco, e che poi è sparita. Inizia così un’indagine che procede in territori inquietanti, legati a logiche attinenti al mondo virtuale e a sottili forme di corruzione dei minori, che manifestano collegamenti sempre più evidenti con “alte sfere” di vario ordine e di proporzioni planetarie. La mano dell’autore è qui fredda e spietata nel non recedere davanti alla prospettiva di un orrore mai, si badi bene, descritto in pieno, ma lasciato immaginare, e davanti alle sottili dinamiche che collegano mondi poveri e marginali a forme di sfruttamento legate a realtà ben più vaste e danarose. Ha dunque perfettamente centrato uno degli aspetti che mi stanno a cuore: la denuncia della corruzione senza mezzi termini, che non esclude la neutralità di un approccio narrativo obiettivo e sia pur trascinante. Il suo stile è carico di risonanze e capace di turbare, ma non col gusto di stimolare i lettori al sordido e di lasciarli scioccati, bensì con l’efficacia catartica di chi non svia lo sguardo, ma osserva e cerca di capire, pur senza farsi (vedi sopra) contaminare. Quello che resta è il mondo, bello a prescindere da certe schifezze, che però vanno evidenziate e combattute, proprio come succede al suo tormentato protagonista, la cui psiche sofferente è il miglior biglietto da visita per esplorare e portare alla luce certi “sub-mondi”.
Ben diverso tipo di testo, e sia pur carico di molti mondi e di tanto Oltre al suo interno, è la raccolta di saggi di Chiara Mazzucchelli, direttrice del programma di Studi Italiani alla University of Central Florida, Bastimenti d’inchiostro. La grande emigrazione nella letteratura siciliana (1876-1924) (Kalós, 2024). Questo libro mi ha toccato personalmente perché mi ci sono avvicinato intorno a marzo, all’epoca del mio viaggio negli Stati Uniti per alcune lectures in un’altra università americana, la Florida Atlantic University, su invito dei professori Emanuele Pettener e Ilaria Serra. E tratta un tema vicino sia a me come origini – perché da parte di madre provengo dal Sud (anche se dalla Calabria, non dalla Sicilia) e perché uno zio di mio padre emigrò negli USA (e lì ho ancora dei cugini) – , sia al mio forte interesse per la cultura americana, in ambito linguistico, letterario e musicale. Nel corso dei vari capitoli, la professoressa Mazzucchelli racconta come numerosi grandi scrittori italiani si siano rapportati all’Oltre americano di tanti emigranti siciliani, delineando così l’arco ideale che va dalle aspettative di quei poveri che partivano praticamente privi di tutto, passando attraverso un viaggio lungo e difficile, per arrivare a trovare qualcosa che, in tanti casi, non aveva neppure inizio (perché venivano respinti a Ellis Island) o si rivelava ben diverso. Proprio in apertura del primo capitolo, intitolato “La grande omissione”, l’autrice si richiama a una denuncia formulata da Leonardo Sciascia nel 1975, quando lo scrittore siciliano si lamentò pubblicamente di come non fosse stato ancora scritto un libro che raccontasse con obiettività l’esperienza degli emigranti italiani – con particolare riferimento alla grande ondata di emigrazione del venticinquennio 1876-1900 (ma non solo: il fenomeno proseguì sostanzialmente fino al 1924) –, che coinvolse milioni di persone. Stiamo parlando del periodo del periodo del Verismo in letteratura, nel quale, sottolinea Chiara Mazzucchelli, gli stessi scrittori che s’interessavano alle condizioni del popolo (come il Giovanni Verga de I Malavoglia) erano espressione di ceti privilegiati, tanto da criticare l’emigrazione come fattore destabilizzante a livello sociale. Via via, l’attenzione crescerà, come ad esempio in autori come Luigi Capuana (vedasi il racconto “Gli Americani di Ràbbato”) e lo stesso Pirandello (si pensi al racconto “Il vitalizio”, in Novelle per un anno, anche se qui viene toccata l’emigrazione in Argentina), senza dimenticare autori precedenti come Edmondo De Amicis, che nel 1884 fece un viaggio transoceanico con molti emigranti e ne ricavò un romanzo (Sull’oceano) e successivi, come la scrittrice palermitana Maria Messina (della quale ricordiamo in particolare un racconto dal titolo inequivocabile, La Mèrica). Fino alla raffigurazione del ritorno a casa degli emigranti, colto nella poesia Italy di Giovanni Pascoli.
La trattazione di Chiara Mazzucchelli è, evidentemente, molto più ricca e articolata di come queste poche righe possono rendere. Tuttavia, mi preme sottolinearne la bellezza e la forza coinvolgente, doti che spesso non vengono riconosciute ai saggi, ma che invece in essi possono vivere – e spesso vivono – ben più che in tanti romanzi.
Chiudo questa rassegna di letture – ottime per l’estate, ma in realtà per qualunque momento dell’anno – con un libro che è un po’ un romanzo, un po’ una lunga epistola-confessione resa attraverso il filtro di un io narrante (di nome Paolo), e un po’ anche una riflessione filosofica su un altro tipo di Oltre, stavolta legato sì ai luoghi (perché l’autore è un grande viaggiatore e l’ha scritto in gran parte su un’isola greca da lui scelta come buen retiro, Astypalea), ma prima di tutto ai sentimenti e alle loro evoluzioni e conclusioni: parlo de L’amore nell’età grande di Tito Barbini (Arkadia Editore, 2025), che qui racconta la genesi, il tormentato svolgimento e la fine di un legame sentimentale con una donna molto più giovane, passando in realtà attraverso i ricordi, i viaggi e le letture di tutta una vita. In quest’opera Barbini dimostra, come peraltro in vari suoi lavori precedenti (tra cui Storie di amori e migrazioni sull’isola dalle ali di farfalla, ambientato proprio ad Astypalea), una grande versatilità nell’unire al registro personale quello colto e da autore di reportage letterari in giro per il pianeta. Tuttavia, associa a questo una misura di spietatezza con se stesso rispetto a uno tra i temi più difficili – la già ricordata solitudine, al centro degli scritti di Marino Magliani e Alessandro Gianetti che abbiamo evocati, ma in definitiva anche del protagonista di Massimiliano Scudeletti e delle vite di tanti emigranti siciliani raccontati da Chiara Mazzucchelli e dagli autori da lei citati. Tito Barbini la guarda in faccia, questa solitudine, e si rende conto che, pur amara e non desiderata, non è un’ospite più sgradita della fine dell’amore che l’ha preceduta. In essa, l’autore/io narrante trova quasi un dolce conforto, perché è piena dell’intensità delle esperienze vissute, che vi resta dentro come una risonanza intima e capace di ispirare. Forse è perché – come si diceva a proposito del terzo scritto di Marino Magliani in Romanzo olandese – viene riscoperta attraverso la contemplazione della natura. O, forse, perché è la solitudine di chi si è fatto sì “contaminare”, ma poi, nel fare (anche non per sua scelta) un passo indietro, ha trovato un vuoto non angosciante, ma anzi capace di lenire il dolore. In fondo, come conclude Barbini – posso dirlo senza fare spoiler –, “(…) meglio essersi lasciati che non essersi mai incontrati” (p. 170).
Giovanni Agnoloni
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