LA BELLA VIRTU’. UNA SAGA FAMILIARE
Desidero essere sincero. Dopo aver acquistato il romanzo “La Bella virtù” di Marisa Salabelle dalla mia amata Feltrinelli, mi sono trovato un po’ in difficoltà. Il rischio di trovarmi di fronte ad un libro autobiografico, magari leggermente celebrativo era dietro l’angolo; e questo mi ha fatto indugiare, ma, a sua volta, avendo letto ed apprezzato molti degli interventi da lei scritti nel suo blog personale ogni titubanza è venuta meno. Infatti, è stato sufficiente sollevare la copertina, girare le pagine con l’occhiello, il frontespizio e, infine, la dedica – manco farlo apposta ai genitori – per essere catapultati in uno spaccato di vita, che coinvolge in un vissuto personale, che può verosimilmente appartenere a chiunque di noi. Non si fa ora ad immergersi nel mare narrativo del romanzo, che l’autrice se ne esce con il proverbiale asso nella manica, spiazzando o, forse, fuorviando il lettore con una frase, meglio un epitaffio che sembra volerlo introdurre in una dolorosa catabasi, la cui meta appare ineludibile: “Nel 2010 mio padre si ammalò: tumore al pancreas”. In realtà, l’incipit diviene l’occasione per resuscitare le vicissitudini di una storia familiare, le cui diverse generazioni soprattutto le componenti femminili si sono ritrovate a fare i conti con le innumerevoli sfide del tempo, affrontando le avversità e i dolori della vita, inserite anche nell’ottica del raggiungimento del diritto di cittadinanza per il genere femminile nel piano economico, giuridico, intellettuale e, infine, politico, nonché alla consapevolezza di un proprio io slegato alle funzioni procreative o di maternità, in relazione univoca del maschio.
I protagonisti, le voci parlanti sono quelle dei due coniugi Felice e Maria Ausilia, la figlia Carla e il figlio di lei Kevin. In un assetto corale, ciascuno degli interpreti ripercorre le tappe che lo legano nell’arazzo della vita familiare. L’intensità, la pienezza di vita rinvenibile nel testo è tale che si ha la sensazione di guardare un filmato anni Cinquanta in bianco in nero leggermente sgranato che, a mano a mano che cambiano i tempi, i soggetti cominciano a prendere colore, fino a diventare una ripresa in digitale con i giorni nostri, segnati dalla pandemia di Covid, che appestò il mondo, il tutto con un affiorante e insinuante sentimento che non so del tutto delineare: nostalgia? La malinconia di un tempo che non ci appartiene più?
Nel corso del Secondo conflitto mondiale, il destino fece conoscere Felice e Maria nella cittadina di Sanluri, nella parte centro meridionale della Sardegna, ad una cinquantina di chilometri circa da Cagliari. Lui, orfano di fatto, dato che la madre era morta e il padre chissà dove, viene provvidenzialmente raccolto dalla strada dai padri Salesiani, che lo accolsero, impartendogli non solo i rudimenti di prossima e consolidata cultura, ma anche una rigidità religiosa, pur senza l’ipocrisia che spesso s’accompagna, che lo vincolerà fino alla fine dei suoi giorni terreni.
Maria è l’immagine della donna di quei tempi, moglie e madre, ruoli attraverso i quali sospende la propria soggettività, sopprimendo in parte il suo senso di individualità, con l’unico diritto della vecchiaia, durante la quale, forse, potrà pensare ai suoi bisogni. In contemporanea, in lei soggiace qualcosa di nuovo, che si annida nelle più profonde pieghe del suo essere donna, per quanto schiacciato in uno spazio di un arretramento imposto e interiorizzato. L’acerba consapevolezza delle due anime in sé troverà una sua via nella felicissima esclamazione, che l’autrice metterà in bocca alla nostra protagonista: “Accidenti a quel giorno!”, il giorno in cui entrerà nel ruolo di prossima moglie e madre, in seguito all’essersi innamorata di Felice.
La figlia Carla, la terza della prole, è una donna del suo tempo, che ha vissuto il cosiddetto boom economico con tutte le sue contraddizioni sociali, economiche e politiche, affrontato le nuove sfide di un mondo sempre nuovo e non sempre condivisibile, ma si farà strada in lei la coscienza che, alle volte ma non sempre, la testa e il cuore delle persone adulte possono cambiare, purché libere dalla rigidità e dal pregiudizio. Lo scoprirà quando si prenderà cura dei due suoi anziani genitori, soprattutto quando suo padre, con il quale aveva un particolare feeling, si ammalerà.
Per ultimo Kevin, ma non per questo secondario, anzi. Il figlio di Carla, prossimo alla laurea e alle prese con la tesi sulle origini della sua famiglia, viene in un certo modo ad attestare l’appartenenza ad un determinato contesto familiare, che incide sulla personalità delle singole individualità e del loro destino. Kevin, dunque, il biografo, colui che ricostruisce una saga familiare, che si perde nei tempi della storia, ma con taluni punti fermi come i tre rami dei Dubois, la cui origine si perde nelle terre di Francia, oppure dei De Nicolais, notabili benestanti della conca avellinese o, ancora, ai legami con il medico Giuseppe Moscati, proclamato santo nel 1987 da papa Giovanni Paolo II. L’autrice non è nuova alla pubblicazione di romanzi. Il suo libro d’esordio rimanda al 2015 con il titolo L’estate che amazzarono Efisia Caddozzu con i tipi Piemme; nel 2019 vide la luce L’ultimo dei Santi (Tarka); nel 2022 Il ferro da Calza, sempre edita dalla pontremolina Tarka. Con le edizioni Arkadia, Salabelle ha, invece, pubblicato nel 2020 Gli ingranaggi dei ricordi e, nel 2022, la scrittrice obesa.
La recensione su Voci dai borghi