L’erba di Vento


Arkadia: Marinette Pendola e il ricordo di un agguato

Lunga è la notte, il romanzo di una storia vera

PARMA“Alla fine, la mia vita è stata serena. Semplice, forse persino banale, ma serena. Non ho bisogno di andare a rivangare vecchie storie. Alla mia età, non chiedo altro che di vivere in pace gli ultimi anni che mi restano. Pochi, a dire il vero, molto pochi. Ho settantotto anni. Non posso viverne molti di più”. Una storia sepolta dalla polvere degli anni; un paese lontano, un vociare confuso, donne e uomini votati al lavoro e al sacrificio; una sera come tante, un bambino come tanti. “Ora ricordo. Ricordo perfettamente quello che avvenne quella sera”. Un barlume di consapevolezza e lucidità attraversa Mimmo, lui che a quella faccenda non aveva più pensato, lui che era solo un bambino a cui vennero sottratte le carezze che sua madre amava serbargli. Eppure quella vicenda torna alla sua memoria come un boomerang, come un calcio sferrato a tradimento. Marinette Pendola in Lunga è la notte (Arkadia Editore) intesse un romanzo basato su una storia vera, un femminicidio, avvenuto negli anni Trenta a Bir Halima, un piccolo paese dell’Africa Settentrionale. L’autrice, nata in Tunisia da genitori siciliani, conosce la ruvidezza e le difficoltà di chi è dovuto emigrare per lavoro e necessità in un paese straniero. Da questo paese Marinette ci porta un aneddoto divenuto romanzo: tra le piccole case del villaggio, una donna viene uccisa. Da allora Mimmo non ha più pensato alla vicenda, ora si trascina solo nella sua casa di Bologna; sono passati molti anni, non ha più nulla da chiedere alla vita, eppure quella vecchia scatola contiene qualche immagine del tempo che fu. Era un bambino quando un colpo da arma da fuoco colpì quella donna e cambiò le sorti di una famiglia, di una comunità. Carmelina piangeva disperata, suo padre era nei campi, sua zia Tanina lo aiutò a crescere, ma la vicenda rimase un mistero. Tutto divenne dimenticanza. Fino ad ora. Lunga è la notte è il tentativo di rimettere insieme i pezzi della memoria, concludere una storia di lacerazione e perdita. Una corsa a ritroso mentre il tempo ha costruito distanza, cinismo, rassegnazione. Marinette Pendola, con una scrittura delicata e concitata, percorre gli anni, i sentimenti, i luoghi; il lettore è accanto a lei, segue le dinamiche e ne ripercorre le evoluzioni.

Di mia madre non ricordo niente. Non so di che colore avesse gli occhi, come portasse i capelli, se corti com’era di moda allora o lunghi e stretti in un concio come usavano le donne all’antica, se indossasse abiti scuri o le piacessero quelli allegri. Non so dire se era taciturna o loquace, gentile nei modi o sbrigativa. Nessuno mai mi ha parlato di lei, nessuno che abbia tenuto vivo il suo ricordo. È come se, insieme al suo corpo, fosse stato sepolto tutto quello che la riguardava. Scomparsa dal nostro mondo, cancellata per sempre. E ora, solo ora, per la prima volta dopo tutti questi anni, ecco che mi torna in mente.

Giulia Siena

 

Il link alla recensione su ChronicaLibri: https://bit.ly/35KSUsH



Chiacchierando con… Marinette Pendola

Ti avrei proposto la tisaneria e salon de thé Eutepia in un vicolo della vecchia Bologna in cui sorseggiare insieme un tè alla menta. Oppure sul lungomare semideserto di Hergla (Tunisia) al tramonto…

… e io non avrei saputo scegliere tra i due luoghi proposti da Marinette Pendola per chiacchierare del suo nuovo libro per la casa editrice Arkadia, e poiché l’immaginazione può tutto, scegliete voi dove meglio volete collocarci per seguire la chiacchierata tra noi.

“Lunga è la notte”, recente romanzo di Marinette Pendola per Arkadia, porta i lettori nel paesino tunisino di Bir Halima, nel quale il 21 giugno del 1936, nella comunità italiana, si consumò un tragico, inspiegabile delitto: l’uccisione di una donna siciliana, moglie e madre irreprensibile. A cercare di dipanare il mistero dopo un oblio durato lunghi anni, in cui è cresciuto e tornato in Italia, il figlio della vittima, presente sul luogo del delitto, la cucina della loro casa tunisina in una calda serata estiva: Mimmo. Le tracce della memoria, i ricordi famigliari segnati dalla tragedia, una piccola comunità che cerca in terra africana di preservare le proprie tradizioni e il legame con le radici, i pregiudizi dell’autorità francese che amministra il territorio, tutto questo è sconvolto dal sangue versato sulla soglia di casa. Come si legge nella bandella, Marinette Pendola è nata a Tunisi, da genitori di origini italiane, e in terra africana spesso guida i suoi lettori: con il romanzo autobiografico “La riva lontana” nel 2000 per Sellerio, e con i due romanzi editi per Arkadia “La traversata del deserto” nel 2014, e “L’erba di vento” nel 2016. Ma anche con le pubblicazioni legate all’attività del Progetto della memoria istituito negli anni Novanta dall’ambasciata italiana a Tunisi.

In che modo la storia vera che è la base di “Lunga è la notte” si inserisce nel tuo percorso narrativo? Segna una continuazione o uno stacco?

RISPOSTA: Il mio percorso narrativo gira intorno al tema della memoria. La storia vera mi ha permesso di creare un personaggio (Mimmo) che ha rimosso tutto il suo passato. Non ha memoria di ciò che avvenne e, per lungo tempo, non vuole averne. È comprensibile, considerato il grave trauma che ha subito. Però, in genere, chi è obbligato a lasciare il proprio paese vive di ricordi che alimentano una forte nostalgia. Insomma, in costoro il passato alimenta (e spesso tiene in piedi) il presente. Ed è ciò che ho incontrato quasi sempre. Raro è invece chi volutamente dimentica o rifiuta il passato tunisino [lo scrittore Gérard Spitéri, franco-maltese-tunisino, intitola un suo romanzo autobiografico “Bonheur d’exil”, ma è un caso unico]. Rispetto alla maggioranza degli esiliati, Mimmo ha un comportamento anomalo. M’interessava indagare questo aspetto. Quando ho cominciato a scrivere, ho assunto un impegno con me stessa: dare voce a chi non l’ha mai avuta. I primi due romanzi sono autobiografici perché l’urgenza di raccontare la mia esperienza (che poi è simile a quella di tanti) si è imposta. Poi ho cominciato a “navigare” fra le storie. Storie che ho sentito durante la mia infanzia, o raccontatemi nel tempo. È come se me le avessero consegnate perché le diffondessi. So di dare vita a un’umanità ignorata dalla storia ufficiale. È una responsabilità ma nello stesso tempo mi diverte e mi riempie di piacere. Inoltre rappresenta un po’ una sfida poiché i materiali sono di difficile reperimento, sparpagliati negli archivi di Tunisia, Francia e Italia, e devo lavorare molto creando di sana pianta situazioni e personaggi. “Lunga è la notte” si colloca in questo filone della memoria e della ricerca di dignità.

Nella premessa al libro fai una differenza fondante per la tua storia tra la verità dei fatti che, affermi, giace in un qualche archivio polveroso della Gendarmeria nazionale francese, e la verità dei personaggi che vivono all’interno del romanzo e a essa soltanto rispondono. Ma quale rapporto intimo lega tra loro la verità dei fatti e la verità dei personaggi in “Lunga è la notte”? E qual è il ruolo di te come scrittrice per gestire le due verità?

RISPOSTA: La verità dei fatti in sé è schematica: una donna è uccisa per motivi misteriosi. Poi si crede di trovare l’assassino che a sua volta viene ucciso. Questione risolta per le autorità. In questo schema si muovono i personaggi che sono tutti frutto della mia fantasia. La loro verità sta nella coerenza: sono sempre coerenti al loro mondo, alla loro psicologia, aderiscono totalmente alla storia e ad essa soltanto rispondono. Certo, lasciando liberi i personaggi di percorrere la loro strada, mi allontano dalla verità storica. Ma questo mi appare secondario rispetto a quello che ho voluto esprimere. Ho fatto questa scelta per vari motivi: uno è preservare la privacy dei discendenti delle persone che hanno vissuto questo evento. Un altro era un obiettivo ambizioso: m’interessava capire come si muove nella vita una persona che ha assistito a un atto così violento come l’omicidio della propria madre. Inizialmente non ero in grado di prevedere l’evoluzione del personaggio Mimmo che si è costruito da sé man mano che la storia prendeva corpo. In sostanza, il fatto reale è stato l’humus che ha dato corpo a Mimmo. Il mio ruolo è stato quello di dargli spazio, lasciarlo crescere dandogli tempo.

Se Mimmo è il personaggio cardine, che con la sua memoria riavvolge i fili del racconto, sono le donne quelle su cui è maggiormente concentrata l’attenzione narrativa. Inevitabilmente la vittima, che assedia il lettore per la tragica fine, ma ancora di più le due donne, che in quella lunga notte e nei giorni successivi, si fanno carico delle incombenze, della cura e anche di cercare di dare un senso con il chiacchiericcio delle loro confidenze e l’acume delle riflessioni: Tanina, la cognata della vittima, e ’Nzula, la vicina di casa, detective in embrione e sagace pensatrice. Due donne giovani che cercano di razionalizzare il dolore e di dare spiegazioni all’accaduto, arrivando molto vicine alla verità.

Che cosa rappresentano queste due donne non solo nell’economia del racconto di “Lunga è la notte” ma anche all’interno della comunità italiana in Tunisia di cui preservi la memoria con i tuoi scritti?

RISPOSTA: Le donne sono elementi fondamentali non solo in questo romanzo. Nel precedente, “L’erba di vento”, protagonista è una donna emarginata ma tenace al punto da raggiungere finalmente l’obiettivo che si era posta. Direi che ho vissuto in un ambiente in cui le donne sono la forza portante dell’organizzazione famigliare e del piccolo mondo in cui vivono. D’altronde non avrebbero potuto seguire i loro uomini in luoghi così lontani, spesso desertici. Sono donne forti, delle vere pioniere che non temono nulla. Forse sottostanno alla cultura patriarcale dominante, ma da mediterranee, sanno perfettamente di avere un ruolo di primo piano in certi particolari contesti. D’altronde Tanina stessa lo dice a un certo punto: agli uomini spetta il compito di andare dai gendarmi e dal prete, a noi il resto. Ruoli diversi, ma non per questo quello delle donne è subalterno.

“Lunga è la notte” scorre su due binari paralleli, convergenti in una cassetta di fotografie, dove sono racchiusi odori, sapori, ricordi ed eventi che Mimmo spera di poter riannodare dopo averli a lungo allontanati da sé. Senza svelare nulla dell’intrigo e della soluzione che svela il movente e l’assassino, cosa spinge Mimmo a tornare a quella lunga notte del 1936 riattivando la memoria attraverso le fotografie? Perché non si accontenta della verità ma vuole rivivere il passato? Cosa ha lasciato indietro?

RISPOSTA: Un incontro all’ospedale, non si sa quanto reale o soltanto immaginato, è ciò che spinge Mimmo a riprendere in mano la propria vita, partendo proprio da quell’evento terribile avvenuto quando lui era bambino. E può farlo solo attraverso le foto, unico legame con quel passato rimosso. Mimmo non ha una verità, non guarda mai indietro. La sua verità sta nel vivere quotidiano: modesto, quasi claustrofobico, ma rassicurante. Non vuole rivivere il passato. In qualche modo vi si sente costretto dall’incontro di quel giorno. O forse semplicemente è giunta l’ora dei nodi da sciogliere, dei bilanci finalmente da fare. E quella specie di bilancio, per quanto claudicante, gli fa intuire (temo non abbia il tempo di capire veramente) di aver attraversato la vita in una sorta di apnea. Congelata ogni emozione, ogni speranza di cambiamento o di evoluzione, la sua vita è trascorsa in una gabbia protettiva, e di quanto questa fosse stretta nemmeno si è accorto. E quell’incontro all’ospedale, elemento scatenante di questa ricerca, è avvenuto effettivamente? Oppure è tutto frutto di una mente sempre più smarrita? A questa domanda credo sia meglio rispondano i lettori.

Siamo arrivate all’ultima domanda.

Tunisia-Italia; l’infanzia e l’età adulta. Sono queste le coordinate spaziali e temporali del tuo romanzo. Possono essere anche intrecciate tra loro in una sorta di significato metaforico: la Tunisia è l’infanzia perduta e l’Italia il mondo dell’età adulta per i tuoi personaggi? Di quale terra si sentono figli o la loro condizione è altra?

RISPOSTA: Potrebbe la Tunisia rappresentare metaforicamente l’infanzia e l’Italia il mondo adulto. Potrebbe, e sono convinta che molte lettrici e molti lettori che non hanno vissuto l’esperienza dello sradicamento e del ri-radicamento daranno questa chiave di lettura. Ma non credo che sia così. Perlomeno la questione è molto più complessa. Lo sradicamento dalla propria terra è molto più di un prima e un dopo. Non vi è, nei miei personaggi, in me, continuità tra quello che fu (l’infanzia) e quello che è ora (l’età adulta). Vi è invece una frattura in cui il prima è totalmente altro da quello che si vivrà dopo. L’impegno costante è ricucire queste due vite per farne una sola, colmando in qualche modo il vuoto fra le due. Io ci sono riuscita grazie alla scrittura. Scrivere – e, in particolare scrivere di questa esperienza – mi ha permesso di ritornare nei territori dell’infanzia per riappropriarmene e, di conseguenza, di completare armoniosamente il mosaico che appariva in frantumi. Attraverso la scrittura creo un “terzo luogo” che non è Tunisia e non è nemmeno Italia, ma forse è entrambe. Ma Mimmo, il protagonista, non è nemmeno lontanamente sfiorato da queste preoccupazioni preso com’è dal bisogno di recuperare il ricordo della madre. Quando mi si chiede di quale terra mi sento figlia, di solito rispondo che se l’Italia è la mia patria, la Tunisia è la mia matria. In quest’ottica si potrebbe davvero cogliere una dimensione metaforica nel percorso di Mimmo che ha perso la madre e la matria e non riesce più a ritrovarle, nemmeno nel ricordo.

 

Il link all’intervista su Giuditta legge: https://bit.ly/3hbEkws



UN EQUILIBRIO NUOVO E UNA SERENITA’ SUPERMERITATA

Ed eccoci, finalmente, con lo Zaino. Una conferma e una certezza, ormai. Dopo la pausa estiva, e alla Ripresa di questo anno particolare e complicato. Dal 22 febbraio scorso una pandemia mondiale ci ha sorpreso e spiazzati e costretti a ragionare anche su un nuovo modo di fare e intendere le librerie e in un mondo dell’editoria, diciamo pure, allo sbando. Resistendo, siamo sopravvissuti e abbiamo continuato a costruire, con assoluto impegno, e a ridefinire una nuova realtà. Abbiamo scelto di rinunciare, per ora, alle presentazioni di libri e agli incontri tradizionali, con non poco dispiacere, ma sempre mossi da un profondo senso di responsabilità. Abbiamo deciso che continueremo a ospitare gli autori in libreria in una nuova modalità: vale a dire tutti quelli che al sabato saranno disponibili a incontrare un ristretto numero di lettori per volta, aiutandoci a fare i Librai. Per i lettori e certo per gli autori stessi sarà un’occasione preziosa per parlare in modo informale di letteratura, e non necessariamente solo dell’ultimo libro pubblicato. Proprio con questa modalità siamo ripartiti già da Sabato 5 settembre e abbiamo ospitato come Libraia per un giorno la scrittrice Marinette Pendola.

Marinette Pendola è nata a Tunisi da genitori di origine siciliana e vive a Bologna, dove è stata docente di lingua e letteratura francese e fa parte del gruppo di lavoro “Progetto della memoria”, istituito dall’ambasciata italiana a Tunisi negli anni Novanta, cui sono legate numerose pubblicazioni, tra cui L’alimentazione degli italiani di Tunisia (Tunisi, Finzi, 2005), Gli Italiani di Tunisia. Storia di una comunità (Editoriale Umbra, 2007). I suoi studi hanno ispirato anche La riva lontana (Sellerio, 2000), romanzo autobiografico che ripercorre un’infanzia tunisina nel periodo coloniale. Per Arkadia Editore ha pubblicato La traversata del deserto (2014), che rievoca il ritorno degli emigrati dalla Tunisia all’Italia, e L’erba di vento (2016), storia potente di una donna che non si sottomette alle convenzioni del suo tempo. È attualmente in libreria con il suo nuovo romanzo, Lunga è la notte, sempre nella Collana Eclypse di Arkadia Editore. Un romanzo ambientato nella Tunisia degli anni Trenta e incentrato sui ricordi, sulle labili certezze che possono offrire, su spazi e luoghi del paese del Nord Africa già indagati dall’autrice.

Oramai vecchio, un uomo indaga sul proprio passato, su quel misterioso femminicidio che lo sconvolse quando era bambino, determinando tutto il corso della sua vita. La sua memoria, impegnata in un serrato confronto con il tempo trascorso, non è però in grado di ricostruire tutti i passaggi, di chiarire le zone d’ombra, rischiarando gli eventi e permettendogli, finalmente, di lasciarli per sempre alle spalle. C’è qualcosa che sfugge, momenti che non si delineano nei contorni sperati. Il protagonista del romanzo, dovrà così cercare l’aiuto di Tanina e ‘Nzula, due donne che potrebbero avere avuto a che fare con quella storia. A loro si uniranno il brigadiere Latrousse e il suo sottoposto Mathieu, insieme al bolognese Callisto e altri personaggi. Saranno in grado di dare una mano e dipanare l’intricata matassa? Il nuovo romanzo di Marinette Pendola, ambientato nella Tunisia preguerra, è incentrato sui ricordi, sulle labili certezze che questi possono dare, su spazi e luoghi del paese del Nord Africa già indagati dall’autrice. Un romanzo sulla sopravvivenza, sulla capacità dell’uomo di commettere azioni orribili e, nel contempo, cercare il bene infinito.

L’accuratezza della nostra proposta culturale si è tradotta, in questi anni, anche in una costante opera di divulgazione e riflessione su i diversi temi offerti dalla letteratura contemporanea. Così, anche durante le settimane di chiusura estiva non abbiamo mai smesso di dialogare con i nostri lettori in Rete attraverso suggerimenti e proposte (o riproposte in taluni casi) di letture da fare. Ogni giorno abbiamo continuato a soffermarci su un titolo, attraverso impressioni e recensioni, per poter far scegliere, tra i nostri libri in catalogo, quello più adatto a ogni singolo lettore.

Antonello Saiz

 

Il link alla recensione su Giuditta legge: https://bit.ly/2F9uPRv



L’erba di vento

Poi, prendo la coffa con le provviste e mangiamo pane e olive nere seduti fuori vicino alla porta. Davanti a noi, la montagna di Zaguano in lontananza chiude l’orizzonte. Da qui appare come un vecchio allungato sulla schiena, un vecchio tutto azzurro, con una pancia a punta slanciata verso il cielo. Un vecchio saggio che attraversa l’eternità nella quiete del cielo turchino. Mi piace. In questo posto sarò serena, ecco quello che penso. Mi basterà guardare questa montagna e qualsiasi dolore mi abbandonerà.

Pubblicato da Arkadia Editore, 2016

Il romanzo, scritto in prima persona, dà voce ad Angela, una ragazza di paese che vive insieme alla madre ai margini di un borgo siciliano non lontano da Partinico. Nonostante l’intelligenza è costretta a subire scelte non sue: non vuole sposarsi e si ritrova moglie di mastro Filippo, un guaritore di campagna. Non vuole essere toccata e subisce i rapporti coniugali. Non vuole emigrare e affronta il mare da clandestina verso la Tunisia. Non vuole nessuno in casa e si trova a dover ospitare Rosalia con il marito, la ragazza che al paese la scherniva. Ma Angela è come la parietaria, in siciliano “erba di vento”, una pianta molto tenace che riesce a sopravvivere in luoghi impossibili. Ella si adatta e subisce situazioni difficili, ma con grande dignità e forza lotta sempre per ritagliarsi e coltivare uno spazio solo suo, dove godere del silenzio e della solitudine che tanto ama e preservare la propria libertà interiore.

Daniela Bottoni



Lunga è la notte di Marinette Pendola

È una storia vera – ma non autobiografica come nei due precedenti romanzi “La riva lontana” e “La traversata del deserto” –, quella che la scrittrice Marinette Pendola racconta nel suo romanzo “Lunga è la notte” (Arkadia editore, 2020, 100 pagine): un femmincidio che ha turbato gli animi di tutti. Giugno 1936, siamo a Bir Halima, un piccolo paese a circa sessanta chilometri da Tunisi, dove si è insediata una piccola comunità di siciliani. Di notte, all’improvviso, mentre gli uomini sono ancora nei campi, nell’aria riecheggia uno sparo: hanno ucciso Santina, nella sua casa, davanti agli occhi dei due figli: Carmelina, che la vittima teneva in braccio, e Mimmo. Mentre Carmelina è troppo piccola per ricordare questo tragico momento, Mimmo subisce il trauma di questa perdita. La lunga notte, quella del titolo del romanzo, non è solo la notte in cui la madre del protagonista viene uccisa, ma è anche la notte in cui Mimmo, a 78 anni, ripensa a lei cercando di ricordare cosa sia successo, nonché metafora della sua vita, che è stata solo una lunga notte dalla morte della madre in poi, in una sorta di apnea. Una vita vissuta poi in Italia, a Bologna, un altro stacco col passato. Della madre Mimmo non ricorda nulla: nessuno, nel corso degli anni, gli ha parlato di lei, tenendo vivo il ricordo, ma neppure lui ha mai fatto domande: voleva solo guardare avanti e lasciarsi tutto alle spalle. Sarà un incontro inaspettato in ospedale, dove è lì per visitare il suo amico Callisto, a far scattare in lui il desiderio di ripercorrere tutta la vicenda che portò alla sua scomparsa. “Ora, proprio ora, devo rivedere tutte le mie certezze, aprirmi a un’altra visuale, a costo di scombinare tutto. Quello che ho sentito oggi non mi lascia scampo. È come se una botta improvvisa e violenta mi avesse scosso fino alle radici e nello stesso tempo, avesse diradato la nebbia che avvolgeva ogni cosa e di cui finora non sapevo. È come se avessi attraversato la vita brancolando in un mare di grigiume e a un tratto mi fossi svegliato in un altro mondo. Un mondo che conosco”. “Mimmo, il protagonista, è piuttosto ingessato – racconta l’autrice al Corriere di Tunisi –. Difficilmente perde il controllo e quando lo fa, avviene con la lingua, ma anziché scivolare verso il siciliano della sua infanzia, pian piano va verso il bolognese, prova della totale rimozione del suo passato”. Il libro più che un giallo – anche se il lettore rimane incollato alle pagine per venire a capo di questo mistero – è il “percorso difficile di un uomo vittima di una tragedia immane”. Ma non solo: Pendola dipinge sapientemente la vita dei siciliani di Tunisia – né colonizzati, né colonizzatori, bensì migranti economici –, tratteggiando allo stesso tempo la realtà coloniale, compresi i pregiudizi verso questa comunità, espressi dal brigadiere – che rappresenta l’autorità – e dal prete. “Ho cercato di ricostruire il più possibile l’ambiente coloniale e la realtà dell’epoca, un po’ come l’avevano vissuta i miei genitori”. Primitivi e rozzi: così vengono descritti i siciliani. “Sapeva che non avrebbe trascurato nulla, che avrebbe scavato nei meandri più intimi di quella famiglia. Si sa, i siciliani hanno costumi primitivi. Risolvono i loro problemi con una coltellata o una fucilata. E all’interno delle famiglie, dicono, le regole sono rigide. Basta poco, uno sguardo, un gesto, per scatenare l’inferno” pensa il brigadiere Latrousse mentre i familiari di Santina sporgono denuncia. “Quelle povere anime non capivano né il francese, né tantomeno il latino. Qualche sforzo doveva pur essere fatto per perforare la scorza dura del loro spirito. (…) Forse era ingiusto e ingeneroso questo suo giudizio, finì col dirsi mentre saliva il primo gradino della chiesa. Era ingiusto, perché aveva attorno a sé anime devote, sebbene un po’ selvagge e di difficile accesso” riflette tra sé il prete prima di officiare il funerale di Santina. I personaggi sono frutto della fantasia di Pendola, a parte il prete, realmente esistito, padre Van den Haak, detto Turidduzzu. “I fatti sono avvenuti così come li racconto, dall’evento scatenante fino all’epilogo finale che ha mantenuto nel tempo il suo alone di mistero. La persona che me l’ha raccontata è il figlio della vittima, che ho intervistato mentre stavo facendo una ricerca sulla comunità di Bir Halima, realtà sociale che lui conosceva molto bene. L’ultima volta che ci siamo incontrati, mentre aspettavo l’ascensore, mi ha detto ciò che era successo alla madre, come se fosse un regalo. Lui non ha avuto la stessa vita di Mimmo: a differenza di quest’ultimo, è riuscito in qualche modo a superare questo trauma ed ha avuto una vita piena”. Per diverso tempo questa storia rimane sospesa, la scrittrice non ne fa nulla, fino al momento in cui sua madre viene a mancare: “Ho sofferto per questa perdita, ma ho pensato di esser stata fortunata, ad averla avuto accanto per molti anni, pensando a come si possa vivere senza la figura materna. Ho voluto così creare qualcuno che avesse problemi con la memoria. Mi sono chiesta: una persona che ha vissuto un’esperienza del genere, come affronta la vita dopo? Non ho svolto ulteriori ricerche: volevo fosse un lavoro creativo, non di cronaca”. La memoria è un tema molto caro all’autrice, che nei suoi romanzi cerca proprio di tenere viva la memoria storica che collega Italia e Tunisia: “Il mio obiettivo è dare voce a chi non l’ha mai avuta, far parlare le persone umili che per la Storia non esistono. Mi piace dar loro vita e visibilità, raccontare la Storia degli italiani in Tunisia attraverso le loro storie”. Una curiosità: la moglie del guaritore da cui Mimmo, in Tunisia, viene portato per curare l’eczema, è la protagonista di “L’erba di vento”.

Giada Frana



Parole e dintorni

L’erba di vento, Marinette Pendola

Gli ulivi la guardano, mentre Marinette attraversa la strada che la riporta alla sua infanzia tunisina a Ouel el Kadra, in una casa di cui ormai non resta che un rudere. Un tempo fermo in quello scorcio di Tunisia che da bambina le appariva sconfinato, da dove si fermava ad ammirare la montagna che si staglia all’orizzonte, un gigantesco vecchio saggio con la pancia allungata che attraversa l’eternità nelle quiete del cielo turchino. Non pensava che se ne sarebbe mai andata da quei luoghi Marinette, non immaginava che potesse esistere una vita al di fuori di quei posti scelti dal suo bisnonno che lasciò Sciacca per partire con la sua famiglia sul finire dell’Ottocento.
Da bambina non sognava certo di lasciare quella casa tra gli ulivi dove correva intorno al tavolo, dove la sera con suo fratello si sedeva fuori a guardare le stelle e ad aspettare di vedere un satellite che attraversava il cielo, dove poteva capitare di portare il materasso fuori per dormire nelle notti più calde con la certezza che nulla avrebbe potuto sconvolgere la quiete imperturbabile di Ouel el Kadra. Scrittrice tunisina di origini siciliane, Marinette Pendola attua costantemente tentativi di distacco e di ritorno ai luoghi dell’infanzia nei suoi romanzi “La riva lontana”, Sellerio, “La traversata del deserto”, Arkadia, nelle immagini del corto Kif-Kif italiani di Tunisia (Progetto vento di Montalbano e Verruci), e nel suo ultimo romanzo “L’erba di vento“.
Le migrazioni sono movimenti sociali, sostiene il giornalista indipendente Fausto Giudice riflettendo sulla Tunisia post rivoluzione che ha osservato sin dal momento del suo ritorno nei luoghi d’infanzia. Pensa che ogni volta che un movimento sociale nel mondo porta una disfatta, una parte dei protagonisti sia costretta a scappare, o per delusione o perché non è riuscita a ottenere quel che voleva, e allora non rimane che andare altrove. Giudice sceglie di tornare nel quartiere de La Goulette, nei luoghi dell’infanzia tunisina che videro gli effetti dell’Unità d’Italia nello sguardo dei siciliani emigrati nel Paese, quando si diceva che non ci fosse più che dell’erba di dosso da mangiare e non restava che partire.
Anni in cui, davanti al potere politico francese, l’Italia cercava di avere un peso sociale, culturale ed economico per poi essere costretta a vedere migliaia di espulsi perché figli delle sconfitte militari. Gli stessi che solo decine di anni dopo, con l’autonomia interna della Tunisia e l’abrogazione del decreto, si sarebbero sentiti di nuovo liberi, famiglie intere che vivevano con la percezione di avere un’appartenenza mista, richiamata anzitutto dal loro dialetto siculo arabo. La ricerca incompiuta delle radici, la memoria, ciò che resta del tempo al di là di un cumulo di macerie e di quegli stessi ulivi che rimasero anche nella mente di Irene Cusmano, rende comune il sentimento dei luoghi nel raccontare un’infanzia tunisina a Enfida, vissuta all’ombra e in funzione di quelle piante di cui l’autrice conserva ancora la percezione dell’odore di sansa che impregnava l’aria durante la spremitura.
Un paese ibrido la Tunisia dei primi decenni del Novecento, ancora Africa e quasi Europa agli occhi di Irene Cusmano che, in “Memorie di Enfida”, racconta, attraverso la prospettiva delle famiglie emigrate dalla Sicilia, il ruolo della donna nella società di quel tempo e il peso dei luoghi nell’immaginario comune dell’infanzia. Cammina ancora tra gli stessi ulivi Marinette Pendola. Ma a differenza delle immagini poetiche di Cusmano, sceglie una pianta infestante per raccontare il sentimento dei suoi luoghi. L’ebba ‘o ventu, come è chiamata in siciliano la parietaria, era considerata utile come rimedio per ogni male fisico da chi sino ai primi decenni del Novecento si curava solo con le piante, anche se in realtà poteva essere efficace tutt’al più per lenire il gonfiore da un colpo subìto o per un arrossamento agli occhi.
L’erba di vento è la prima frase che la protagonista pronuncerà nel rispondere alla domanda di quello che sarebbe diventato suo marito, per poi ripiombare nei silenzi che predomineranno nella sua intera esistenza. L’uomo che entra non voluto nella sua vita rappresenta un’istituzione laica nella comunità siciliana dei primi del Novecento dove i guaritori di campagna erano ritenuti i detentori del dono di leggere nelle persone e di curare attraverso una ritualità tra il sacro e profano nel somministrare un rimedio che non potrebbe avere effetto se non accompagnato dalla recita di preghiere per giorni. Quella giovane ricamatrice protagonista de “L’erba di vento” vorrebbe pietrificare il presente, lontana non solo dall’idea del matrimonio ma anche dal pensiero, vissuto come insopportabile, di essere sfiorata da chiunque.
Per calarsi nella dimensione de “L’erba di vento” occorre soffermarsi sul contesto storico, sociale e culturale in cui è ambientato tra i luoghi della Sicilia e della Tunisia nei primi decenni del Novecento. Attraverso un romanzo di invenzione che richiama elementi da una storia quanto mai comune in quegli anni, Marinette Pendola riesce a mettere in luce le profonde affinità tra queste due realtà. A emergere con forza in ogni romanzo di Marinette Pendola è il peso che ha la memoria. Memoria che può passare anche attraverso l’immagine di un corredo da ricamare, capace di raccontare il destino che segna un’esistenza, e il gesto di rimandarlo i tentativi di sfuggirgli, la sua immagine impacchettata per la visita delle comari l’accettazione, seppur nella percezione della non appartenenza.
La storia di Angela è segnata da ciò che un corredo può rappresentare, lo spettro di ciò che si realizza, suo malgrado, nella sua vita. Nel tempo degli oltre vent’anni della narrazione, il lettore vivrà con la protagonista la sua crescita interiore dal momento in cui è poco più che un’adolescente che si affaccia all’età adulta a quando prenderà piena consapevolezza della propria identità di donna, in un percorso difficile e sofferto, sullo sfondo dell’emigrazione clandestina e della guerra.
Una narrazione piatta e lineare solo all’apparenza, che non solo è perfettamente tornita sulla protagonista, ma che si rivela fondamentale anche nella sua struttura per fare emergere la complessità emotiva e intellettuale dell’io narrante. Quel fluire unico in prima persona che non cambia mai prospettiva, lontano da giochi temporali e spaziali che sembrano ormai condizione imprescindibile nel romanzo italiano contemporaneo per rendere la profondità dei protagonisti, porta finalmente il lettore davanti a un’essenzialità narrativa e strutturale.
Risiede proprio in questa purezza sapientemente costruita la condizione indispensabile per calarsi nei pensieri dell’io narrante attraverso quelle che sembrano essere pagine di diario di chi cerca affannosamente di ricucire i brandelli di un discorso interiore, come insegna Annie Ernaux. La scrittura di Marinette Pendola si posa sui pensieri della sua protagonista raccontando l’inquietudine e il senso di alienazione attraverso immagini fatte di parole, come un abito da sposa il giorno prima del matrimonio negli occhi chiusi di una sposa sveglia che si impone di non vedere. Immagini di riti che assumono connotati grotteschi perché legati a una scelta non voluta, la benlevata per mostrare al paese il lenzuolo di nozze insanguinato e l’immagine stessa di un corredo confezionato e esposto per la visita delle comari, impacchettando e esibendo il dolore della farsa. Momenti vissuti con la percezione di non sentirli propri cercando di renderli evanescenti nella memoria con l’illusione vana di poterli, così, annullare dall’esistenza.
Anche la guerra può assumere contorni inverosimili, quella che Angela sente come una favola che piomba addosso alle loro vite. Una guerra raccontata non negli esiti della sua devastazione ma nel terrore della sua attesa, al tempo stesso a livello individuale, negli sconvolgimenti generati nella vita della protagonista con la fuga di una famiglia italiana dalle idee socialiste e, a livello sociale, nel modo in cui è vissuta dagli italiani che si trovano in Tunisia. È raccontata nel mito perduto di Mussolini, nel modo di convivere insieme tra famiglie dividendosi tra uomini e donne, nel terrore delle donne di subire violenze, nel gesto istintivo di un’anziana nel coprirsi il capo con un cuscino ogni volta che sente il rombo di un aereo, nel modo inconsapevole dei bambini di scherzare sulle bombe, nei tentativi di guadagnarsi da mangiare facendo il bucato agli ufficiali.
In un quadro simile, la profondità della scrittura di Marinette Pendola permette al lettore di compiere da un lato una profonda riflessione sulla condizione femminile dei primi del Novecento e sul ruolo della donna nella società di quegli anni e, al tempo stesso, di percorrere assieme alla protagonista quel percorso interiore che parte con l’accettazione, che non sfocia mai in rassegnazione, di una condizione non voluta nel dover ricalcare quel ruolo che la società ha disegnato per lei. Come poter trovare una forma di emancipazione da un ruolo che si percepisce di non vivere come proprio in un contesto sociale che attanaglia l’individuo? Forse, imparerà presto Angela, l’unica strada potrà essere solo la solitudine, l’unica via per ritrovarsi e trascorrere giornate intere piene solo di sé, l’unica vera emancipazione, come per la protagonista di Irmgard Keun, “Gilgi una di noi“, L’orma. Angela affronta l’esistenza con la percezione di vivere costantemente su un campo di battaglia sentendo il dovere di lottare per la vittoria, ecco perché in fondo si tratta di una fragilità solo apparente, che per essere compresa dal lettore non può prescindere dalla conoscenza del contesto storico e sociale a cui è legata.
Marinette Pendola racconta la solitudine di una donna come unica condizione che si avvicini a un’idea di felicità, una figura che vaga apparentemente senza meta ma che impara a vivere il proprio destino non come qualcosa di inesorabilmente scritto dalla nascita, come crede Mastro Filippo, ma come una scusa dietro cui trincerarsi per non cambiare lo stato delle cose. Quel corredo che suo malgrado dovrà ricamare per sé stessa rappresenta sin dalle prime pagine la sorte da cui non potrà esimersi. Anche Bachisio Bandinu ne “Il cammino lento dell’ombra”, Il Maestrale, lega la sorte all’immagine del corredo, definendolo “l’impresa che propiziava un luminoso destino”. Ecco che allora la descrizione di un luogo in un romanzo come “L’erba di vento” non può essere ridotta alla contestualizzazione di una storia dei primi del Novecento, ma va persino al di sopra della scelta di accentuare le profonde affinità tra due culture avvicinate da eventi sociali e politici.
I luoghi, ancor prima di connotazioni di qualsiasi altro tipo, qui raccontano il peso privato che alcuni posti riescono ad avere per una donna che cerca di portare avanti la propria battaglia per una sopravvivenza emotiva. Ci sono state stanze come prigioni, e il mondo intero una prigione, pensa il Leopardi protagonista del romanzo di Massimiliano Timpano, “La vita, se altro si dice”, Bompiani, e in fondo è ciò che prova la protagonista de “L’erba di vento”, che porta avanti un’esistenza tormentata nell’illusione di riuscire a fuggire a quella condanna cercando altrove altre stanze al di là di quelle prigioni, per poi capire di poterle trovare solo nei suoi luoghi, quelli che le appartengono da sempre in fondo, come quello di Oued el Khadra.
Angela si siede ancora una volta per terra in quello stesso punto, dove sa di poter vedere il Monte di Zaghouan e sentirsi realmente in pace, dove vivere con la percezione che solo in solitudine ogni dolore potrà abbandonarla. Dopo vent’anni può anche accadere che sia quel monte a guardare lei, e magari a raccontarle una nuova storia. Quello stesso “vecchio saggio che attraversa l’eternità nella quiete del cielo turchino” che continua a vedere Marinette tornare a casa ancora una volta.

Alice Pisu



È nata a Tunisi da genitori di lontana origine siciliana. Vive a Bologna. Studiosa della storia, degli usi e costumi della comunità italiana in Tunisia, membro del gruppo di ricerca “Progetto della memoria” promosso dall’Ambasciata Italiana a Tunisi, ha curato il saggio L’alimentazione degli italiani di Tunisia (Tunisi, Finzi, 2005). È autrice del volume Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), edito per “I quaderni del Museo dell’emigrazione” di Gualdo Tadino (2007). È vicedirettrice della rivista “Jourdeló”, pubblicazione a cura dell’Associazione Culturale 8cento, in cui sono apparsi diversi suoi articoli di carattere storico. È autrice di racconti pubblicati in Italia e all’estero, di cui due, Fino al bivio e Una signora perbene, vincitori di concorsi letterari. Ha scritto i romanzi La riva lontana (Sellerio, 2000, proposto in una nuova edizione) e sempre per Arkadia Editore La traversata del deserto (2014), L’erba di vento (2016), Lunga è la notte (2020).



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