“Ecco un esempio di terrore politico. Non sanno cosa fare. In realtà, la politica non ha mai saputo cosa fare con l’arte, se non comprare gli artisti. Non c’è niente che mi dia più piacere che spaventare questi incapaci».”
Un genio ribelle, audace, anticonformista, stravagante e brillante, tutto questo è Esteban Krause, “ L’artista più grande del mondo”, narrato dalla tagliente penna di Juan José Becerra, uno dei principali autori argentini viventi, entrato nella collana Xaimaca, curata da Alessandro Gianetti, Marino Magliani e Luigi Marfè di Arkadia editore. Esteban Krause, dunque, è L’ artista più grande del mondo, osannato, divinizzato, temuto anche dai potenti, le sue feste sono fastose ed eccessive, le sue opere, le sue esposizioni sono fuori dai canoni degli imbecilli, che comprano un Krause e sono malati di name-dropping. “Krause era famoso nel suo ambiente per creare un clima di controversie interne, aspettative, filtrare il suo nome nella massa dell’informazione generalista al fine di ottenere ciò che considerava la “protezione dell’opera”. Non aveva mai permesso alle sue mostre di confrontarsi liberamente con i critici. Diceva che la critica d’arte non è una scienza, ma un mercato di leccapiedi rancorosi, e che quel mercato aveva un prezzo che lui era in grado di abbassare o rialzare” A raccontare lo straordinario artista è il suo amico e scrittore Juan del Valle, erede di una casa nel quartiere più esclusivo di Buenos Aires, Barrio Parque, completamente da ristrutturare. A chi chiedere una mano se non al suo folle amico artista Esteban Krause!? Krause vive con la bellissima Greta, in una tenuta nel Penedès, vicino a Barcellona, costellata da enormi sculture in ferro e dei vigneti Sumoll che coltiva per i suoi vini, una camera del silenzio dove viaggiare per ritrovare il suo sé fragile e selvaggio, un cubo rivestito da mille coni in vetroresina a mo di trono. C’è una sorta altalenante di sfida e di ammirazione tra i due personaggi nati dalla spregiudicata penna di Becerra, dove anche le figure femminili, Greta e Flavia, diventano oggetti versatili di contesa sessuale. Juan del Valle è uno scrittore costretto dal mal di schiena a dettare il suo romanzo a una macchina, uno scrittore che scrive senza l’uso delle mani, osserva le stramberie e le follie di Krause che sfociano spesso in banalità pantagrueliche, vistosamente eccessive, e paradossalmente, è uno scultore che a sua volta non usa le mani, ma solo il suo pensiero, il suo estro creativo e geniale. Il più grande artista del mondo è uno slancio ironico contro la banalità culturale, la convenzionalità dell’arte e i suoi limiti. Perché leggere L’ artista più grande del mondo? Semplicemente perché è un libro tanto divertente, quanto folle, per tutti i lettori che bramano una trama coinvolgente quanto caustica, un romanzo moderno, a tratti psichedelico, effervescente.L’artista più grande del mondo sferza e ferisce l’università dell’arte sempre più inflazionata e mercificata; l’amore e le sue contraddizioni, tra sesso e materialità; la letteratura e la scrittura che sovrabbonda di scrittori, vicino allo sterminio, in un tempo in cui chiunque può scrivere. Un romanzo ambizioso, pungente, dal ritmo frenetico, ironico e mai banale, Becerra è abile e versatile nella sua tagliente scrittura, ormai icona di stile e di eccentricità che fa di lui una voce fuori dal coro. Volevo scrivere questo libro come un qualsiasi scrittore, come lo scrittore che ero, ma non riuscivo a sopportare il dolore alla schiena. La versione che state leggendo è quella di una macchina, che ho fatto costruire per adattare il mio linguaggio parlato a una trascrizione di cui possa fidarmi. Registra soltanto la mia voce, che soltanto la mia voce può correggere o cancellare.
Juan José Becerra.Nato a Junín nel 1965, è giornalista professionista e segue sia vicende calcistiche sia la critica letteraria. È autore di opere di narrativa acclamate in patria e all’estero come Santo (1994), Atlántida (2001), Miles de años (2004), Toda la verdad (2010), La interpretación de un libro (2012), El espectáculo del tiempo (2015), ¡Felicidades! (2019), Amor (2023). El artista más grande del mundo è stato pubblicato per la prima volta nel 2017 ed è già stato tradotto in diverse lingue.
Loredana Cilento
Il link alla recensione su Mille Splendidi Libri e non solo: https://bitly.ws/34ACJ
Mentre leggevo La guglia d’oro di Montserrat Roig, non ho potuto fare a meno di ricordare alcune scene de Il nemico alle porte, film del 2001 di Jean-Jacques Annaud dotato di quello che all’epoca era un fastoso cast hollywoodiano. La ricostruzione dell’assedio di Leningrado tentata dall’autrice catalana si è andata così sovrapponendo ai fotogrammi della battaglia di Stalingrado secondo la prospettiva registica di Annaud, e questo non soltanto per l’assonanza tra i nomi delle due città oppure per il lavoro di ricostruzione storica che è comune alle due opere (anche se con esiti radicalmente diversi: pseudo-kolossal per Annaud, indagine storica, culturale e soprattutto introspettiva per Roig).
A stabilire questa connessione è stato, più che altro, il ricordo di un’ondata di interesse piuttosto intensa, negli ultimi decenni e nel cosiddetto “blocco occidentale”, per i fatti avvenuti sul fronte sovietico durante la seconda guerra mondiale – ondata che è forse montata, per paradosso, soltanto dopo la fine dell’Unione Sovietica (e la conseguente liberazione da alcune paure di contaminazione ideologico-politica), ma che è presto scemata e oggi appare certamente improbabile veder tornare. Gli ostacoli ingombranti e tragici che si sono frapposti negli ultimi anni sono purtroppo assai noti, fino alle loro implicazioni più minute, e spesso anche più grottesche: dall’affaire-Nori (come un esempio, fra i tanti, di ciò che è potuto succedere quando ha iniziato ad aleggiare lo spettro dell’embargo culturale nei confronti della Russia di oggi) all’inciampo del parlamento canadese sul caso dei veterani della cosiddetta “Divisione SS-Galizia” operante in Polonia e Ucraina.
Questi ultimi esempi, nonché il contesto che li determina, sono ricordati non tanto allo scopo di prendere posizione – non è questo il luogo, né certamente l’intenzione, in un contesto di dibattito pubblico, e di conseguenza anche culturale, già estremamente polarizzato – bensì per mettere a fuoco la distanza, forse persino epistemologica, che ci separa dalla realizzazione del reportage pietroburghese di Montserrat Roig nel 1980 (anno, peraltro, delle Olimpiadi di Mosca).
Beninteso, non è difficile entrare nel testo di Roig – reso, in traduzione italiana, con grande freschezza stilistica e senza mai intoppi dal catalanista Piero Del Bon – ma capirne i motivi profondi richiede una certa “sospensione di credulità” rispetto al nostro presente e l’esigenza di provare a tornare al contesto della guerra fredda, nella sua fase terminale. Verso un periodo, dunque, in cui è possibile per Roig esordire con alcune righe di autentica forza morale e politica, non per caso espresse da un’autrice (e per di più di un’autrice formatasi nelle file di un partito socialcomunista catalano, e con una forte vocazione giornalistica): «Se sperate di leggere un libro sul paradiso sovietico, lasciate perdere, non proseguite. Se cercate le riflessioni di un’intellettuale disincantata sui tradimenti dell’URSS, anche. Non parlerò di economia, né di progressi speciali, ma nemmeno di gulag e di ospedali psichiatrici. Di questo si fanno carico ogni giorno i giornali occidentali».
A Roig interessa altro, e il suo tentativo di ricostruzione storica dell’assedio di Leningrado si mescola alla sua passione per la storia e la cultura russa: «questo libro è la storia di una passione», scrive a chiare lettere l’autrice in chiusura della nota introduttiva intitolata “A modo di avviso”, dopo aver ricordato l’incoraggiamento a proseguire nel proprio lavoro ricevuto da un grande intellettuale e scrittore latinoamericano, altrettanto libero nella propria scrittura e nei propri posizionamenti, come Eduardo Galeano. È da questa angolatura che, quasi inevitabilmente, deriva l’attenzione che viene posta in tutto il libro sulle figure dei traduttori che vengono incaricati dagli apparati di accompagnare la scrittrice catalana nel suo viaggio: prepotentemente presente, e caratterizzato da una insicurezza maschile che lo rende aggressivo, fino al punto di essere definito “un secondo Rasputin”, il primo; timido, sempre accomodante e quasi inconsistente il secondo.
D’altra parte, avvicinarsi a Leningrado, alla sua storia e alla sua cultura, è un fatto di traduzione, dinamica della quale Roig a un certo punto decide di prendere le redini, come si nota chiaramente nella seconda parte del volume, dove “Pietroburgo” si sostituisce a “Leningrado”. Al di là di alcuni incontri con esuli provenienti dalla Spagna – a riconferma del fatto che, per quanto ideologicamente, politicamente e culturalmente distanti e diverse, le storie della Russia e dell’Europa occidentale sono sempre state intrecciate – Roig cerca di indagare il destino dei poeti e degli scrittori che hanno vissuto nella città, con una particolare predilezione per Puškin, ma certamente senza dimenticare Le notti bianche pietroburghesi di Dostoevskij. Zona dell’immaginario letterario, quest’ultima, ma anche un fatto quotidiano, in quell’area di mondo, con tutte le fantasie e le allucinazioni cui questo particolare fenomeno dà vita – allucinazioni che arrivano a inglobare quella “grande anima russa” che Roig, come i suoi lettori, sanno essere al contempo grande costruzione culturale, consolidatasi nei secoli, e, specie se vista da Occidente, pallido stereotipo.
Roig vuole e riesce a condurre il lettore verso altri lidi, costruendo un percorso di consapevolezza, che in parallelo è anche il proprio, come mostra il suo continuo andirivieni tra reportage letterario e scrittura diaristico-autobiografica. Chi legge si ritrova costantemente al suo fianco e, tanto su una Prospettiva Nevskij sulla quale la luce dirada pianissimo e si ripresenta poi alle prime ore del mattino, quanto nella ricerca di un percorso più solidamente fondato nelle notti bianche, per nulla affascinanti, che costituiscono le nostre angosce geopolitiche contemporanee.
La guglia d’oro è in definitiva il racconto del progressivo avvicinamento verso l’altro, un altro percepito dapprima come distante “La città delle pietre”, e poi via via sempre più umano e vicino, “La città delle persone”. Il finale, in cui Montserrat Roig torna nella sua Barcellona, dove tutto sembra riprendere come prima, indifferente alla scoperta, contiene la consapevolezza che Pietroburgo – ma il discorso è felicemente estrapolabile – toccata e finalmente percepita, non potrà che continuare a far parte di chi è partito.
NdR “La Guglia d’oro”, della scrittrice catalana Monserrat Roig, è stato pubblicato recentemente (settembre 2023) da Arkadia editore, nella traduzione di Piero Dal Bon, e con la cura da Alessandro Gianetti
Lorenzo Mari
Il link alla recensione su Nazione Indiana: https://bitly.ws/33bSi
Se sperate di leggere un libro sul paradiso sovietico, lasciate perdere, non proseguite. Se cercate le riflessioni di un’intellettuale disincantata sui tradimenti dell’urss, anche. Non parlerò né di economia, 1né di progressi sociali, ma nemmeno di gulag e di ospedali psichiatrici. Di questo si fanno carico ogni giorno i giornali occidentali.”
Affascinante e profondo il libro/reportage, La guglia d’oro, della scrittrice catalana Montserrat Roig, tradotto brillante da Pietro Dal Bon per la lungimirante casa editrice Arkadia – collana Xaymaca – per la prima volta in Italia.Questa storia ha inizio nel 1980, quando la casa editrice Progresso di Mosca invita la scrittrice nella città di Leningrado, l’attuale San Pietroburgo, con l’obiettivo di scrivere un libro sull’assedio che la città subì per più di novecento giorni da parte dell’esercito nazista durante la seconda guerra mondiale. Frutto di quel soggiorno, qualche anno dopo, Roig scrisse “La guglia d’oro”, non un semplice reportage di un viaggio o la storia di uno tra i più cruenti avvenimenti della seconda guerra mondiale, La guglia d’oro è la storia di una passione, di un amore sbocciato tra la scrittrice catalana e la bella e nostalgica Leningrado.
La prima cosa che vidi fu una guglia d’oro che si alzava in fondo alla strada. Era la guglia dell’Ammiragliato. Osip Mandel’štam scrisse che le case che ci sono fuori dalla stazione sono grigie come i gatti. Mi trovavo nella strada più lirica del mondo, secondo Alexandre Blok, e non me ne rendevo conto.
Al suo arrivo, nella città delle notti bianche, le viene affidato un interprete Nikolai, e così ha inizio per Montserrat il suo viaggio nella memoria dei sopravvissuti, nel dolore di chi ha combattuto per restare in vita, soffrendo la fame ma anche una riflessione sull’arte e la letteratura russa, un magnifico testo letterario fortemente ispirato.
Diviso in tre parti. La prima intitolata Il secondo Rasputin, riferimento alla sua guida/interprete, Nikolai, più ebbro che sobrio, si dice innamorato della sua seconda moglie ma non perde occasione per tradirla, accompagna la giornalista ai primi incontri con i testimoni dell’assedio: rievocazioni storiche, tratti veloci di vita quotidiana, e la monumentale bellezza delle architetture russe ma soprattutto è il ricordo di Puskin, Dostoevskij, vita, amori e morte a San Pietroburgo, prima di Leningrado.
Seconda parte dedicata a Pietroburgo, la città di Dostoevskji delle sue 43 case tutte ad angolo, doveconcepì l’intera geografia di Delitto e castigo e da dove si poteva immaginare l’angolo di Sonja Marmeladova e la casa di Alena Ivanovna, la vecchia usuraia. Delle strade e degli edifici resta poco, molte cose sono cambiate.
Terza e ultima parte dedicata alla memoria dell’orrore, alle creature dell’inferno
Dalla voce dei protagonisti che vissero i novecento giorni d’assedio, in particolare emoziona la storia di Alexandra Koss,all’epoca era una bambina di otto anni che leggeva Don Chisciotte in francese, dà l’idea emblematica che ci si può salvare attraverso la cultura, attraverso la letteratura, attraverso la bellezza, o come la storia di Raïsa Livovskaia che si unì a un’organizzazione di adolescenti, mentendo sull’età, impegnati contro i nazisti, o Ol’ga Berggol’c che durante l’assedio pianse una sola volta, per la morte del marito e non lo fece più.
Un giorno Tanja scrisse: “Eugenia è morta il 28 dicembre 1941, a mezzanotte e mezzo”. Poi avrebbe continuato a scrivere il suo diario d’inverno: “La nonna è morta il 25 gennaio, Lëka il 17 marzo, lo zio Aliocha il 10 maggio, la mamma il 13
maggio del 1942, alle otto e mezzo del mattino. I Savičev sono morti. Sono tutti morti.
L’assedio di Leningrado è anche la storia di una città che non vuole morire “Non c’è miglior cuoco della fame”, scrive la Roig, si aguzza l’ingegno, e così gli assediati inventano ricette impossibili con la gomma, olio di pittura, cuoio, ciabatte, per non morire. E poi l’arte e ancora la letteratura, l’amicizia con gli “amici dell’Unione degli Scrittori,” che sono rimasti nella sua memoria.
Il giorno in cui me ne andai da Leningrado, il cielo aveva recuperato il suo colore abituale: un grigio opaco e metallico. Pioveva, finivano le notti bianche. Andai a sedere sulla mia panchina in Piazza delle Arti, vicino alla statua di Puškin da giovane. Gli disse addio, addio al poeta dal braccio disteso. Gocce di pioggia salterellavano tra i suoi riccioli neri.
“La guglia d’oro” rappresenta un frammento necessario della storia, il desiderio di narrare, senza eroismo o commiserazione, l’anima russa, senza limiti o censure.
Montserrat Roig. Nata a Barcellona nel 1946, scomparsa nel 1991 dopo una breve malattia, scrittrice e giornalista spagnola, è stata autrice di romanzi, racconti, reportage e articoli giornalistici per i quali ha ricevuto diversi premi. Impegnata nelle lotte femministe e antifranchiste, ha militato in diverse organizzazioni, come il PSUC, dove cominciò la sua amicizia con Manuel Vázquez Montalbán. Molta roba i poc sabó, una raccolta di racconti, ottiene un primo importante riconoscimento letterario, vincendo il Premio Víctor Català nel 1970, ma la consacrazione arriva grazie al romanzo El temps de les cireres (Il tempo delle ciliegie), che ottiene il Premi Sant Jordi nel 1976. Dal 1977 vive con Joaquim Sempere, che traduce le sue opere in spagnolo, coniugando l’attività letteraria con il giornalismo d’investigazione. Ha collaborato con pubblicazioni presso “Serra d’Or”, “Tele-eXprés”, “Destino”, “Triunfo”, “Cambio 16” e “Avui”. Una delle grandi conquiste dell’opera di Roig è stata la capacità di unire, in anticipo sui tempi, la realtà più concreta, le testimonianze dirette, alla letteratura, in modo che la sua opera di finzione perseguisse un grande realismo e il suo lavoro
giornalistico si umanizzasse con le risorse della finzione.
Loredana Cilento
Il link alla recensione su Mille Splendidi Libri e non solo: https://bitly.ws/XCXG
Il Casinò di Sanremo continua a onorare la sua lunga tradizione culturale conferendo prestigiosi premi a individui che hanno contribuito in modo significativo ad arricchire il patrimonio intellettuale italiano. Tra i premiati di quest’anno troviamo Pupi Avati, un eclettico regista, sceneggiatore, produttore cinematografico e scrittore, che ha trascorso oltre mezzo secolo narrando le sfide dell’Italia e della società contemporanea, sempre con uno sguardo al futuro. Marina Valensise, giornalista e scrittrice, è stata riconosciuta per aver evidenziato l’inquietudine degli intellettuali di fronte alla Seconda Guerra Mondiale e per aver sottolineato la fragilità della libertà. Carlo Miccichè, un esperto dell’industria televisiva e appassionato di storia napoleonica, è stato premiato per il suo contributo nell’adattamento di romanzi per il cinema e la fiction, oltre a insegnare progettazione e scrittura per l’audiovisivo nelle università. Luciano Violante, magistrato e studioso della storia italiana e della cultura classica, ha ricevuto il “Gran Trofeo alla Carriera” per la sua ricerca del perdurare dello spirito della Costituzione italiana. La cerimonia di premiazione sarà condotta da Mauro Mazza, già direttore del Tg 1, e ha visto la partecipazione di illustri esperti e storici, tra cui Carlo Sburlati, Matteo Moraglia, Francesco De Nicola e Aldo Mola. La giuria popolare ha decretato i vincitori tra le terne finaliste delle sezioni in gara, tra cui “Narrativa” e “Saggistica”. La sezione “Narrativa” ha premiato i finalisti Adrian Bravi, Alessandra Necci e Claudio Paglieri, mentre la sezione “Saggistica” gli autori Giulio Dellavite, Leonardo Giordano e Giacomo Sartori. Per la sezione “traduzioni d’autore” sono stati premiati: Riccardo Ferrazzi, Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco e Alessandro Giametti. Inoltre il Premio speciale della prefettura è stato conferito all’avv. prof. Tito Lucrezio Rizzo per l’opera “Il Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica (1848-2022)”. Questo prestigioso premio è stato intitolato ad Antonio Semeria, presidente del Casinò negli anni ’80, che ha sostenuto la nascita dei “Martedì Letterari” come continuazione dei “Lunedì Letterari” di Luigi Pastonchi, preservando così l’eredità culturale e l’immagine di Sanremo come centro di cultura.
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(Barcellona, 1946-1991), scrittrice e giornalista catalana, è autrice di romanzi, racconti, reportage e articoli giornalistici per i quali ha ricevuto diversi premi. Impegnata nelle lotte femministe e antifranchiste ha militato in diverse organizzazioni, come il PSUC, dove cominciò la sua amicizia con Manuel Vázquez Montalbán. Molta roba i poc sabó, una raccolta di racconti, ottiene un primo importante riconoscimento letterario vincendo il Premio Víctor
Català nel 1970, ma la consacrazione arriva grazie al romanzo El temps de les cireres con il quale arriva il Premi
Sant Jordi nel 1976. Dal 1977 vive con Joaquim Sempere, che traduce le sue opere in spagnolo, coniugando l’attività letteraria con il giornalismo d’investigazione. Collabora con pubblicazioni come “Serra d’Or”, “Tele|eXprés”, “Destino”, “Triunfo”, “Cambio 16” e “Avui”. Una delle grandi conquiste dell’opera di Roig è stata la capacità di unire, in anticipo sui tempi, la realtà più concreta, le testimonianze dirette, alla letteratura, in modo che la sua opera di finzione perseguisse un grande realismo e il suo lavoro giornalistico si umanizzasse con le risorse della finzione. È scomparsa dopo una breve malattia il 10 novembre 1991. Per Arkadia Editore sono usciti La guglia d’oro (2023) e L’opera quotidiana (2024) tradotti da Piero Dal Bon.
Mentre facciamo i conti con il caldo estivo, tuffiamoci nelle news letterarie di questa settimana, a partire dal nuovo saggio in uscita per Il Saggiatore, Come parlare il balenese di Tom Mustill che esplora e si interroga sulla comunicazione e la coesistenza tra specie diverse. Con Arkadia Editore invece andiamo ad esplorare il Sud America con L’avventura equinoziale di Lope de Aguirre di Ramón J. Sender, avventura al limite della follia, resa celebre anche dal film di Herzog. Cosa significa appartenere, casa? Cosa significa dare fiducia agli altri, a chi appartiene la terra? S’interroga su questo Karen Jennings, autrice sudafricana, con Un’isola, in libreria per Fazi. Uscito per Alessandro Polidoro, recuperate invece Qui e ora di Pablo Casacuberta, un tenero romanzo sul diventare grandi. Sondare la mente e ideare progetti utopici, fino a cadere nel dramma di un uomo solo: è Il ponte nel deserto di Brianna Carafa, in libreria per Cliquot. E infine non dimenticate che presto D Editore darà il via al pre-order del volume IV di Libertaria: da non perdere!
Il link alla segnalazione su The Bookish Explorer: http://bitly.ws/LVjV
(1901-1982) è stato uno dei maggiori scrittori dell’esilio spagnolo contemporaneo. Dopo la guerra civile si trasferisce
in Messico per poi stabilirsi definitivamente negli Stati Uniti. Tra le sue opere sono da segnalare Míster Witt en el Cantón (1936), El lugar de un hombre (1939), Crónica del alba (1942-1966), La aventura equinoccial de Lope de Aguirre (1964). Alla guerra civile spagnola, oltre a El rey y la reina (1948), ha dedicato anche Contraataque (1938), Los cinco libros de Ariadna (1957), Réquiem por un campesino español (1953). Per Arkadia Editore è uscito L’avventura equinoziale di Lope de Aguirre (2023), tradotto da Lorenzo Mari.