17 Lug Il baco informatico e l’ombra lunga di Gregor Samsa. In dialogo con Andrea Alba
L’ombra di Kafka di Andrea Alba (Arkadia, 2025), se vogliamo cedere alla tentazione di dare un’etichetta di comodo, è una sorta di giallo filologico e la ricerca filologica porta il lettore in luoghi che sembrano ormai appartenere al passato, lo accosta a un modo di rapportarsi ai testi che è già antico. “Questa è la storia di Cristina, degli amici di Cristina e della tesi di laurea di Cristina”, così si apre il romanzo. E’ infatti la storia di un triangolo amicale, con la complessità derivante da questa configurazione geometrica che conduce sempre a maturazioni e cambiamenti, cosicché di sicuro un livello di lettura può essere quello che si abbandona al piacere puro della storia, dei fatti, dei fili che si intrecciano, all’immortale attitudine alla quête che alberga nelle nostre menti costituzionalmente narrative. Ma è anche la storia di un narratore ingombrante e sorprendente; di un libro che forse esiste e di altri che invece non esistono; di quel viaggio dell’eroe che è la compilazione di una tesi non compilativa, come si chiamava una volta; di un’epoca analogica che scompare insieme al secondo millennio: è soprattutto un romanzo sulla letteratura, sull’invenzione narrativa, sulla filologia, sulla traduzione, sull’editoria. I libri in questo romanzo sono come personaggi che si trasformano, scompaiono; che vengono cercati, addirittura strappati e mangiati.
Inizio il dialogo con lo scrittore Andrea Alba, chiedendogli com’è nata l’idea di scrivere questo libro sui libri.
A.A.: Guarda, è partito da un’idea che non è neanche così tanto originale e cioè che la letteratura sia un gioco di specchi, e che spesso per dire la verità bisogna raccontare una menzogna. Però da lì mi sono fatto una domanda che mi ha accompagnato per un po’: chi è che decide cosa è reale nelle narrazioni? Chi ha in mano l’autorità per dire questo è autentico e questo no?
E allora invece di darmi una risposta teorica, ho fatto quello che più mi piace fare: ho inventato una storia, ho buttato giù delle suggestioni che hanno preso la forma di un piccolo plot e ho ideato dei personaggi che potessero muoversi con disinvoltura dentro quella vicenda. Ho immaginato un manoscritto che non dovrebbe esistere, un traduttore che in realtà è un falsario, una giovane ricercatrice che inciampa in qualcosa di più grande di lei, un pizzico di giallo e un narratore non proprio ordinario. E piano piano, da quel nodo è venuto fuori L’ombra di Kafka. Che però avrebbe dovuto avere tutt’altro titolo, ma questa è un’altra storia.
G.C.: Viene naturale chiederti a questo punto la storia del titolo… Vuoi raccontarla?
A.A.: Sì, certo! Avrei voluto intitolarlo Millennium bug perché è ambientato in quello strano intervallo di tempo che separa un millennio dall’altro, a cavallo insomma tra il 1999 e il 2000, con le sue ansie millenaristiche e le speranze per il mondo che verrà. Il romanzo si sviluppa dentro questo piccolo periodo che va da settembre alla mezzanotte del capodanno e poi perché mi piaceva l’idea del baco del millennio, cioè lo scarafaggio della contemporaneità, o comunque qualcosa che come un baco ti tormenta, l’idea di poter giocare con con la doppia natura del “bug”: da un lato il baco informatico, dall’altro lo scarafaggio kafkiano de La Metamorfosi.
Mi piaceva pensare al bug come a un disturbo della contemporaneità. Un piccolo parassita narrativo che ti rode da dentro, il rumore di fondo del nostro tempo.
Ovviamente non è mai piaciuto né al mio agente né all’editore. E a pensarci bene L’ombra di Kafka suona decisamente meglio, anche se devo ammettere che ogni tanto quel Millennium bug mi ronza in testa.
G.C.: Certamente hai ragione, Kafka meglio di chiunque altro può rappresentare il passaggio al nuovo millennio, essendo stato uno dei più acuti interpreti del millennio concluso: ne ha individuato il bug, lo ha anche raccontato. Nel tuo romanzo La metamorfosi è presentata nella sua complessa storia editoriale (che parte dal tradimento da parte dell’amico Max Brod), nella vicenda delle sue traduzioni, addirittura nella sua improbabile prosecuzione (citi il sequel di Karl Brand). Questo insetto kafkiano – in cui si concentra il senso di umiliazione e vergogna di milioni di lettori nel mondo – si è poi trasferito sulla tua pagina, ma si è fatto più audace, non subisce la storia, la architetta: ci racconta la vicenda di Fabio, Cristina e Giulia ma ammette con disinvoltura che “sono legittimamente parte di una storia che non decolla, che non prende tangenti, che non ha colpi di scena. Ma che ha la quotidianità di chi vive sotto lo stesso tetto, desideroso di afferrare per sé e per gli altri quella porzione di felicità” (p.73). Trovo questa osservazione molto interessante, come chiave di lettura trasversale: la storia dei tre personaggi è dunque poco romanzesca, la quotidianità è la storia che non decolla? La storia vera è un’altra? (nel libro, nelle nostre vite, ma a te chiedo del libro…).
A.A.: Ti rispondo con altre domande, anche se è poco carino, ma lo faccio lo stesso: Cosa rende romanzesca una storia? Solo le vicende straordinarie hanno diritto di essere raccontate o anche il quotidiano ha la sua dignità? E Tebe dalle sette porte, per citare Brecht? La storiografia nel Novecento ha scoperto la microstoria, ovvero quella straordinaria capacità di trasformare una vicenda umana ed esistenziale in qualcosa di più profondo; si parte dalla scoperta che il dettaglio apparentemente marginale, se indagato con cura, possa restituirci la complessità di un’epoca e si arriva a indagare la vita dei mugnai, dei contadini, degli ultimi, degli espunti dalla Storia, regalandoci pagine meravigliose di vicende umane. Per la letteratura credo valga lo stesso: a partire dal secolo scorso abbiamo avuto la fortuna di leggere storie straordinarie, da Natalia Ginzburg a Raymond Carver solo per citare i primi che mi vengono in mente, che si nutrono di quotidianità, che è il terreno dove germogliano i conflitti più profondi, le trasformazioni impercettibili e che senza scomodare eroi o gesta clamorose ci hanno offerto la possibilità di leggere la complessità del nostro tempo. Nel mio romanzo la quotidianità viene intaccata dalla letteratura stessa, dal suo potere epifanico, da ciò che ne fa una forza capace di squadernare l’esistenza, di mettere in discussione antichi e nuovi privilegi, di spazzare via il vecchio e ridisegnare il nuovo. Si parte da un bildungsroman che ha al centro le vicende di Cristina, di Giulia e di Fabio e si approda a una scoperta che manda in crisi tutto: sogni, ambizioni, desideri. E a far saltare tutto non è qualcosa che avviene sul piano diciamo reale e concreto, ma in quello di carta e di finzione. Dunque direi che la storia vera è il sottotesto che si cela tra le pagine di un libro che essenzialmente omaggia altri libri, citandoli più o meno esplicitamente, dichiarando sin da subito di avere un debito nei confronti di chi li ha scritti, tradotti, pubblicati.
G.C.: Al centro del romanzo c’è Cristina, che deve scrivere la sua tesi di laurea sulle prime traduzioni italiane della Metamorfosi di Kafka: quello che le interessa è “indagare l’esattezza con cui lo scrittore sceglieva le sue parole” (p.93) e soprattutto “comprendere com’è che il complesso edificio kafkiano possa essere restituito in un’altra lingua” (p.96), trattandosi di un edificio dalla planimetria impossibile, come se fosse stato Escher a disegnarlo (non a caso Escher è molto presente nel testo, a partire da una sua citazione: Siete sicuri che un pavimento non possa essere anche un soffitto? ). Il tuo non è un romanzo tradizionale, classico, però di quello recupera l’attenzione ai rimandi interni; colpisce cioè una coerenza fortissima, una fittissima intertestualità: libri e personaggi rimandano gli uni agli altri. E’ una vera trama. Il narratore, paradossalmente, si chiede anche come la vicenda inestricabile di queste traduzioni si intrecci con quella ancora più aggrovigliata dei personaggi (p.96), peraltro sotto un cielo di carta irreparabilmente strappato. Giro a te la domanda che si fa il tuo narratore…
A.A.: La trama è costruita attorno alla vicenda editoriale di Kafka, — tra le più indagate e dissezionate in ambito accademico — ma qui diventa altro: la sfida personale della protagonista, il fulcro del suo percorso di formazione, umano prima ancora che professionale; ma è come se questa vicenda prendesse la forma di un prisma che riesce a cambiare per sempre lo sguardo sul mondo. Un lampo nell’abisso della letteratura che, come un colpo d’occhio, stravolge il modo in cui, da quel momento in poi, osserviamo e percepiamo la realtà, una sorta di viaggio nel Porto Sepolto che una volta risaliti su ha già avuto il tempo di scompaginare ogni cosa. Tutto il resto del romanzo — i rimandi, i giochi intertestuali, le citazioni più o meno esplicite, i debiti sparsi con la tradizione — costituisce le sue fondamenta: il disegno invisibile che tiene insieme la struttura e ne rivela le intenzioni più profonde. Per questo mi sono servito di Escher e delle sue architetture impossibili.
G.C.: Sicuramente il discorso sull’editoria e sugli scrittori esordienti è tra gli aspetti più interessanti del libro. E’ anche la parte più divertente (penso per esempio alle lettere di rifiuto che uno dei personaggi riceve, p.122). La nostra rivista ha condotto una inchiesta sulla piccola e media editoria in relazione al mainstream, intitolata Diagrammi Editoriali e curata da Muriel Pavoni (vedi qui: Parte 1 Parte 2). Vuoi fare qualche riflessione in merito, a partire dalla tua esperienza?
A.A.: Io penso che il mercato editoriale italiano sia affetto da uno strano morbo: da una parte tutti hanno la consapevolezza che si pubblica troppo e che i lettori comprano sempre meno libri (nonostante i dati positivi sui nuovi lettori); dall’altra, la piccola e media editoria, per provare a esistere, a galleggiare nell’oceano dei big, hanno un bisogno frenetico e compulsivo di sfornare nuove uscite. Questo meccanismo è chiaramente il cane che si morde la coda. Per non parlare della distribuzione, che è il vero costo a cui un editore va incontro e di cui non puoi fare a meno, se vuoi che il tuo libro abbia un minimo di potenzialità di finire tra le mani di un lettore. Col mio nuovo romanzo, pubblicato da Arkadia, non ho avuto troppe difficoltà a raggiungere i lettori: la distribuzione è curata da Messaggerie, e l’ufficio stampa della CE ha seguito ogni aspetto — dalle recensioni agli eventi — con serietà e continuità. Ma mi rendo conto che là fuori, in quell’arcipelago fragile della piccola e media editoria, molti editori sopravvivono soprattutto grazie alla buona volontà degli autori, che finiscono per trasformarsi in uffici stampa, promoter, PR e venditori ambulanti di sé stessi. Una fatica spesso silenziosa, poco riconosciuta, ma necessaria per far esistere un libro, anche solo per qualche settimana in più.
G.C.: Non diciamo nulla sull’esito della ricerca di Cristina e sulla sua tesi di laurea, per non togliere gusto alla lettura. Concludiamo con la bibliografia della sua tesi: il narratore ce la sottopone per completezza, ma il lettore sospetta che possa rappresentare una chiave interpretativa…
A.A.: La bibliografia fittizia di Cristina è chiaramente una chiave interpretativa, un mosaico di testi che si richiamano, si contraddicono e si illuminano a vicenda. Si può leggere come una mappa sotterranea dei temi che percorrono tutta la vicenda di Cristina, dal suo lavoro su Kafka alla scoperta del manoscritto, passando per la crisi della rappresentazione e la riflessione sull’identità. Kafka è ovviamente il centro di gravità: La metamorfosi apre il ventaglio delle trasformazioni impossibili, delle identità fluide e dei doppi deformati. Roth, Deleuze-Guattari e Borges lo riprendono da angolature diverse — la riscrittura, la teoria, il gioco letterario. Philip Roth lo guarda con occhio ironico e devoto; Deleuze e Guattari lo politicizzano; Borges lo ingloba nel suo labirinto infinito, Bolaño lo falsifica in maniera sistematica. Gli altri li lasciamo al lettore.
G.C.: So che è un costume discutibile chiedere agli scrittori di trasformarsi in guru e oracoli che ci danno chiavi di lettura sull’esistenza, ma cedo ugualmente alla tentazione di farti una domanda che potrebbe avere una risposta sapienziale! A conclusione dei nostri discorsi, mi piacerebbe che tu commentassi due brevi citazioni dal tuo romanzo, quella in cui un omone un po’ matto strilla a Cristina, consegnandole una sorta di fiabesca formula magica: “l’originale è infedele alla traduzione” (p.33) e la dichiarazione di Gregorio Boemo, mentre racconta la sua vicenda di editore falsario: “La frustrazione è la leva letteraria di tutto il Novecento” (p.129).
A.A.: La frustrazione — esistenziale, politica, affettiva, letteraria — non è un incidente di percorso, ma la vera molla che genera tutta la riflessione del Novecento. Quando ho scritto quella frase avevo in mente gli astratti furori di Conversazione in Sicilia, un romanzo a cui sono profondamente legato. Il protagonista di Vittorini incarna una frustrazione che non è rabbia politica esplicita né disperazione urlata: è un furore astratto, cioè svuotato di efficacia, senza oggetto, incapace di trasformarsi immediatamente in azione. È un impeto privo di direzione, che si consuma in silenzio, nell’attesa di qualcosa che non arriva. Nessun atto eroico, nessun gesto risolutivo, solo la vita che scivola via come acqua nelle scarpe rotte. Ecco: questa immagine dell’acqua che penetra silenziosa, che accompagna il corpo mentre tutto intorno si fa insensato e ripetitivo — la pioggia, i giornali, gli amici muti, l’amore spento — è la condensazione simbolica della frustrazione novecentesca. Una soglia esistenziale in cui il soggetto non si riconosce più, ma non ha neppure gli strumenti per opporsi. È l’epoca della paralisi, per dirla con Joyce. Volevo che Gregorio Boemo, intellettuale ed editore sui generis, esprimesse quella stessa tensione, quelle stesse paure che furono di Silvestro Ferrauto, intellettuale e tipografo del romanzo di Vittorini. Un altro debito letterario, insomma. Come la frase che pronuncia il matto, che appartiene al Borges di Altre inquisizioni e che rimanda all’idea che l’originale sia sempre sinonimo di purezza, autenticità. Ovviamente è una visione semplicistica che non tiene conto delle riscritture. Basti solo pensare all’origine della letteratura latina che si fa risalire convenzionalmente alla riscrittura dell’Odissea a opera di Livio Andronico.
Gianna Cannì
L’intervista su Voci dall’isola