Chi?
Il romanzo ruota attorno alla vita e alle vicende di Enrico Criaco, 68 anni, uno scrittore di successo. Dopo aver lasciato Roma, Enrico torna a Leuta la piccola isola (immaginaria) situata tra Malta e Lampedusa, che gli ha dato i natali dopo cinquant’anni. Vi torna per trascorrere ciò che resta della sua vita ma anche per fare i conti con il proprio passato. Altri personaggi di rilievo nella storia sono: il giovane sacerdote don Alberto; Nicole, Gregorio il fratello di Enrico, Venerina la “Mahara”, Melania, l’ex moglie di Enrico e il conte Raniero Espinosa, detto “L’uomo del telefono”.
Cosa?
Il tema principale del romanzo è l’imprevedibilità della vita, seguito a ruota dalla colpa, dalla redenzione, dalla riscoperta dell’amore e dalla ricerca della spiritualità. Sono temi che prendono vita nel momento stesso in cui Enrico rimette piede nell’isola di Leuta. Enrico è un uomo disilluso dalla vita, impermeabile al successo che ha come scrittore e desideroso di far pace con sé stesso e con Dio a cui ha sempre addebitato tutto ciò che nella vita gli ha creato un dolore che non riesce a capire, accettare e superare.
Quando?
Il romanzo nasce in pieno periodo pandemico come antidoto spirituale alle restrizioni imposte da una situazione nuova e non prevista. Pur essendo una storia di pura finzione, vengo tirato ben presto dentro, con un grado di coinvolgimento emotivo mai provato in precedenza, che mi regala la possibilità di scoprire parti di me che ancora non conoscevo. Aneddoti particolari non ve ne sono ma posso svelare che per alcuni dei personaggi che vivono tra le pagine del romanzo mi sono ispirato a uomini e donne che ho conosciuto e frequentato per brevi o lunghi periodi.
Dove?
L’idea di scrivere questo romanzo nasce da una serie di sollecitazioni esterne frutto dei miei incontri con una psicoterapeuta che ho visto settimanalmente nel primo anno del mio ritorno a Messina, dopo aver vissuto quarantadue anni a Roma. Le difficoltà di inserimento e di connessione con la nuova realtà paradossalmente hanno rappresentato il propellente creativo che mi ha consentito di superare e metabolizzare il trauma del cambiamento e accettare la nuova sfida a cui la vita mi stava sottoponendo. Il testo è cresciuto spontaneamente; sono uno scrittore e un narratore di lungo corso, nel momento in cui avevo deciso di scrivere questa storia e approntato lo schema base della stessa, il resto è venuto da solo com’era naturale che fosse.
Perché?
È il romanzo della maturità, che mi ha consentito di squadernare le mie paure e mie fragilità, magistralmente incarnate nella figura complessa e sfaccettata di Enrico Criaco, il personaggio, l’alter ego, che mi ha accompagnato in questo esaltante viaggio, facendomi scoprire l’isola immaginaria, che alberga in ognuno di noi. Il romanzo, spesso crudo, affonda la lama nei sentimenti più reconditi per raccontare, dal mio modesto punto di vista, quanto la vita quando vuole sia in grado di mutare volto e aspetto, chiedendoti una risposta finalizzata solo alla tua crescita e alla comprensione di quel mistero che giornalmente ci troviamo tra le mani ma che, spesso, non sappiamo decifrare e comprendere.
Scelti per voi
A quel tempo Venerina era una quarantenne con capelli nero pece e occhi di fuoco. Era soprannominata “la Lupa”, sia per la sua prorompente bellezza, sia per la sua condotta trasgressiva. Le voci sul suo con to dicevano che la donna, figlia e nipote di altrettanto famose mahare, per pagare un debito di famiglia, fosse stata obbligata a sposare un uomo che avrebbe potuto esserle padre ma, sin dal giorno dopo le nozze, il poveretto fu costretto a subire le esuberanze della giovane e scalpitante consorte che prese a concedersi sessualmente a tutti gli uomini in grado di stimolare la fame d’amore che la assaliva all’improvviso e nelle occasioni più disparate, proprio come una lupa affamata. Se un uomo le piaceva, alla Lupa bastava stuzzicarlo con un paio di occhiate più eloquenti di tante parole, quello da predatore si tra 22 sformava subito nella più mansueta delle prede. In tempi passati, se fosse vissuta nell’America puritana del Diciassettesimo secolo, sarebbe andata in giro con la lettera scarlatta cucita sul vestito, ma per paura dei poteri soprannaturali che si sussurrava possedesse fin dalla nascita come malefico lascito della madre, nessuno, nemmeno le donne tradite, cornificate, osò mai dirle nulla, subendo in silenzio l’umiliazione e l’onta del tradimento. Enrico della Lupa aveva sentito parlare più volte in casa, fin da piccolo, ma non la conosceva perché abitava in una zona del paese lontana dal centro, popolata solo da un pugno di case costruite su terrazzamenti coltivati a grano e vite. Di lei si diceva anche che sapesse tagliare le trombe marine e le tempeste che, specie d’inverno, flagellavano il tratto di mare intorno all’isola rendendo difficile la navigazione a barche e pescherecci. Correva anche voce che Venerina avesse insegnato la formula all’a mante ufficiale, un famoso pescatore tal Cateno Restuccia, che vantava un’impressionante rassomiglianza con l’attore americano Paul Newman. Questo potere gli era stato dato in dono affinché ogni volta tornasse sano e salvo tra le braccia, le labbra e il ventre infuocato della sua amante. Se la barca di cui era capitano si trovava ad affrontare una tempesta, Cateno si posizionava a prua recitando la formula magica, avuta in regalo dalla Lupa, e ammansiva quel mostro di vento e acqua come se fosse un cane in procinto di azzannare. Ecco da chi andava Enrico quella mattina. Non sapeva cosa aspettarsi ma la sola possibilità di conoscere in anticipo ciò che la vita aveva in serbo per lui dava forza alle sue gambe e consapevolezza alla sua decisione di affidarsi a una perfetta sconosciuta.
Quando finalmente arrivava l’alba, Enrico ringraziava Dio, perché con l’alba riacquistava la libertà e la capacità di discernimento che l’oscurità della notte gli aveva sottratto. Allora si alzava e cominciava a girare per casa come uno zombie, un apolide, un elemento estraneo all’affresco, mentre Enrico Ruggeri alla radio cantava: «Non mi cerca re, che non mi riconoscerai. Non mi cercare che non mi riconoscerai». In realtà, l’unica cosa di cui era cosciente era quella di dover preparare la moka, metterla sul fuoco e farsi un caffè al fine di riacquisire sembianze umane. Era stravolto; l’ennesima notte passata in bianco lo restituiva al giorno come un boccone indigesto, rimasticato e poi sputato. E nonostante in quelle ore di veglia forzata avesse passato in rassegna decine e decine di immagini di ciò che era stato, degli errori compiuti, dei pochi successi raggiunti, dell’odio che l’aveva lambito e dei tanti dolori che era stato costretto ad affrontare, l’unico lascito di quelle ore avvelenate era quel momento sublime in cui guardandosi allo specchio si rendeva conto di essere ancora vivo. Ammaccato, escoriato, ansimante, eppure maledettamente vivo,
Enrico entrò in casa, si guardò intorno: il tempo sembrava essersi fermato, qualche mobile era stato portato via ma c’era ancora il letto e, sopra il letto, il ritratto di una Madonna con bambino. Tornò all’ingresso e osservò la strada da una delle finestre, scostò la tendina e fuori lì di fronte a lui c’era Nicole. Stava facendo delle foto: si girò, con una mano gli fece segno di non muoversi e scattò. Sorrise. Enrico si staccò dalla finestra e si avvicinò all’uscio della camera da letto. In quel momento avvertì alle spalle la sua presenza. Nicole gli cinse teneramente la vita con le braccia. Il viso appoggiato alla sua spalla destra. Enrico si girò: le loro labbra erano a pochi millimetri. Si baciarono ancora e a lungo, poi lui la sollevò e la adagiò sulla sponda del letto. Lei appoggiò la macchina fotografica su una sedia e alzò le braccia gettando la testa all’indietro. «Sono qui per te», sussurrò. Enrico la spogliò lentamente, Nicole lo lasciò fare e in una manciata di secondi lui la liberò da tutti gli indumenti. Ora Nicole era nuda. Si distese sul letto, mentre Enrico s’inginocchiò a terra e appoggiò la testa sul suo basso ventre. Lanciò un lungo sospiro e venne premiato da un senso di pace mai assaporato in tutta la sua vita. Lei gli accarezzò i capelli e sussurrò: «Non so come si faccia, ma proviamo.» «A fare cosa?», chiese Enrico con la voce rotta dal pianto cercando i suoi occhi. «A trasformare in gioia il dolore.»
Mario Falcone. Scrittore e sceneggiatore, nato a Messina, dopo una lunga parentesi romana, da qualche anno è tornato a vivere in Sicilia. Per oltre vent’anni è stato uno degli sceneggiatori più noti in Italia firmando alcune tra le più importanti pagine della fiction televisiva, che gli hanno consentito di ricevere importanti riconoscimenti in Italia e all’estero. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con il romanzo L’alba nera (Fazi Editore). Poi ha proseguito senza più fermarsi. Per Arkadia Editore ha pubblicato Leuta (2024).
Grazia Calanna
La recensione l’EstroVerso
Il romanzo, ambientato tra Livorno, Firenze e l’Irlanda, porta la città labronica tra i candidati al prestigioso premio letterario. L’autrice: “Essendo una storia che si sviluppa in gran parte a Livorno, penso sia una bella cosa per il territorio”
di Giulia Bellaveglia
C’è un po’ di Livorno nella corsa al prestigioso Premio Campiello 2025. La scrittrice livornese Anna Bertini, già nota per il suo stile raffinato e intimo, è tra i candidati con “Il tema di Ethna”, edito da Arkadia. Un romanzo che intreccia musica, identità e memoria, ambientato tra Toscana e Irlanda, con una forte presenza della città labronica. “È una candidatura – dice Bertini -, e io sono consapevole che partecipare non significa arrivare in finale, però sono felice che la mia casa editrice abbia deciso di propormi. Essendo una storia che si sviluppa in gran parte a Livorno, penso sia una bella cosa per il territorio”. La proposta al premio è partita infatti proprio dall’editore. “In genere sono le case editrici che candidano i testi, poi la giuria fa varie selezioni fino alla finale”. Il libro si sviluppa tra Firenze, Livorno e l’Irlanda. Al centro c’è Ethna, una musicista irlandese cresciuta in Italia, violoncellista e insegnante. Durante una vacanza a Castel Sonnino, che nel testo diventa un suggestivo hotel, la protagonista vive un’esperienza che mette in discussione la sua esistenza. La narrazione alterna elementi reali a finzione. Alcuni personaggi sono esistiti davvero, come Horace Gibson, fondatore della International School of Florence, che diventa uno degli attori principali. “Come molti, ho cominciato scrivendo poesie, poi racconti. Nel 2020 ho pubblicato il mio primo volume e questo è il secondo. I miei riferimenti sono stati Antonio Tabucchi e Daniele Del Giudice. Li ho sempre considerati un po’ come maestri, anche nei primi studi di scrittura”. L’esperienza musicale dell’autrice, inoltre, si riflette profondamente nella narrazione.
Prima di dedicarsi ai libri, la scrittrice ha infatti lavorato come manager musicale, seguendo carriere di artisti lirici e organizzando tournée internazionali. “Ho fatto questo lavoro fino al 2011, poi ho adottato una bambina e, con lei a scuola, non riuscivo a viaggiare più di tanto. Così ho finalmente trovato il tempo per scrivere”. E per il futuro qualcosa bolle già in pentola. “Sto lavorando al mio terzo romanzo, ambientato tra Livorno, l’Isola d’Elba e Minorca, dove trascorro parte dell’anno. Sarà ancora un intreccio di realtà e invenzione”. Con “Il tema di Ethna”, Anna Bertini non solo porta la sua voce al Campiello, ma offre un tributo poetico alla nostra città. Un’occasione per far conoscere, anche oltre i confini locali, un territorio ricco di storie e suggestioni. Buona fortuna Anna!
Giulia Bellaveglia
La recensione su QuiLivorno.it
Un cagliaritano al Premio Campiello 2025. Massimo Granchi, nato a Cagliari nel quartiere San Michele, cresciuto a Quartu, ma residente in Toscana, è in lizza per l’ambito premio letterario con il suo romanzo dal titolo La memoria della vite, Arkadia editore.
Scrittore, antropologo, comunicatore pubblico, Granchi è ideatore e animatore di eventi culturali. Ha conseguito un Dottorato di ricerca in Istituzioni e Società. Dirige due premi letterari nazionali. Ha fondato l’Associazione culturale Gruppo Scrittori Senesi di cui è presidente onorario. Tiene laboratori di scrittura creativa. Oltre ad articoli, racconti, fiabe e saggi ha scritto romanzi e ha vinto numerosi premi letterari tra i quali il Premio online Scrittore toscano dell’anno, il Premio della Giuria Memorial Vallavanti Rondoni, il Premio Murex Città di Parole, il Rive Gauce Festival, il Premio Città di Montefiorino, il Premio Città di Sarzana e il Santucce Storm Festival. La memoria della vite è il suo quinto romanzo. Racconta la storia di Gabriel, un ragazzo di origine colombiana che vive con la mamma e il fratello minore in un condominio di Roma. Suo padre ha fatto perdere le tracce senza chiarire le ragioni della sua scelta e ha lasciato un vuoto difficile da colmare in famiglia. Nello stesso palazzo vive Sole, la migliore amica di Gabriel che nasconde un passato tormentato nonostante sia allegra e ami la vita. È una sognatrice con molti progetti da realizzare e un legame da ricostruire con il papà. La madre di Sole è Liliana. È una donna emancipata nata al Sud. Ha fondato un’agenzia di badanti nella capitale. Il suo matrimonio è in crisi. Ha un legame profondo con l’isola di Procida dove ha trascorso le estati da bambina ed è lì che vorrebbe tornare. Le vite di Gabriel, Sole e Liliana sono intrecciate molto più di quanto possano immaginare. Un drammatico incidente le cambierà, costringendo i tre protagonisti a percorrere traiettorie esistenziali inaspettate, a rivedere le priorità, ma soprattutto, ad affrontare demoni nascosti dietro scelte ineluttabili. “La memoria della vite” è un romanzo sul significato delle relazioni umane, il coraggio, la speranza e la capacità di rinnovarsi.
La segnalazione su TGR
SULLA CROCE pag.17
Ho lunghe braccia
e mani
che da lontano abbracciano
ancora una preghiera
e ti odio
come ti ho amato
senza nessuna pietà
fortissimo
1) Breve commento
“Sulla Croce”, è un testo breve, intenso e profondamente evocativo. Andrea Magno mette in scena una figura umana – forse Cristo stesso, forse un’anima simbolica – crocifissa non solo nel corpo, ma anche nei sentimenti. L’amore e l’odio si fondono in una tensione drammatica, amplificata dalla posizione della croce che permette di “abbracciare da lontano” anche ciò che non si può più toccare. È una poesia sull’amore estremo, sul dolore della perdita e sulla forza ambivalente dei sentimenti.
2) Esegesi completa
“Ho lunghe braccia
e mani”
– L’immagine richiama immediatamente la crocifissione. Le braccia sono distese, clavate, eppure assumono anche un valore metaforico: sono strumenti che si allungano oltre il limite del corpo, diventando segno di una tensione spirituale o emotiva.
“che da lontano abbracciano
ancora una preghiera”
– L’“abbraccio” qui è spirituale: le mani crocifisse non possono più stringere fisicamente, ma rimane una vicinanza interiore. La preghiera è ciò che sopravvive, un legame fragile ma persistente con qualcosa di sacro, forse con un’altra persona.
“e ti odio
come ti ho amato
senza nessuna pietà
fortissimo”
– La seconda parte ribalta l’immagine iniziale. L’amore diventa odio, ma con la stessa intensità: l’emozione è totale, assoluta, “senza pietà”. Non c’è più spazio per la misura: i sentimenti estremi si fondono in una sorta di annullamento reciproco, generando un grido emotivo potente.
Questa poesia suggerisce che l’amore più profondo può trasformarsi nel suo contrario mantenendo la stessa forza, e che la croce è il luogo simbolico dove tutto questo si concentra: dolore, sacrificio, amore e rabbia.
3) Analisi linguistica
Lessico: Scarno, diretto, simbolico. I sostantivi sono pochi ma forti: braccia, mani, preghiera, pietà. L’assenza di aggettivi (a parte nessuna e fortissimo) accentua la nudità del linguaggio e il suo valore espressivo.
Sintassi: La struttura è franta, spezzata, quasi come se imitasse il respiro faticoso di chi sta sulla croce. L’uso del verso libero amplifica il senso di tensione e di apertura.
Figure retoriche:
Metafora: “abbracciano ancora una preghiera” – l’abbraccio è immateriale.
Ossimoro implicito: amore e odio convivono, mescolandosi in un’unica espressione emotiva.
Anastrofe: l’ordine delle parole è volutamente non canonico per sottolineare lo sconvolgimento interiore.
Enjambement: utilizzati per mantenere la tensione da un verso all’altro, rendendo il testo visivamente ed emotivamente disarticolato.
4) Conclusioni
Andrea Magno, con pochi versi, costruisce un dramma interiore profondo, usando la croce come simbolo assoluto di dualità emotiva. La poesia mette a nudo la forza dei sentimenti umani portati all’estremo e l’ambivalenza dell’amore. “Sulla Croce” è una riflessione sulla sopravvivenza del legame affettivo, anche quando si è attraversati dal dolore, dal sacrificio e dalla trasformazione dell’amore in odio. Un testo intenso, scarno e carico di pathos.
ATLANTIDE , pag 51
A mani giunte,
in questa vita
e nella prossima,
dimmi,
se posso venire da te,
senza colpa,
come mare che consuma scoglio,
nell’errore dell’aspettativa,
a spiegarsi il senso,
vagheggio,
non discernendo vero e falso,
c’è musica,
nelle esose emozioni
che accompagnano passione,
nessuna manipolazione
del desiderio,
costretto
senza equilibrio
lungo il cammino,
tra le braccia del diavolo,
dimmi,
se posso venire da te.
1) Breve commento
“Atlantide” è un viaggio interiore, una supplica, una richiesta di redenzione o di amore puro. Andrea Magno intreccia mito e psicologia, passione e disillusione, in una tensione continua tra desiderio e colpa. Il titolo richiama il mito della città perduta, simbolo dell’inattingibile, della bellezza sommersa e dell’ideale irraggiungibile. La poesia è una preghiera pagana che interroga il senso stesso dell’amore e dell’esistenza.
2) Esegesi completa
“A mani giunte,
in questa vita
e nella prossima,”
– L’incipit è una preghiera, ma senza destinatario esplicito. Le mani giunte sono simbolo di supplica, forse religiosa, ma anche intima. L’idea di continuità tra questa vita e l’altra introduce un orizzonte eterno, quasi reincarnativo o spirituale.
“dimmi se posso venire da te,”
– Qui si manifesta il desiderio, ma anche il dubbio. L’“andare da te” può essere inteso come un ritorno, una fusione o una richiesta d’amore. Tuttavia, la domanda è condizionata dalla colpa e dall’incertezza.
“senza colpa
come mare che consuma scoglio nell’errore dell’aspettativa”
– Questa immagine è potente e originale: il mare che consuma lo scoglio diventa metafora di un amore che distrugge, ma non per malizia: lo fa “nell’errore dell’aspettativa”. È un’ammissione poetica di fragilità emotiva.
“a spiegarsi il senso,
vagheggio
non discernendo vero e falso,”
– La voce poetica è smarrita, vaga tra concetti, tenta di trovare senso ma fallisce nel distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è. È una condizione esistenziale di sospensione.
“c’è musica
nelle esose emozioni
che accompagnano passione,”
– L’emozione diventa musica, ma non è semplice: è “esosa”, cioè esigente, impegnativa. L’amore è qui un tumulto emotivo che chiede molto, che coinvolge totalmente.
“nessuna manipolazione
del desiderio,
costretto
senza equilibrio
lungo il cammino,”
– C’è un desiderio puro, non strumentalizzato, ma che soffre perché costretto, privo di armonia. Il cammino dell’amore è quindi irregolare, doloroso, mancante di stabilità.
“tra le braccia del diavolo,”
– Qui avviene una svolta: l’amore o il desiderio può condurre alla dannazione, alla perdizione. Le braccia del diavolo sono l’abbraccio proibito, ma forse anche l’unico rifugio rimasto.
“dimmi
se posso venire da te.”
– Il verso finale riprende la supplica iniziale, chiudendo il cerchio. Dopo tutto il tormento, la domanda resta: posso ancora amarti? Posso ancora essere accolto?
3) Analisi linguistica
Lessico: poetico, simbolico, fortemente evocativo. Parole come vagheggio, esose, desiderio, colpa, diavolo costruiscono un campo semantico complesso tra mistico, emotivo e mitologico.
Sintassi: fluida ma articolata, con frasi spesso sospese e cariche di significati multipli. L’assenza di punteggiatura forte contribuisce a un senso di flusso continuo e riflessivo.
Figure retoriche:
Metafora: “mare che consuma scoglio”, “braccia del diavolo”, “musica nelle emozioni”.
Anafora implicita: la ripetizione del verso “dimmi se posso venire da te” in apertura e chiusura crea una struttura a cornice.
Ossimoro e antitesi: emozioni che esaltano e consumano, amore e dannazione.
Enjambement: usati per sottolineare la continuità di pensiero e la tensione interna della voce lirica.
4) Conclusioni
“Atlantide” è una poesia che affonda nella profondità dei sentimenti umani, oscillando tra bisogno di amore, senso di colpa e paura di perdersi. Il titolo evoca un luogo perduto e ideale, proprio come l’amore a cui si anela. Andrea Magno utilizza il linguaggio poetico per esprimere una crisi identitaria, spirituale e affettiva, con una voce che non cerca certezze ma ammette la fragilità del proprio cammino. La poesia è sospesa, come l’anima che la pronuncia, tra desiderio e dannazione.
UNA GOCCIA pag. 62
A farci l’amore
poi la pelle ti resta addosso,
e,
nella diafana rabbia di un addio,
quel lato della stanza
avrà quel colore
per sempre.
1) Breve commento
“Una goccia” è una poesia densa, contenuta, eppure devastante nella sua essenzialità. In pochi versi, Andrea Magno cristallizza l’intimità, la perdita e la permanenza del ricordo attraverso immagini corporee e visive. L’amore fisico si imprime sulla pelle, ma ciò che resta è una rabbia silenziosa, “diafana”, che colora lo spazio per sempre. È un addio che non svanisce, che continua a vivere nelle tracce invisibili del quotidiano.
2) Esegesi completa
“A farci l’amore
poi la pelle ti resta addosso,”
– Il legame fisico tra due persone viene descritto con una crudezza tenera: dopo l’amore, ciò che rimane non è solo un ricordo, ma qualcosa di viscerale. La pelle dell’altro, come traccia, come identità impressa, resta impressa nella carne e nella mente.
“e
nella diafana rabbia di un addio,”
– L’addio viene associato a una rabbia diafana: un ossimoro sottile. “Diafana” evoca qualcosa di leggero, trasparente, quasi etereo, mentre la “rabbia” è una forza distruttiva. Insieme, creano un’emozione contenuta, interna, che brucia senza fiamme.
“quel lato della stanza
avrà quel colore
per sempre.”
– Il dolore dell’addio si imprime nello spazio. Quel lato della stanza diventa un simbolo, un’area contaminata dalla memoria. Non è solo una parte fisica dell’ambiente, ma un frammento di tempo congelato nel ricordo. Il “colore” è indefinito, eppure assoluto: non potrà più cambiare. È l’impronta dell’assenza.
3) Analisi linguistica
Lessico: scarno, diretto, quotidiano ma fortemente evocativo. Parole come pelle, rabbia, addio, colore si caricano di valore simbolico.
Sintassi: molto contenuta, con una costruzione che gioca sulla sospensione. L’uso dell’enjambement tra i primi versi crea un ritmo lento, quasi esitante.
Figure retoriche:
Metafora: “la pelle ti resta addosso” – l’amore fisico come marchio emotivo.
Ossimoro: “diafana rabbia” – contrapposizione tra leggerezza e forza distruttiva.
Sineddoche/spazio simbolico: “quel lato della stanza” – parte per il tutto, spazio per il ricordo emotivo.
Anadiplosi tematica: “quel… quel” – il richiamo rafforza il senso di fissità, l’inevitabilità del ricordo.
4) Conclusioni
“Una goccia” è una poesia intima e misurata, che racconta la permanenza della perdita e il peso fisico del ricordo. Andrea Magno scrive come se volesse lasciare una goccia d’inchiostro in un bicchiere d’acqua: piccola ma capace di colorare tutto. La stanza, la pelle, la rabbia diventano contenitori di memoria emotiva, e l’addio si fissa non solo nel cuore, ma negli oggetti e negli spazi del vivere quotidiano. È poesia della persistenza, della traccia che non si cancella.
LA FORMA DEL DESIDERIO pag.83
E morire sempre
con un’anima maledetta,
nell’abbandonarsi
senza nessuna spiegazione
tra quelle gambe
per dimenticare promesse,
custodendo segreti
scivolavano lacrime
mentre ardore
scuoteva fianchi, e mani
trattenevano spalle,
quel culo,
– visto da qui –
una distrazione di certe notti,
e abbassare gli occhi
non bastava
in quel vano riempire
silenzi di parole.
1) Breve commento
“La forma del desiderio” è un testo corporeo, crudo e struggente. Andrea Magno esplora il desiderio nella sua dimensione più fisica, ma anche nel suo legame profondo con la perdita, il vuoto e l’illusione. Il sesso qui non è appagamento, ma rifugio – un gesto disperato per dimenticare, per non sentire. Il corpo diventa terreno di battaglia tra ardore e malinconia, tra piacere e senso di colpa. È una poesia che non giudica, ma espone con nuda verità.
2) Esegesi completa
“E morire sempre
con un’anima maledetta”
– Il verso iniziale è definitivo: il desiderio è una condanna, una morte reiterata. L’anima è “maledetta” non tanto in senso religioso, quanto come segnata, dannata, incatenata a un piacere che non libera.
“nell’abbandonarsi
senza nessuna spiegazione
tra quelle gambe
per dimenticare promesse,”
– L’abbandono fisico è un atto privo di senso razionale, spinto da una volontà di dimenticanza. Le “promesse” non mantenute o infrante sono il motore emotivo di un atto sessuale che è più fuga che comunione.
“custodendo segreti
scivolavano lacrime
mentre ardore
scuoteva fianchi, e mani
trattenevano spalle,”
– Il sesso è contemporaneamente un atto di desiderio e di dolore: lacrime e ardore coesistono, così come segreti e movimento. Il corpo vive mentre l’anima soffre. Le mani che “trattengono” suggeriscono un desiderio di possesso, ma anche forse un tentativo di fermare il tempo.
“quel culo
– visto da qui –
una distrazione di certe notti,”
– Un momento di disincanto, di ironia quasi tragica. L’oggetto del desiderio è guardato da lontano, con distacco. È “una distrazione”, cioè qualcosa che devia dall’abisso emotivo, ma non lo riempie davvero.
“e abbassare gli occhi
non bastava
in quel vano riempire
silenzi di parole.”
– Il gesto di abbassare lo sguardo indica vergogna, stanchezza, rassegnazione. Eppure non è sufficiente: le parole dette durante questi incontri non riempiono davvero il vuoto, i “silenzi” restano, enormi, incolmabili. Il tentativo è vano.
3) Analisi linguistica
Lessico: diretto, carnale, volutamente esplicito e poetico insieme. Termini come gambe, culo, lacrime, fianco, ardore mettono a nudo la fisicità senza filtri, ma sempre con carica emotiva.
Sintassi: il verso libero segue l’urgenza del sentire. Non c’è punteggiatura, se non nei due trattini, che isolano l’immagine oggettivata del desiderio. La struttura è fluida, ma ogni verso ha un peso preciso.
Figure retoriche:
Ossimoro emotivo: “lacrime” e “ardore”, piacere e dolore convivono.
Metafora: “morire sempre” – il sesso come annullamento, rinascita o dannazione.
Sineddoche: “quel culo” – parte del corpo per il tutto del desiderio e del legame.
Anafora tematica: “non bastava”, “vano riempire” – sottolineano l’inutilità del gesto rispetto alla profondità del vuoto.
4) Conclusioni
“La forma del desiderio” è un testo che esplora il lato oscuro dell’intimità. Andrea Magno scrive una poesia che si muove tra pelle e anima, dove il corpo si offre come unica possibilità di dimenticanza, ma non riesce a colmare il vuoto affettivo e spirituale. La fisicità diventa una maschera, una risposta instabile al dolore. È una poesia che lascia il lettore spoglio, a confrontarsi con le proprie forme di desiderio, di solitudine, di finzione e verità.
UNA GABBIA pag. 125
Accompagnando memoria
lungo questa strada,
nessuna nostalgia di me,
sono onda,
che il vento sospinge
nel reticolo relazionale
del paradosso del tempo,
una convenzione,
dove ho nascosto
– tra una lacrima e un sorriso –
parole su parole,
al sole che non riscalda,
non ho pace
per il tempo, che non vedo
dal mio angolo cieco,
una dissonanza,
avevo scritto il futuro,
ma,
non so più dove andare.
1) Breve commento
“Una gabbia” è la poesia della consapevolezza e dello smarrimento. Andrea Magno riflette sulla memoria, sul tempo e sull’identità, abbandonando del tutto la dimensione carnale delle poesie precedenti per immergersi in una più filosofica e astratta. È un testo che parla di prigionia interiore, di un’esistenza che si muove tra illusioni e percezioni deformate. Il tempo, la memoria e il linguaggio diventano forme di una gabbia mentale, dove la direzione si perde e la pace è inattingibile.
2) Esegesi completa
“Accompagnando memoria
lungo questa strada
nessuna nostalgia di me,”
– La memoria è una compagna di viaggio, ma non fonte di dolcezza. L’assenza di nostalgia verso se stessi suggerisce distacco, forse rifiuto o perdita dell’identità passata.
“sono onda,
che il vento sospinge
nel reticolo relazionale
del paradosso del tempo,”
– L’io si identifica con un’onda, elemento fluido, instabile, in balia di forze esterne (il vento). Il “reticolo relazionale” indica una rete invisibile di legami, percezioni e riflessi. Il tempo, qui, non è lineare ma paradossale: sfugge, si intreccia, si spezza.
“una convenzione
dove ho nascosto
– tra una lacrima e un sorriso –
parole su parole”
– Il tempo è ridotto a convenzione, a costruzione. Dentro questa finzione, l’io ha nascosto le parole: comunicazione mai del tutto vera, mimetizzata tra emozioni ambivalenti.
“al sole che non riscalda,”
– Il sole è tradizionalmente simbolo di vita e chiarezza. Qui, invece, è una presenza sterile: luce senza calore, verità senza conforto.
“non ho pace
per il tempo che non vedo
dal mio angolo cieco,”
– Il senso di disorientamento si intensifica. L’angolo cieco è il punto da cui non si riesce a percepire il mondo, e quindi neanche il tempo. L’io è tagliato fuori dal fluire naturale degli eventi.
“una dissonanza,
avevo scritto il futuro,
ma
non so più dove andare.”
– La dissonanza è il contrasto tra ciò che si era immaginato e ciò che è accaduto. Aveva dato forma al proprio destino, ma ora quella traiettoria si è persa. L’ultima dichiarazione è una resa, un riconoscimento di smarrimento esistenziale.
3) Analisi linguistica
Lessico: filosofico, riflessivo, denso di astrazione. Termini come memoria, paradosso, convenzione, dissonanza inseriscono la poesia in un campo semantico concettuale.
Sintassi: fluida ma complessa, con ampie frasi articolate che mimano il pensiero in divenire. L’uso delle virgole, delle pause e del trattino dà ritmo e peso alle immagini interiori.
Figure retoriche:
Metafora estesa: l’io come onda, il tempo come reticolo, la memoria come viaggio.
Ossimoro implicito: “sole che non riscalda”, lacrima e sorriso – immagini che coesistono nella contraddizione.
Enjambement: utilizzati per accompagnare il flusso del pensiero, quasi come un monologo interiore in versi.
Similitudine implicita: la gabbia è concettuale, costruita con elementi astratti: tempo, emozione, parola.
4) Conclusioni
“Una gabbia” rappresenta la maturazione (o forse la frattura) definitiva del soggetto lirico. Andrea Magno qui lascia ogni appiglio terreno – il corpo, il desiderio, l’amore – e affronta l’instabilità del tempo, della memoria, della coscienza. Il titolo è emblematico: la gabbia non è fatta di sbarre, ma di esperienze e percezioni. È la poesia di chi ha smesso di cercare certezze e si trova davanti al vuoto dell’ignoto, con la consapevolezza disarmante di aver perso la mappa.
La forma del desiderio: anatomia di un’anima esposta
Il titolo della raccolta è una dichiarazione di poetica: il desiderio è ciò che dà forma alla materia poetica, al corpo, all’identità, al linguaggio. Ma quale desiderio? Non è mai semplicemente erotico o spirituale. In Andrea Magno, il desiderio è ambivalente, distruttivo, luminoso e oscuro insieme. È ciò che ci tiene in vita e ciò che ci consuma.
Dalla croce al vuoto: una traiettoria discendente (o ascendente?)
In “Sulla Croce”, il soggetto poetico è già esposto, trafitto, in croce: ama e odia con la stessa intensità. C’è una verticalità simbolica: braccia aperte, sacrificio, spiritualità ambigua. È un amore sacro-profano che brucia da lontano.
Poi, con “Atlantide”, si entra in un mondo sommerso: il tono si fa più supplichevole, incerto, smarrito. La preghiera si trasforma in desiderio di unione, ma anche in paura di perdersi. Il mito della città sommersa diventa il simbolo del sentimento idealizzato e irraggiungibile.
“Una goccia” è forse la poesia più asciutta e tagliente della silloge: qui il desiderio ha lasciato una traccia, la pelle addosso, ma tutto si riduce a un colore fisso, un ricordo che non cambia, immobile come un dolore inciso nelle pareti dell’abitudine.
A questo punto arriva “La forma del desiderio”, cuore pulsante e manifesto della raccolta. È un testo dove il corpo esplode: il sesso è rifugio, ma anche perdita di senso. Il desiderio si fa carne, ma non trova salvezza. È crudele, bello, necessario. Ed è proprio qui che si consuma la frattura definitiva: non c’è più una direzione, solo fuga e attrito, ardore e lacrime. La voce poetica si avvicina alla verità ma ne rimane bruciata.
Infine, “Una gabbia”: la parola si fa pensiero, il desiderio si ritira nel silenzio del pensiero. Non c’è più il corpo, né l’altro. Rimane la memoria, il tempo e la coscienza del non sapere dove andare. È il punto finale del percorso, il limite della conoscenza. Il desiderio non ha più forma: si è dissolto in dissonanza, in parole inutili, in un futuro scritto e smarrito.
“Il desiderio come processo, non come risposta”
Questa raccolta non racconta una storia lineare. Non c’è un inizio, uno svolgimento, una fine. C’è piuttosto un moto ondoso, come l’onda di “Una gabbia”, che ritorna sempre su sé stessa: amore e perdita, corpo e memoria, fede e colpa, sogno e dannazione. È un continuo ritorno all’origine del sentire, un vagare nella carne e nello spirito alla ricerca di senso.
Il desiderio, allora, non è solo una tensione verso l’altro. È anche il bisogno di sapere chi siamo quando l’altro ci lascia, o quando ci abbandoniamo a lui, o quando ci rifiutiamo.
“Conclusione aperta”
Andrea Magno, con La forma del desiderio, ci consegna un’opera densa, crudele e profondamente umana. Una poesia che non cerca consolazione né risposte, ma accetta la contraddizione, l’ambiguità, il non sapere.
È un viaggio che parte dal corpo e finisce nella mente, ma potrebbe essere anche il contrario. Come un desiderio: non sai mai se ti spinge in avanti o ti risucchia indietro.
Francesca Mezzadri
La recensione su Satisfiction
Desidero essere sincero. Dopo aver acquistato il romanzo “La Bella virtù” di Marisa Salabelle dalla mia amata Feltrinelli, mi sono trovato un po’ in difficoltà. Il rischio di trovarmi di fronte ad un libro autobiografico, magari leggermente celebrativo era dietro l’angolo; e questo mi ha fatto indugiare, ma, a sua volta, avendo letto ed apprezzato molti degli interventi da lei scritti nel suo blog personale ogni titubanza è venuta meno. Infatti, è stato sufficiente sollevare la copertina, girare le pagine con l’occhiello, il frontespizio e, infine, la dedica – manco farlo apposta ai genitori – per essere catapultati in uno spaccato di vita, che coinvolge in un vissuto personale, che può verosimilmente appartenere a chiunque di noi. Non si fa ora ad immergersi nel mare narrativo del romanzo, che l’autrice se ne esce con il proverbiale asso nella manica, spiazzando o, forse, fuorviando il lettore con una frase, meglio un epitaffio che sembra volerlo introdurre in una dolorosa catabasi, la cui meta appare ineludibile: “Nel 2010 mio padre si ammalò: tumore al pancreas”. In realtà, l’incipit diviene l’occasione per resuscitare le vicissitudini di una storia familiare, le cui diverse generazioni soprattutto le componenti femminili si sono ritrovate a fare i conti con le innumerevoli sfide del tempo, affrontando le avversità e i dolori della vita, inserite anche nell’ottica del raggiungimento del diritto di cittadinanza per il genere femminile nel piano economico, giuridico, intellettuale e, infine, politico, nonché alla consapevolezza di un proprio io slegato alle funzioni procreative o di maternità, in relazione univoca del maschio.
I protagonisti, le voci parlanti sono quelle dei due coniugi Felice e Maria Ausilia, la figlia Carla e il figlio di lei Kevin. In un assetto corale, ciascuno degli interpreti ripercorre le tappe che lo legano nell’arazzo della vita familiare. L’intensità, la pienezza di vita rinvenibile nel testo è tale che si ha la sensazione di guardare un filmato anni Cinquanta in bianco in nero leggermente sgranato che, a mano a mano che cambiano i tempi, i soggetti cominciano a prendere colore, fino a diventare una ripresa in digitale con i giorni nostri, segnati dalla pandemia di Covid, che appestò il mondo, il tutto con un affiorante e insinuante sentimento che non so del tutto delineare: nostalgia? La malinconia di un tempo che non ci appartiene più?
Nel corso del Secondo conflitto mondiale, il destino fece conoscere Felice e Maria nella cittadina di Sanluri, nella parte centro meridionale della Sardegna, ad una cinquantina di chilometri circa da Cagliari. Lui, orfano di fatto, dato che la madre era morta e il padre chissà dove, viene provvidenzialmente raccolto dalla strada dai padri Salesiani, che lo accolsero, impartendogli non solo i rudimenti di prossima e consolidata cultura, ma anche una rigidità religiosa, pur senza l’ipocrisia che spesso s’accompagna, che lo vincolerà fino alla fine dei suoi giorni terreni.
Maria è l’immagine della donna di quei tempi, moglie e madre, ruoli attraverso i quali sospende la propria soggettività, sopprimendo in parte il suo senso di individualità, con l’unico diritto della vecchiaia, durante la quale, forse, potrà pensare ai suoi bisogni. In contemporanea, in lei soggiace qualcosa di nuovo, che si annida nelle più profonde pieghe del suo essere donna, per quanto schiacciato in uno spazio di un arretramento imposto e interiorizzato. L’acerba consapevolezza delle due anime in sé troverà una sua via nella felicissima esclamazione, che l’autrice metterà in bocca alla nostra protagonista: “Accidenti a quel giorno!”, il giorno in cui entrerà nel ruolo di prossima moglie e madre, in seguito all’essersi innamorata di Felice.
La figlia Carla, la terza della prole, è una donna del suo tempo, che ha vissuto il cosiddetto boom economico con tutte le sue contraddizioni sociali, economiche e politiche, affrontato le nuove sfide di un mondo sempre nuovo e non sempre condivisibile, ma si farà strada in lei la coscienza che, alle volte ma non sempre, la testa e il cuore delle persone adulte possono cambiare, purché libere dalla rigidità e dal pregiudizio. Lo scoprirà quando si prenderà cura dei due suoi anziani genitori, soprattutto quando suo padre, con il quale aveva un particolare feeling, si ammalerà.
Per ultimo Kevin, ma non per questo secondario, anzi. Il figlio di Carla, prossimo alla laurea e alle prese con la tesi sulle origini della sua famiglia, viene in un certo modo ad attestare l’appartenenza ad un determinato contesto familiare, che incide sulla personalità delle singole individualità e del loro destino. Kevin, dunque, il biografo, colui che ricostruisce una saga familiare, che si perde nei tempi della storia, ma con taluni punti fermi come i tre rami dei Dubois, la cui origine si perde nelle terre di Francia, oppure dei De Nicolais, notabili benestanti della conca avellinese o, ancora, ai legami con il medico Giuseppe Moscati, proclamato santo nel 1987 da papa Giovanni Paolo II. L’autrice non è nuova alla pubblicazione di romanzi. Il suo libro d’esordio rimanda al 2015 con il titolo L’estate che amazzarono Efisia Caddozzu con i tipi Piemme; nel 2019 vide la luce L’ultimo dei Santi (Tarka); nel 2022 Il ferro da Calza, sempre edita dalla pontremolina Tarka. Con le edizioni Arkadia, Salabelle ha, invece, pubblicato nel 2020 Gli ingranaggi dei ricordi e, nel 2022, la scrittrice obesa.
La recensione su Voci dai borghi