In letteratura, segnatamente in narrativa, si verifica quanto accade nella realtà, le trasformazioni indotte dall’era digitale segnano il cambio di scenari nella rappresentazione del mondo. A noi, rispettivamente nelle vesti di lettori da un lato, di cittadini dall’altro, tocca il compito di coglierne le mutazioni, di rifiutarli o, peggio, di ignorarle.
Al riguardo, il successo della formula del circolo di lettura, fiorito ovunque, in sostituzione del singolo recensore dell’opera, amplifica il concetto rendendolo intellegibile. Nel tumultuoso succedersi degli eventi, legati alla fase del postmodernismo, la funzione della cultura, in essa l’arte, si trasforma rapidamente, percepita al vaglio delle sensibilità soggettive, maturata nel confronto collettivo di idee.
Premessa per introdurre il testo emblematico nel quale mi sono imbattuto di recente, a segnare il superamento della linea di demarcazione tra passato e presente. Anche qui, una indispensabile precisazione riguardante il netto stacco tra la narrativa degli ultimi decenni del Novecento con gli esiti delle innovazioni apparse negli anni due del terzo millennio.
Ecco, quantunque in sintesi, delineato il quadro di riferimento di “Nulla d’importante tranne i sogni”, autrice Rosalia Messina, edito da Arcadia Eclypse.
Per esplicitare la premessa, il romanzo sarebbe adatto a contenere un occhiello, “Ritratto d’artista postmoderno”. Non tanto e non solo, a esergo della personalità letteraria della Messina, quanto per le atmosfere, i contenuti, la scrittura, in sé fluente, nondimeno da mondare in funzione assertiva.
Tra i più acculturati, chiunque si inalberasse, per il trasversale riferimento a “Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane”, si dia pace, quantunque il paragone sia improponibile, il disagio espresso dall’inarrivabile James Joyce, ha tanto da spartire con il disperante tentativo di palingenesi in atto nell’ambito letterario globale, nel novero del quale s’inscrive la Messina.
A sceverare tra le righe del testo, per chi si muove nelle pieghe della narrativa del primo quarto di secolo del Duemila, sarà agevole cogliere il periodare insistito eppure irrompente, tutto imperniato sul fluire paratattico, dove le coordinate, in fila una dietro l’altra, rendono il flusso di coscienza una sorta di rimorso sociale per la deriva in cui sono precipitati i personaggi in scena, con loro la Sicilia, metafora del mondo.
Nell’attingere agli appunti vergati sul taccuino durante la lettura, la prima annotazione porta il segno del genere del romanzo, a catalogarlo psicologico si farebbe torto alla trasparente allegoria contenuta in favore degli aspetti sociali. E, pur tuttavia questa è una notizia, non siamo reiteratamente di fronte alla solita indagine sul più recente degli omicidi con il frusto poliziotto a caccia dell’assassino. In un’Italia in cui la giallistica ha agito da padrona, la potenza senza controllo della scrittura della Messina netta l’aria dalle scorie di esercizi intesi a lisciare il pelo al pubblico per il verso… imposto dal mainstream.
Va da sé, riguardo all’osservazione precedente, l’iperbole della potenza senza controllo, lungi dal riproporre la nota pubblicità, vuole solo essere la premessa per attendere sulla soglia della successiva pubblicazione l’autrice, nell’attitudine di scoprire le potenzialità nascoste dietro l’angolo di “Nulla d’importante tranne i sogni”. In quella capacità di organizzare la debordante fantasia creativa, calzante con l’utilizzo dei registri linguistici, sicuramente da rendere più snelli, insistendo per plasmare il periodo in speditezza e incisività, è racchiuso l’approdo del genere narrativo attualmente in sperimentazione non contemplato nei manuali di narratologia, affermatosi in questi anni due del ventunesimo secolo.
In più, da quell’unico sostantivo a campeggiare nella prima di copertina, sogni”, s’intuisce nella sua insita polisemia, la quintessenza della narrazione. Da solo vale la lettura del romanzo.
Sulla duplice ermeneutica poggia l’intero spartito semantico. A sua volta, fissato nel narrato attraverso due concetti chiave, uno tipico del nostro tempo, il desiderio sublimato in sogno, nel caso in ispecie quello di Dora Mariani, vissuta scrittrice, prestatasi a tenere a battesimo, nell’agone editoriale, la giovane promessa letteraria, Rosaria Mortillaro, detta Ro, vagheggia e insegue la voglia di portarla a letto. Da contraltare, sul fronte opposto, il sogno inteso nella sospensione dell’attività psichica superiore con l’immersione in impressioni visive, pensieri e sensazioni a latere delle immagini, proiezioni oniriche sedimentate durante il sonno. Nella finzione sarà Emir, figlio adottivo della protagonista, appunto Ro, a fungere da sognatore di traslucide fantasie rese dalla maestria dell’autrice tramite un retablo di colori, suoni, odori, con l’esito suggestivo di assegnare alle visioni la valenza della premonizione.
Evitando di annoiare chi desiderasse godere della lettura, basti notare la leggerezza con la quale il testo adotta tre voci narranti. Senza sforzo palese, dall’io della prima persona, abilmente distribuito, a seconda delle esigenze del plot, tra diversi personaggi, almeno due, impiegando il meccanismo della missiva, si passa al racconto affidato al narratore extradiegetico, si perdoni il tecnicismo narratologico, da intendersi fuori dalla cerchia dei personaggi. Altrimenti come dipingere il rarefatto e pur profondo dolore di Fosco Beltrami, nipote di Rosamaria Mortillaro, di fronte a un evento straordinario, del quale è vietato dire per non svelare il mistero, orchestrato per mezzo del climax, figura retorica a indicare l’apogeo degli eventi, uno dei tanti, a movimentare la scena del romanzo?
A reggere l’intero plot, l’approccio imperniato sul radicale scontro tra le sorelle Mortillaro, Rosamaria la maggiore, Annapaola la piccola, in un contesto di situazioni in cui luoghi, persone, ambienti, atteggiamenti, pensieri ed emozioni hanno sapori, odori, di una Sicilia di commoventi bellezze paesaggistiche, in commistura con un inesprimibile nulla.
Sullo sfondo della narrazione di Nulla d’importante tranne i sogni, la mescola tra la vocazione letteraria della protagonista, Ro, ovvero Rosaria Mortillaro, scrittrice di fama, con la crisi epocale della società attuale, trova il duplice sbocco sia nella scrittura, sia nei conflitti della quotidianità familiare, a loro volta riconducibili al buio interiore di ciascuno dei personaggi. Nella loro compulsante solitudine in una società di comparse, costoro si muovono nella nebbia del disorientamento, al pari dei soggetti evocati negli Anni perduti, a citare l’intramontabile Brancati, con il peso di una quotidianità da inferno dantesco.
Nello sviluppo della trama l’azione si combina con il narrativo, dando luogo a più racconti, stanze, dentro un’unica cornice. Di un tale effluvio beneficeranno i lettori. In ogni pagina, troveranno atmosfere riconducibili alla delezione dei tempi.
In favore della snellezza di esposizione, accenno per titoli a taluni argomenti, veri e propri topoi, all’origine dello spaccato narrativo della Messina, a mio parere giocato sulla istintualità, dalla danza della vita al limitare della fine, sceverata da Cioran nel “Funesto demiurgo”, alla “Morte del sole”, per usare la metafora di un saggio di Sgalambro, fino al rimpianto della religiosità perduta raccontata da Hillman nella “Vana fuga dagli dei”. Sì, nell’aura del romanzo s’avverte, nella disperazione irrimediabile della protagonista, Rosamaria Mortillaro, la deriva della società multimediale, privata dell’anima mundi.
Nel concludere la riflessione la sensazione predominante è stata di essere dinnanzi a un processo di svolta della narrazione contemporanea, generatrice di una gamma di sensazioni afferenti alla disperante voglia di dare un senso alla postmodernità, con essa alla vita.
angelo mattone (a.mattone@icloud.com)
Angelo Mattone
La recensione su Pio La Torre
I giorni pari di Maria Caterina Prezioso, Arkadia
Un racconto, che come spesso oggi fa accadere chi scrive, intreccia la realtà e la fantasia, e lo fa bene, con attenzione per i dettagli, quelli della nostra storia italiana. Tra la scalata e la caduta del fascismo, due donne, le loro famiglie: Sara ebrea, Silvana malata di tubercolosi. I fatti – che oggi assumono impressionante attualità alla luce della rilettura, spesso impietosamente banalizzante se non addirittura irrispettosa, dei drammi che molti cittadini del nostro paese hanno vissuto sulla propria pelle – sono visti e narrati internamente al contesto famigliare, con un taglio intimo che mi ha ricordato le opere di Natalia Ginzburg, dove, da dentro le stanze della vita quotidiana, assistiamo all’invadenza della storia nella traccia della vita. La lingua scelta è adatta ai contesti, l’uno medio-borghese l’altro popolare, in cui le due protagoniste si trovano ad agire, e qualche volta suona volutamente retrò con l’esplosione un po’ drammatica dei sentimenti, giovani e indomiti, di caratteri che si trovano del resto calati in un periodo di continui sconvolgimenti.
Sara è figlia di un farmacista ebreo “ingentilitosi” per non perdere tutto, all’uscita delle leggi raziali; un “gentile” è infatti una persona che si è fatta “arianizzare”, rinunciando al proprio culto. Una legge del Ministero degli Interni introdotta nel ’39 e usata in modo assai discutibile, tanto da poter essere accessibile solo a chi se la potesse “economicamente” permettere, consentiva di tornare a “vivere”, nel tessuto sociale dal quale i non ariani si vedevano esclusi. Tuttavia, gli altri membri della famiglia restavano “ebrei” e quindi, dovevano vivere in un cono d’ombra, che impedisse alla società di “accorgersi” di loro. Per questo Sara viene mandata via da Roma, è costretta ad abbandonare l’abitazione borghese dei genitori allo scoppio della guerra, e viene “accolta” da una famiglia di Sperlonga, pagata per spacciarla per una parente. Sarà la svolta del destino che cambierà tutta la sua vita, ma che non sopirà il suo senso di ricerca della giustizia. L’incontro con gli ideali dei partigiani, con gli intellettuali del “Manifesto di Ventotene”, la porterà a fare scelte che devieranno da quelle di una vita al “riparo” dal male, scelta dai i genitori, in buona fede, per lei. Silvana è figlia della borgata romana, delle case popolari dove il duce aveva trasferito il più indigente proletariato romano. Da suo padre, invalido della Prima Guerra Mondiale, ha avuto un’unica e sfortunata eredità: la tubercolosi. Sarà la malattia ad allontanare anche lei dal contesto famigliare, per entrare, giovanissima, al sanatorio Forlanini, dove il professor Fegiz (personaggio reale), luminare ebreo “imboscato” nel perimetro ospedaliero perché troppo bravo e utile alla medicina, la curerà, insieme alla popolazione di sfortunati che abitano una realtà drammaticamente parallela ai fatti della storia, quella della malattia. La sua vita sarà plasmata dal rapporto con il grande luminare che l’ha in cura, capace di apprezzare l’intelligenza emotiva della ragazza, la sua apertura verso la vita, la capacità di prendere in mano il destino, nonostante tutto. Le due protagoniste vivono, ciascuna per sé, una vita calata nel reale panorama dell’epoca più cupa dell’Italia, ed è scorrevole e appassionate il disegno finzionale che Maria Caterina Prezioso traccia, ponendole in parallelo, su binari che, solo leggendo il bel romanzo, sapremo se e come si toccano.
Anna Bertini
La recensione su Letteralmentelive
Manifestazione del 28 aprile 2024 per l’Inaugurazione del monumento ai patrioti sardi in via Quarto a Sassari.
“Primavere sarde” compie tredici anni. L’iniziativa commemorativa della Sarda Rivolutzione ideata da Teatro S’Arza, nel corso del tempo ha trovato nuovi compagni di viaggio, in particolare Sa Domo de Totus ed è diventato un’importante tradizione che, in occasione di Sa Die de sa Sardigna, celebra la storia della Sardegna e le sue radici più profonde. La commemorazione, da quattro anni a questa parte infatti, si trasforma in un’opportunità di apprendimento e riflessione storica, che quest’anno vedrà la partecipazione di circa 400 studenti sardi appartenenti ad una rete di scuole. Questi giovani saranno coinvolti in attività di laboratorio, formazione e approfondimento sugli eventi che segnarono la storia dell’isola e la lotta per l’autodeterminazione.
Si inizierà la mattina del 23 aprile, nell’auditorim provinciale di via Monte Grappa a Sassari. Dopo il saluto delle autorità comunali gli esperti Cristiano Sabino e Federico Francioni incontreranno gli studenti e contestualizzeranno fatti e personaggi dei moti rivoluzionari. Il racconto rivivrà poi nei testi della rappresentazione teatrale Sa Sarda Rivolutzione in carrela a cura della compagnia Teatro S’Arza, per la regia di Romano Foddai: “questa iniziativa – precisa Foddai – non è solo una commemorazione, ma un atto di resistenza culturale. Per questo ci rivolgiamo ai giovani a cui è stata tagliata la memoria. Questa ferita va a detrimento della loro intera formazione, perché senza memoria non c’è futuro.” Proprio sull’attualità della “Sarda Rivolutzione” interverrà Cristiano Sabino, rappresentante del Liceo Figari, scuola capofila della parte didattica del progetto:”Il filosofo Croce sosteneva che ogni storia è storia contemporanea, ciò vale anche a proposito di Sa Die. Nonostante le differenze tra due periodi storici assai diversi, alcuni dei meccanismi che stroncarono la voglia di libertà di quella generazione rivivono nei nostri giorni ed esserne consapevoli può fare la differenza”. Fondamentale la cooperazione tra scuole: “lavorare a stretto contatto con altri istituti scolastici – conclude Sabino – ci consente di costruire una rete di consapevolezza preziosa, si semina oggi perché raccolgano le generazioni future. È a questo che servono scuola e reti culturali”. Mentre lo storico Federico Francioni interverrà su “Il ruolo di Sassari nei moti del 1793-96”. Da non sottovalutare anche il legame tra scuola e tessuto associativo cittadino: “la partecipazione a Sa Die de sa Sardigna è fondamentale per costruire una comunità che sia realmente consapevole delle sue radici – riassume Fabrizio Cossu, presidente di Sa Domo de Totus – per questo motivo abbiamo organizzato, insieme a Plastic Free, la pulizia del giardino dove sorge il monumento. Puntiamo ad una cittadinanza consapevole che si prende cura, insieme al decoro urbano, degli aspetti fondamentali della nostra identità.” Il pomeriggio del 26 aprile le strade del centro cittadino si animeranno grazie all’arte della compagnia Teatro S’Arza. Nel cuore del centro storico, nelle stesse vie che videro muoversi i protagonisti della Sarda Rivolutzione, i cittadini sassaresi potranno rivivere le gesta di Cillocco, Angioy, Mundula e tutti i rivoluzionari sardi, attraverso un’affascinante e brillante spettacolo teatrale itinerante che prenderà vita dalle 18:00. Il percorso attraverserà luoghi emblematici come Piazza Tola, Piazza Azuni, via Luzzati e Piazza Rosario, offrendo ai partecipanti un’esperienza coinvolgente e istruttiva, arricchita dal coro degli Amici del Canto Sardo diretto dal Maestro Salvatore Bulla e dal gruppo di ballo sardo Monte Alma di Nulvi. L’evento, per la regia di Romano Foddai, promette di trasformare il centro cittadino in un palcoscenico vivente, dove arte e tradizione si fondono in una performance emozionante. In scena Paola Dessì, Stefano Petretto, Francesco Petretto, Giovanni Trudu, Nicolino Murru, Fabio Uleri e i ragazzi del laboratorio del Teatro S’Arza. La mattina del 28 aprile, verrà posta una corona di fiori per ricordare gli otto «martiri della Sarda Rivolutzione» trucidati proprio nel luogo dove sorgevano le Forche del Carmine Vecchio. L’omaggio floreale sarà depositato ai piedi del monumento ai patrioti posato lo scorso anno grazie ad una raccolta fondi popolare la cui comunicazione è stata affidata agli studenti del corso di Grafica del Liceo Figari. Dopo i saluti del sindaco Giuseppe Mascia, interverranno gli storici Federico Francioni e Antonello Nasone. Il calendario si chiude con la presentazione del volume “Rivoluzionari sardi in Francia. Personaggi e documenti”, di Adriana Valenti Sabouret, uscito a dicembre del 2024 per Arkadia editore. L’appuntamento è fissato alle ore 17 del 28 aprile nella sala Angioy della Provincia. Attraverso un lavoro di ricerca storica, utilizzando anche fonti inedite, l’autrice ci offre un tributo a diverse figure dell’esilio sardo. In particolare spicca il profilo del giudice della Reale Udienza Giovanni Maria Angioy che si pose a capo di un movimento che reclamava per la sua “isola” uguaglianza sociale e autodeterminazione. Dialogheranno con l’autrice Cristiano Sabino e Federico Francioni.
La segnalazione su Il Tamburino Sardo
Siciliano di nascita e torinese d’adozione, ha trentanove anni e insegna materie letterarie negli istituti superiori all’ombra della Mole. Laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Catania e in Scienze Storiche presso l’Università degli studi di Torino, prova a tenere insieme la passione per le narrazioni con quella per la ricerca storica indipendente. Ha esordito con il romanzo La solitudine dell’orso (2019) e nel frattempo è diventato papà di Federico e non ha mai smesso di frequentare archivi e biblioteche, cinema, librerie, negozi di giocattoli e mercatini delle pulci. Suoi articoli e racconti sono apparsi nel corso degli anni su riviste online e cartacee.
Adriana Valenti Sabouret, scrittrice e saggista, nata a Siracusa, laureata in Lingue e Letterature straniere, da molti anni risiede tra la Francia e Alghero. Ha insegnato presso l’Istituto Statale Italiano Leonardo da Vinci, a Parigi, e presso il Liceo Internazionale di Saint-Germain-en-Laye. Ha lavorato come traduttrice e tuttora collabora con diverse riviste. Come narratrice ha esordito nel suo Paese di adozione con il romanzo Le rêve d’Honoré (Éditions du Panthéon, 2019). Con Arkadia Editore ha iniziato un ciclo dedicato ai personaggi e alle vicende della Sarda Rivoluzione: Madame Dupont (2021), Le nobili sorelle Angioy (2024) e Rivoluzionari sardi in Francia (2024). Fuori dal ciclo ha pubblicato La ragazza dell’Opéra (2023).
La intervistiamo per S’Indipendente anche in vista dei suoi prossimi impegni sardi in occasione della celebrazione del 28 aprile.
Domanda: Come nasce la tua autentica passione per la Sardegna e in particolare per un periodo tanto tormentato quanto poco conosciuto come quello del cosiddetto triennio rivoluzionario?
Risposta: La mia passione per la vostra meravigliosa isola affonda le radici in un recente passato. Era il 2007 allorché, scoprendo la Sardegna in un periplo familiare, mi sono sentita come a casa, oltre che circondata da una bellezza naturale sobria e magnifica al contempo. I sardi non sono molto dissimili dai siciliani: calorosi, ospitali, semplici e accoglienti. Un amico scrittore sardo a cui tradussi un romanzo in francese, mi disvelò il mondo della Sarda rivoluzione nella persona di Giovanni Maria Angioy. Sapendo che abitavo a Parigi, mi raccontò che Angioy vi era morto esule e che molti sardi anelavano a conoscere il luogo della sua sepoltura per rendergli un doveroso omaggio. Affascinata dalla generosa nobiltà del personaggio, cominciai a effettuare ricerche archivistiche su di lui, sulla sua azione in Francia, la sua vita parigina e la sua morte… Era il 2014. Da quell’anno, le ricerche sui rivoluzionari sardi hanno accompagnato il mio quotidiano in maniera prepotente. Più scoprivo e più volevo saperne. Ho esplorato tutti gli archivi di Parigi e provincia, quelli di Lyon, di Marsiglia, oltre che ovviamente le biblioteche e gli archivi di Alghero, Sassari e Cagliari. Ho intessuto legami con alcuni discendenti dei patrioti. Due di essi mi hanno aperto – generosamente – le porte dei loro archivi familiari.
Domanda: Al di là del notevole spessore narrativo, sono evidenti nei tuoi libri, così come nei tuoi articoli, una forte curiosità e una spiccata volontà di verità storica, che ti hanno portata ad esempio a scoprire nel cimitero Pere Lachaise di Parigi la tomba di Don Michele Obino, oppure a ricostruire la figura del patriota algherese Matteo Luigi Simon. Quanto ancora c’è da scoprire sugli esuli della repressione conseguente al periodo rivoluzionario sardo?
Risposta: Ti ringrazio. La curiosità è forte, in effetti, e vibra in me spingendomi ad andare sempre oltre. La scoperta della tomba di don Obino è stata ardua e quindi altamente emozionante. La sua tomba è oggi meta di pellegrinaggi e omaggi da parte di sardi, italiani, francesi, americani. Ed è per me fonte di soddisfazione: quasi a ricompensare le peripezie e le sofferenze che il manipolo di patrioti sardi in Sardegna sostenne e patì negli anni fino a morirne. Personalmente, ritengo che la ricerca non debba fermarsi, innanzitutto, perché gli archivi non cessano di migliorarsi sottraendo all’oblio documenti ancora non classificati o non digitalizzati. Inoltre, sono convinta che certi documenti preziosi possano trovarsi in collezioni private e che quindi siano suscettibili di ritrovarsi in un’asta o su un sito specializzato. Ultimamente, solo per farti un esempio concreto, mi è sfuggito un rarissimo scritto del dottore in medicina Pietro Antonio Leo, amico di Angioy, Simon, Obino…È stato venduto in un’asta toscana, segno che l’interesse per certi personaggi sardi è ancora vivo presso gli studiosi. Anche in Francia e in Italia ci sarà ancora qualcosa da scoprire ma occorre tempo, pazienza e possibilità finanziaria di viaggiare per effettuare le ricerche archivistiche.
Domanda: perché, a tuo avviso, si è verificata una sorta di rimozione della memoria storica di quegli anni tanto che pochissimi libri di storia delle scuole, ne riportano gli avvenimenti e i personaggi, peraltro vittime di feroci torture e condanne o costretti all’esilio?
Risposta: Una domanda che – da docente – mi fa molto male. Mi piace risponderti utilizzando la citazione di uno storico olandese scomparso nel 1966, Pieter Geyl. «La storia è sempre scritta dai vincitori. Quando due culture si scontrano, il perdente viene cancellato e il vincitore scrive i libri di storia, i libri che glorificano la propria causa e denigrano il nemico vinto». È ciò che accadde ad Angioy e alla Sarda rivoluzione, benché ritengo che la loro non fu una totale disfatta. Seminarono infatti delle idee che sarebbero germogliate nel tempo costruendo quindi le basi per la Sardegna moderna. “La loro damnatio memoriae’’, comunque, non mi stupisce affatto, considerato che dopo la loro sconfitta – purtroppo – in Sardegna non cambiò quasi nulla e quando Michele Obino, dopo tanti anni, poté infine ritornare nella sua isola con un progetto benefico che gli fu rifiutato, fu tanto deluso da voler ritornare a vivere e morire a Parigi. Si tratta di un episodio estremamente importante ed esemplificativo della delusione di un grande uomo e patriota, di un erudito sardo da non dimenticare.
Domanda: Cosa dire con un breve messaggio in particolare ai giovani studenti per celebrare la ricorrenza del 28 aprile, “festa della liberazione” dei sardi dall’oppressione feudale dei barones filo piemontesi?
Risposta: Il mio messaggio ai giovani studenti sardi è di amare e proteggere la propria Isola. Studiare e guardare al passato per prendere esempio dai grandi patrioti – oggi purtroppo un po’ dimenticati – che spesero la propria vita studiando, indignandosi per le ingiustizie del feudalesimo, consacrandosi alla difesa dei diritti di tutti. “Libertà, uguaglianza e fratellanza’’ guidò questi grandi personaggi che rinunciarono a tutto – famiglia, patria, beni materiali, lavoro – per tali ideali, con generosità e spirito di abnegazione. Spero tanto che i giovani accolgano tale mia speranza, insieme all’impegno di non dimenticare gli sforzi compiuti dai patrioti, leggendo, informandosi, onorandoli in Sardegna e all’estero per non spegnere la fiaccola che stiamo mantenendo accesa.
Domanda: Quale sarà il tuo prossimo contributo alla ricerca storica? Riguarderà ancora gli anni angioyani?
Risposta: Il mio prossimo contributo alla ricerca storica riguarda un medico illuminato nativo di Arbus, amico di Angioy, Simon, Obino: il dottor Pietro Antonio Leo. Fu un instancabile studioso intollerante ai pregiudizi contro la Sardegna e dei metodi imperanti di una falsa medicina, come ad esempio i salassi. Intuitivo e coraggioso, benché privo di grandi mezzi, viaggiò in Italia e all’estero al fine di specializzarsi alimentando la sua smisurata sete di sapere. Si spense a Parigi – dove si era recato per studio – a soli 39 anni e le sue tracce si perdono nella Chiesa parigina di Saint-Sulpice dove ricevette funerali cristiani.
Ninni Tedesco Calvi
L’intervista su S’indipendente
Un romanzo in cui è facile perdersi alla ricerca di se stessi e del significato delle cose. Una donna, un diario, i ricordi di una famiglia e di una vita. Si tratta de “Il tema di Ethna” (Arkadia), scritto da Anna Bertini e recentemente pubblicato.
1997. Ethna Sarfatti, nata a Dublino e cresciuta a Firenze, dove il padre ha trasferito la famiglia per assumere il ruolo di insegnante alla International School of Florence, intende separarsi dal marito. Per meditare meglio sulla propria esistenza si ritira nel Castello di Sonnino, un hotel particolarmente suggestivo.
2004, casualmente, passando con il treno da quelle parti, Ethna rivede l’antica sede di quel soggiorno e, d’istinto, decide di tornarci. Forse per riallacciare le fila degli avvenimenti del passato e capire meglio qualcosa di se stessa, forse nella speranza di un incontro. La professoressa di musica e violoncellista matura l’idea che tornare a quel luogo sia l’occasione adatta per iniziare a scrivere il racconto di ciò che ha vissuto negli ultimi sette anni. E mentre compone musica per un quartetto jazz americano, inizia a mettere insieme le pagine della sua biografia, raccontando circostanze del passato e di un presente in parte inaspettato: dalla morte del padre alla scoperta di non esserne la figlia biologica, dalla storia d’amore dei propri genitori alla pletora di personaggi che fanno parte da tempo o si sono affacciati man mano nella sua vita. Si compone così il quadro di una vita minima e a suo modo unica, come lo è quella di ciascuno di noi.
La recensione su Toscanalibri