Un romanzo denso e nero, La laguna dei sogni sbagliati di Massimiliano Scudeletti, ma anche una storia dalla spiccata vena lirica. La vicenda di un bambino fiorentino rimasto orfano, affidato a una zia veneziana esperta di scienza occulte, cui poi viene sottratto per la sua età avanzata, per essere affidato a varie famiglie, s’intreccia a scene tratte dal tempo della guerra nei Balcani, delineando un percorso tetro ma coinvolgente, nel quale emergono tratti della parte più sporca e segreta dell’italianità – in specie, certi rituali oscuri che trovano spazio in ambienti connotati da idee intrise di odio e intolleranza, anche se non solo lì. In tale cornice, non nego che vi siano delle immagini che hanno urtato la mia sensibilità cristiana, ma so che l’autore le ha inserite proprio per provocare una reazione nel lettore, con una propensione “pasoliniana” a non distogliere lo sguardo dallo schifo, per evidenziarlo e denunciarlo. C’è però anche l’aspetto del romanzo di formazione, nella vicenda del protagonista, tratteggiata con stile carico di nostalgia per il passato, non disgiunta da una vena perturbante, davanti ai cupi misteri che la stessa normalità sa racchiudere. E, infine, vi è una forte propensione alla contemplazione degli ambienti, volta a scovarne lo spiritus loci, nonché a rimarcare il pericolo insito proprio in certa “grande bellezza” italiana. Anzi, pur senza dimenticare scenari di orrore industriale come quelli di Porto Marghera, possiamo dire che questo romanzo sprofonda precisamente nei “non detti” dell’Italia da cartolina, che non è che non esista – tanto che viene descritta e resa presente –, ma è anche una facciata dietro la quale si celano tanti segreti inespressi, che spesso fondono in un tutto unitario le vicende private delle famiglie con il quadro più ampio degli eventi sociopolitici. In alto, o forse in plaghe tanto profonde da risultare quasi irraggiungibili, restano comunque la luce dell’amicizia e quella dell’amore, che sono ancora possibili, al di là delle barriere di ceto e di lingua o cultura: soprattutto quando nascono in giovane età, prima che le ferite della vita e le maschere del mondo riescano a insediarsi, inquinando l’anima.
Giovanni Agnoloni
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Le figlie dell’uomo è un romanzo distopico corale di alta qualità, che ben si aggancia alle vicende degli ultimi anni, pur essendo stato scritto da Mauro Caneschi prima della pandemia. Qui siamo di fronte a un problema ben più terribile di quello da cui siamo appena usciti, che porta alla morte di miliardi di persone, e in seguito, quando viene individuato un vaccino efficace, alla sterilità della quasi totalità del genere maschile. Scritto da una molteplicità di angoli visuali e con mano avventurosa e capace di penetrare nell’angoscia delle situazioni evocate, aprendosi su scenari tanto italiani quanto internazionali, questo libro sfida numerosi preconcetti sulla scienza e le dinamiche del mondo, ribaltando l’ordine delle priorità economiche e politiche tra il Nord e il Sud del pianeta e ponendo interrogativi sui limiti cui può spingersi la sperimentazione sulla salute delle persone, anche quando motivata da un’innegabile emergenza. Ecco perché lo considero di grande attualità, oltre che un esempio di narrativa di genere che, in realtà, travalica i generi, fondendoli in una visione del mondo intensa, tragica e mai scevra dal fondamentale anelito all’amore e alla miglior realizzazione del potenziale umano. Dopo La chimera di Vasari e subito prima del suo sequel, appena uscito, Il codice Stradivari, un altro romanzo riuscito dell’autore aretino.
Giovanni Agnoloni
Il link alla recensione su Lankenauta: http://bitly.ws/HGyy
Arkadia Editore propone una antologia di nove racconti, tre per ogni autore divisi su tre grandi temi: Memoria, Sogno e Spazi cosmici.
Una combinazione non proprio immediata per essere compresa, dove il legame tra gli stessi racconti sembra più lo stile degli stessi scrittori che i temi che guidano la lettura dell’antologia Da luoghi lontani. In realtà potremmo interpretare lo stile come una quarta dimensione, un modo per trovare altri luoghi emotivi, personali che possono sfuggire quando troppo spesso cerchiamo di leggere o interpretare la realtà usando brevi momento dei nostri cinque sensi.
Lo stile di Da luoghi lontani
I tre autori, Giovanni Agnoloni, Carlo Cuppini e Sandra Salvato, hanno in comune diversi elementi stilistici, tra tutti la ricca proprietà di linguaggio e una particolare attenzione agli effetti fisici delle parole scelte. Per questo motivo quando parlano di Memoria, abbiamo spesso l’effetto degli odori e dei sapori che sono associati ormai da anni alle capacità mnemoniche. Mentre il Sogno è caratterizzato da ritmi spezzati, cambi di localizzazione e salti narrativi, tipici di un sogno. Chiunque sogna si trova immediatamente in un posto, così come può cambiare luogo e spazio senza accorgercene. Anche gli Spazi cosmici ci propongono un cambio di prospettiva, di spazio, a cui spesso non siamo abituati.
Antologia o guida?
Da luoghi lontani appare più come una guida o uno strumento per identificare una quarta dimensione personale del lettore, ancora prima dello scrittore. Uno spazio definibile solo se attraversato da nove punti o coordinate che il lettore deve attraversare o raggiungere. Esploderà così una mappa, si “esploderà” davanti ai suoi sentimenti, alla sua anima, ma anche ai suoi occhi un luogo inesplorato e lontano. Forse, se qualche inciampatura appare, è quella di una assenza di un curatore che introduca e spieghi il testo aiutando il lettore meno maturo alla comprensione del libro. Spesso è un rischio lasciare il lettore da solo, con una mappa in mano e doverla orientare; ma gli autori sono abili navigatori della parola.
Sandra Salvato
Due parole vanno dette su Sandra Salvato, allieva di scrittori come Stefano Tassinari, ne raccoglie la penna, percorrendo una strada di parole, struttura del testo e percorsi emotivi che rischiano di perdersi se la giornalista e scrittrice fiorentina non ne avesse raccolto l’eredità. Sandra conosce il significato di ogni parola e come mattoncini pensati con grande attenzione, li ordina tra le righe dell’antologia. Per chi la conosce, il parlato e lo scritto sintetizzano la sua anima di scrittrice, giornalista e poetessa. Dopo questa prova, si attende il romanzo, la prova finale di un vero scrittore e Sandra Salvato lo è da molto tempo.
Andrea Grilli
Il link alla recensione su DIBBUK.IT: https://bit.ly/3J69bub
Giunto al suo secondo romanzo edito da Arkadia – ma non il secondo in assoluto –, lo scrittore veneziano (anzi, per la precisione di Mestre) Emanuele Pettener, docente di Lingua e Letteratura Italiana alla Florida Atlantic University, con Giovani ci siamo amati senza saperlo ci offre uno splendido affresco di un luogo e di un’epoca della storia e della vita. Parliamo di Venezia nei primi anni ’90 del secolo scorso, ma anche e soprattutto della gioventù del protagonista, Ema, diminutivo dietro il quale è lecito immaginare una trasposizione letteraria dello stesso autore, e di altri tre ragazzi in età di studi universitari, Sabrina, Rodrigo (uno svizzero italiano) e Barbara, le cui vite s’intrecciano sullo sfondo della laguna e della sua quotidianità. Il tono autoironico e scanzonato che caratterizza l’approccio alla vita dell’io narrante, capace di reagire alle varie situazioni senza farsi sopraffare da dispiaceri e delusioni, è il filo conduttore di quella che potremmo definire un’“educazione sentimentale”, purché facciamo rientrare nell’aggettivo non solo l’amore, ma anche l’amicizia e più in generale la passione. Il legame che si crea fra tre di questi giovani protagonisti, ovvero Ema, Feli (il diminutivo con cui Sabrina viene normalmente chiamata) e Rodrigo è infatti una sintesi pregnante di quel complesso coacervo di stati d’animo che solitamente accompagna le emozioni di quella fresca stagione della vita. Una sfaccettata sommatoria di affetto, lealtà, attrazione (tra Ema e Feli, ma anche tra Rodrigo e la stessa), desiderio di fisicità contrastato da dubbi e riluttanze (nel caso della storia che nasce tra Ema e la giornalista alle prime armi Barbara) e, in assoluto, anelito di fusione totale con le esperienze, di adesione piena al tessuto palpitante della vita. Questo slancio forma un tutt’uno non solo con le situazioni, vivide e credibilissime, in cui i ragazzi si vengono a trovare, ma con la città-scenario, colta sia nel momento storico della giovinezza dei protagonisti, quegli anni ’90 che tanto sembravano promettere ma che relativamente poco, in proporzione alle attese, hanno lasciato, sia nella sua natura perenne di capolavoro artistico fuori dal tempo. La sensazione di essere lì, segno inconfondibile del realismo narrativo ben riuscito, si unisce in queste pagine alla capacità di evocare la prossimità a un sogno perfetto di bellezza e vitalità che sembra amalgamare in sé, quasi impastati in una malta fluida, l’ideale estetico della Serenissima con quello di eros e pathos delle giovani vite che vi si dibattono in cerca di amore e di senso. In definitiva, Giovani ci siamo amati senza saperlo, come il titolo stesso pare suggerire, è un romanzo sull’inconsapevolezza di quegli anni, e non perché Rodrigo ed Ema non sappiano di amare Feli, o lei stessa non si accorga dei loro sentimenti, ma perché non si rendono conto di non stare realmente cogliendo quella grande opportunità, per dare ascolto ai pur comprensibili scrupoli legati all’amicizia, e poi a un richiamo erotico che rischia di asfaltare tutto, radendo al suolo il potenziale di realizzazione che sarebbe potuto fiorire se solo si fossero parlati con franchezza. In questo senso, siamo davanti a un romanzo del silenzio, o meglio dell’ineffabilità e fuggevolezza delle emozioni più intense. Tanta è la forza con cui ci travolgono, che si corre il rischio di temerne la luce, per cui le si sminuisce per non farsene “annientare”. Ma così si perde la più grande occasione. Comunque non c’è traccia di nostalgia o di rammarico nello stile di Pettener, sempre ricco di ironia e di leggerezza, che tuttavia non significa superficialità. Anzi, a mio avviso è un modo per dire che non ha senso rimpiangere, ma solo ricordare il bello che c’è stato e farne tesoro per andare avanti da qui in poi.
Giovanni Agnoloni
Il link alla recensione su Lankenauta: https://bit.ly/3W76Jsb
Tre autori e tre linee tematiche: Memoria, Sogno e Spazi Cosmici. Ciascun autore firma un racconto per linea. Nove racconti totali per questa raccolta che, nella collana Senza Rotta di Arkadia dove è accolta, trova una collocazione naturale per il suo toccare molte sponde immaginali. Le scritture dei tre autori evidenziano confluenze tematiche e stilistiche, ma Agnoloni, Cuppini e Salvato riescono a mantenere forte l’identità, così che possiamo, da una sezione all’altra, immediatamente riconoscerne la penna. La forma espressiva per tutti e tre è alta e letteraria, talvolta persino – immagino volutamente – lirica, come si adatta a storie che vogliono soprattutto essere evocative, e che fanno del salto di dimensione e dell’intreccio di piani una scelta. Così il tempo della memoria, quello del vissuto e quello “ad-veniente” si mescolano e interagiscono, portandosi dietro gli spazi che contengono le vite, insieme alla ricerca, il cammino, il desiderio e anche il rimpianto. L’ultimo smette di essere elemento tipico di ciò che è trascorso per insinuarsi nell’ora e travalicare in ciò che sarà. I luoghi della memoria (quelli dei primi tre racconti, che di infanzia e giovinezza sono pieni) come quelli del sogno e quelli cosmici sono densi di rivelazione, sono percorsi interiori e interiorizzati, esplorazioni del sé che permettono magicamente di ritrovarsi, e di ritrovare chi ha significato qualcosa nella vita. Queste storie amano scendere in profondità, non rimangono nei perimetri delle superfici, osano portarsi in aree poco esplorate o ritenute a torto insondabili. Avvicinare i luoghi più meno concreti, reali, a quelli dell’anima, mi pare il fil rouge della lettura, che si rivelerà credo particolarmente gradita a chi ami territori originali e insoliti costruiti con le parole.
Anna Bertini
Il link alla recensione su Ex libris 20: https://bit.ly/3EVFSbF
In genere sono minimalisti, i racconti che accendono maggiormente la nostra attenzione. Epperò sappiamo che la bellezza porta eccezioni. Questi nove racconti tenuti sotto il titolo “Da luoghi lontani”, comunque, sono certo che abbiano subito incantato il narratore Magliani, amico caro e scrittore pregiato che insieme Paolo Ciampi e Luigi Preziosi dirige la collana “Senza Rotta”, dell’intraprendente editore sardo di questa comunque anomala raccolta di scritti brevi in prosa; diversa perché, intanto, i testi escono da tre diverse mani: Giovanni Agnoloni, Carlo Cuppini, Sandra Salvato. Poi – non di meno – sono messi in una struttura apparentemente di immediata comprensione, eppure frutto di una di sicuro non semplice attenzione al movimento dell’ingranaggio. Qui si è in moto, appunto. Seppure le tre sezioni del volume fingono di presentare uno svolgimento più che altro mentale, di svolgimento più che altro nel luogo del cervello. “Memoria”, “Sogno”, “Spazi cosmici”. Che fanno immaginare prima di tutto un pensiero, un pensare, un pensamento. Epperò noi sappiamo bene, per esempio, che invece lo scrittore e traduttore Agnoloni, autore, di un terzo del libro appunto e terza primaria parte del raccontare luoghi simbolicamente lontani come di certo agganciati con lo spostamento, è un viaggiatore. Non a caso, per dire, uno dei suoi libri, “Berretti Erasmus”, è sottotitolato anti-didalistico “Peregrinazioni di un ex studente del Nord Europa”. Cuppini ha volteggiato nel mondo difficile del teatro e sconvolgente della danza. Suo è il racconto che apre il libro, “Il palazzo rinascimentale”. Quindi il piano e fermo incipit: “Il tempo respira, il passato può cambiare”. Che apre uno slittamento di tempi, allora di punti di vista. In una vicenda di paesaggio appoggiato al verbo del ‘fu’, quanto meno nella rivisitazione della storia biografica da parte del narratore dell’evento di osservazione del moto dei ricordi, dei ricordi in moto perpetuo. Salvato, giornalista, in esergo alla sua entrata in scena pone una commovente, almeno per noi, citazione del compianto scrittore Tassinari. Un boccone d’aria da “Agli angeli ribelli”, il testo che Stefano Tassinari dedicò allo studente e militante di “Lotta continua”, portato sul palco solo l’anno prima della scomparsa dello scrittore ferrarese. Il primo dei racconti di Sandra Salvato è un sempre più necessario omaggio letterario alla lotta partigiana. I tre autori in fondo sono simili fra loro, nella loro estrema diversità di veduta. Si somigliano per scelta di tono. Infatti il libro fuziona al massimo. Il meccasismo è fermo, si muove bene, ben saldo sta. “E a partire dalla Memoria, transitando per il Sogno, i tre autori ci conducono negli Spazi Cosmici, in un futuro fatto di consapevolezze volutamente ignorate e faticosamente accettate (Agnoloni) e, con una vera e propria sarabanda verbale, ci imbarcano su una capsula spaziale (Cuppini) o ci trascinano in un viaggio nello zodiaco Salvato)”, ha ben sintetizzato lo scrittore Paolo Codazzi. “(…) Di racconto in racconto, si dipana una geografia che va da Urbino alla Dalmazia, dalle Dolomiti alla Sardegna, da Firenze a Venezia, dagli Stati Uniti all’Australia, fino agli spazi interstellari; un itinerario che corrisponde al vagare dentro se stessi, sprofondando come accade ai protagonisti di queste storie” capaci di dirci che esiste una conciliazione fra il dovere di liberarsi, compiendolo, dal desiderio di curiosità e meraviglia con una trasfigurazione delle tante e diffuse memorie.
Nunzio Festa
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Ancora una volta la collana di narrativa, Senza rotta, curata da Marino Magliani, Luigi Preziosi e Paolo Ciampi, è riuscita a sorprenderci con questo libro di grande spessore e originalità, Da luoghi lontani (Arkadia, 15€), partorito dalla mente feconda di tre scrittori, Giovanni Agnoloni, Carlo Cuppini e Sandra Salvato, profondamente diversi gli uni dagli altri ma uniti e fortemente connessi in un progetto, o concept book, che ha come comune denominatore la lontananza, come, del resto, suggerisce lo stesso titolo. È una silloge di racconti divisa in tre sezioni tematiche (Memoria, Sogno e Spazi cosmici), che comprendono tre racconti ciascuna, quanti sono gli autori del libro, per un totale di nove racconti. Trattandosi di scrittori fiorentini per nascita o adozione, la scelta del numero tre e del suo più significativo composto nove (tre per tre) potrebbe non essere casuale ed avere valenze simboliche. Prima però di addentrarci nell’analisi del libro mi sembra doveroso rimarcare la scelta del racconto, un genere letterario fino ad ora trascurato o addirittura ignorato dall’editoria italiana, e questo va a merito non solo degli autori ma anche della casa editrice che aveva già pubblicato un’altra raccolta di racconti, Lo storiografo dei disguidi, di Paolo Codazzi e prima ancora, nella collana Xaimaca, Letti da un soldo, di Enrique Gonzáles Tuňón, restituendo al racconto la dignità che merita. Al centro della raccolta c’è il tema del viaggio e non poteva essere diversamente, visti i presupposti e le indicazioni fin troppo esplicite del titolo che allude alla lontananza e, di conseguenza, alla mancanza o assenza nonché al desiderio insopprimibile, consapevole o meno, di colmare questo vuoto e questa distanza. Un viaggio nello spazio, nel tempo, nella memoria, alla ricerca di un altrove, nel desiderio di dare consistenza a un’identità sempre più labile ed evanescente. Le coordinate geografiche sono facilmente ravvisabili (Ubino, Firenze, Venezia, la Dalmazia, le enormi distese degli Stati uniti e dell’Australia o, all’opposto, un villaggio fantasma della Sardegna e infine gli spazi interstellari) ma alterate e deformate dalla nebbia dei ricordi, dalle incursioni in una dimensione onirica o dal ripiegamento su sé stessi in una lenta operazione di cabotaggio lungo i lidi rupestri dell’inconscio. Nel primo racconto della seconda sezione, Fichi Cani, di Sandra Salvato, si legge testualmente: La stessa strada a volte può essere un viaggio al di fuori delle solite rotte, portare verso cose, persone o a cose appartenute a persone. Le fotografie sono quel genere di oggetti, casseforti di memorie solo abbozzate. […] La nostra ricerca risponde a una precisa responsabilità: non lasciare niente d’intentato quando si tratta di salvare il passato dall’imbuto dei dimenticatoi. Si rileva in questo brano, oltre alla curiosità spesso maniacale del giornalista, il tema di fondo della silloge, il viaggio lungo rotte inconsuete e misteriose ed infatti il protagonista del racconto per dare un nome a dei volti immortalati in una polverosa foto, in cui si è imbattuto per caso, intraprende una indagine scrupolosa e un viaggio in Sardegna alla ricerca di un luogo dal nome bizzarro, Fichi Cani. Qui incontra un uomo “piegato dall’età, curvo come un ago da pesca” con cui intavola un dialogo assurdo e incomprensibile perché il suo interlocutore parla solo in sardo prima di scomparire dietro un raggio accecante. Mi è venuto in mente leggendo questo racconto uno dei più bei romanzi della letteratura ispano-americana, Pedro Paramo di Juan Rulfo; anche qui una località fantasma e un personaggio spettrale, quasi un ectoplasma. Questa seconda sezione sembra fare da cerniera tra la prima sezione dove la memoria campeggia sovrana recuperando figure, momenti ed emozioni del passato e la terza in cui acquista sempre maggiore rilevanza l’artificio dello straniamento per cui i personaggi dei racconti sono scagliati in precipizi interiori prima di essere catapultati verso spazi metafisici. Estate. Le mattine e i pomeriggi infiniti, schiacciati nella pressa di un tempo circolare, appaiono immemori, soleggiati, tutti uguali. La sera invece è un tremolio di avvenimenti segreti, umbratili, liminali. Era sempre una sera tiepida e asciutta, collinare, pervasa dal respiro di creature sacre, metamorfiche, adagiate sulla linea ondulata del paesaggio, sottratte al rischio di essere nominate o pensate. Così Carlo Cuppini ricorda le serate estive della sua infanzia: una girandola di sensazioni, di immagini e di emozioni. Il suo racconto recupera i momenti salienti dell’età infantile attraverso le attenzioni affettuose e rituali dei genitori (il padre gli taglia i capelli periodicamente e la madre ogni sera gli racconta delle storie per farlo addormentare), le prime amicizie alle classi elementari fino all’inizio della pubertà e dell’età adolescenziale, il tutto nell’atmosfera magica e incantata di Urbino con il suo palazzo rinascimentale, come recita il titolo del racconto. Infine, Il sole residuo di Giovanni Agnoloni che apre la terza sezione tematica, Spazi Cosmici, eloquenti a tal proposito le parole che seguono: Come risalire la corrente del tempo. Come tornare bambini. Ritrovare cose perdute, recuperare sensazioni accantonate. Diventare una persona completamente diversa. Viaggiare verso quella che appare come una nuova dimensione. Un vortice atemporale, avvitato su sé stesso, proteso verso un luogo altro… Un racconto quest’ultimo inquietante, dai toni kafkiani a dispetto della scrittura lineare, chiara ed efficace che è una prerogativa di Agnoloni. Il protagonista Lukas, dopo aver ricevuto una e-mail e dopo una animata discussione con la sua donna si ritrova solo e spaurito con i suoi fantasmi, e i suoi sensi di colpa, con situazioni ed emozioni che lo riportano indietro nel passato a contatto con verità che aveva rimosso, o semplicemente nascosto a sé stesso. Splendida la chiusa che rimanda direttamente al titolo: “Aveva lo sguardo triste e sconfitto. Come quell’ultimo riflesso di sole che scompariva lentamente nell’oceano della memoria”. Ho accennato a un racconto per ciascuna sezione e per ciascun autore, ma confesso che mi sono trovato in difficoltà nello scegliere i racconti essendo tutti meritevoli, belli e intriganti al tempo stesso, mi sembrava giusto, però, anticipare qualcosa di questa silloge che mi ha tenuto inchiodato sulla poltrona e mi ha profondamente turbato, ma mi ha gratificato anche per l’utilizzo di una scrittura, prevalentemente descrittiva, diversa per ragioni di stile e di sensibilità, ma sempre di alto profilo e di grande spessore. Una scrittura ora icastica, ora affilata e chirurgica ora lirica e poetica. Per concludere un libro da non perdere assolutamente, capace oltretutto, in un’estate calda e afosa come la nostra, di farci provare dei brividi!
Francesco Improta
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I ricordi stavano traslocando in te un poco alla volta. Ogni giorno ti facevi più desiderosa di tuffarti nel passato, di rendere vivo l’invisibile, sentirlo addosso come la paura e la meraviglia di discendere da una generazione di persone determinate, idealiste. A sedici anni mostravi di avere più interesse per la tua storia di tanti tuoi amici. Dici di essere venuta al mondo per riparare a un torto della vita, per darmi il calore di una figlia e le premure di una madre che non ho mai conosciuto. Così ci prendiamo cura l’una dell’altra. Una delle possibilità da sempre offerte da un libro è quella di farci raggiungere, attraverso il pensiero e l’immaginazione, luoghi lontani. Questa dev’essere sicuramente tra le prime sensazioni avvertite contestualmente alla scoperta della lettura intesa come piacere e conoscenza, infatti un’equazione di questo tipo potrà apparire come il risultato di un pensiero abbastanza fanciullesco, e però bisognerà ammettere che la suggestione è forte e resiste poi insieme a consapevolezze nuove e più mature e, qualche volta, meno “poetiche”. Torniamo ancora alla metafora del libro/viaggio, ma più in generale intendiamo riferirci a quella sensazione di percepirci in un luogo “altro”, man mano che precipitiamo lo sguardo sulle righe e strofiniamo delicatamente le dita sulla carta (e qui si perdoni l’ossessione da irriducibile del cartaceo, ma se il teletrasporto è un’esperienza fisica devo avere una “base” da cui partire!). E così, grazie alle parole che qualcun altro ha ricercato e messo insieme per costruire – o ricostruire – con cura un luogo diverso da quello che abitiamo, come per incantamento, ecco che giunge anche per noi l’altrove. Mi è capitato talvolta di provare un certo smarrimento, quasi una vertigine, accompagnata in qualche caso da un senso di nausea, per il sentirmi d’un tratto in un punto troppo distante o troppo alto, non conosciuto e forse non conoscibile, in un “altrove” appunto non localizzabile (e non c’entra nulla la mania della tracciabilità a tutti i costi dei nostri giorni!). Mi ritrovavo in queste riflessioni nel momento in cui leggevo un libro che mi ha fatto perdere infinite volte, fino a farmi perdere il desiderio di riavermi in un luogo noto. Che poi, se ci pensiamo, che senso avrebbe ambire a ritrovarsi se la magia consiste proprio nel dimenticarsi? Eppure questa tensione allo smarrimento era intessuta di memoria! Ecco, lo sapevo: mi sto perdendo ancora! Cammina e pensa alle vite passate. Istanti di cui ha ricordi stampati nella memoria, ma che lui, il lui presente e vivo, con questo carico sulle spalle, non ha vissuto. Momenti che qualche altro lui ha vissuto per suo conto, altri lui che non esistono più, tutti svaniti. Una compagna, un bambino, una casa, un lavoro. Niente gli appartiene. Il presente è una sala d’aspetto stretta e sghemba, in penombra, pervasa da un odore acre di tappezzeria e di fumo, con un’unica porta chiusa e nessuno ad attendere dall’altra parte. Parliamo di una particolarissima silloge di racconti pubblicata lo scorso aprile dalla casa editrice Arkadia, nella collana – nemmeno a dirlo! – “Senza rotta”, e intrecciata sapientemente dalle mani e dalla forte immaginazione di Giovanni Agnoloni, Carlo Cuppini e Sandra Salvato. Tre scrittori provenienti da esperienze varie e diverse tra loro, che sono riusciti a incrociarsi e a trovarsi in una dimensione che, per quanto caratterizzata da un’atmosfera rarefatta, mostra una mirabile coesione dovuta a una magica unità di intenti. Gli autori, fiorentini di nascita o di adozione, ci offrono un vero e proprio concept book, i cui racconti, pur nella diversità contenutistica, concettuale e stilistica, mostrano di inanellarsi con una straordinaria e sorprendente semplicità, come se fossero stati destinati a quell’incontro esattamente come gli autori raccontano di essersi trovati in una comunanza di idee spontanea e inattesa. Senza logiche restrittive, ma in maniera molto naturale e, si potrebbe dire, quasi “poetica”, questi racconti si sistemano tra loro con accorgimenti studiati ma mai forzati e, percorrendo sentieri misteriosi, ci conducono lungo rotte impenetrabili eppure esperibili, forse non replicabili. Sono racconti e tracciati che possiamo immaginare di inseguire più volte con la sensazione di trovarci ogni volta in luoghi diversi, appunto, lontani. La lontananza può essere intesa come minimo comune denominatore di questi piccoli inconclusi viaggi – perché certe peregrinazioni possono incontrare un compimento narrativo ma non necessariamente una meta “definitiva” per le suggestioni che stimolano – e traccia mappe che non sono soltanto fisiche, ma che si disegnano attraverso geografie della memoria, o che fluiscono più liberamente nelle regioni dell’inconscio, con incursioni nella dimensione onirica. È davvero sorprendente come da tre immaginari diversi siano nati racconti che, fedeli alla penna che li ha generati, riescono a costruire – e a disgregare all’istante – una dimensione coerente nella sua indefinitezza ed evanescenza. Al centro della silloge, il tema del viaggio, inteso come viaggio fisico, ma anche spirituale: la geografia spazia da piccole città a luoghi sterminati, e così si passa da un villaggio sperduto della Sardegna, ai palazzi di Urbino, a Firenze, a Venezia, agli scenari della Dalmazia, alla vastità di Stati Uniti e Australia, per poi raggiungere gli spazi interstellari… ma questi infiniti movimenti sono resi possibili soltanto attraverso passaggi continui negli anfratti della memoria e tra le pieghe della coscienza, e in seguito a vorticosi lanci nel territorio del sogno, che talvolta congiunge memoria e spazi cosmici. Tre racconti per tre sezioni, dunque: “Memoria”, “Sogno”, “Spazi cosmici”, offrono agli autori l’occasione di ricordare momenti della propria infanzia – vissuti in prima persona o da familiari – che si dipanano su luoghi lontani eppure ancora vividi, e poi l’occasione di provarsi in racconti avventurosi e paradossali, che in qualche modo fanno da raccordo tra la prima e la terza sezione, dove l’artificio dello straniamento occupa uno spazio sempre più importante, e infatti i personaggi dei racconti sono scagliati in precipizi interiori che, se da un lato li proiettano nel passato, giungono poi a disperderli nei più profondi misteri della vita, strappandoli ai luoghi reali e catapultandoli in spazi metafisici. E quindi il sentimento della lontananza, intesa come viaggio, ma soprattutto intesa come “mancanza” – la mancanza di qualcuno o di qualcosa – porta all’incontro di tre voci distinte, e ben caratterizzate soprattutto sul piano stilistico e concettuale, dando vita a un’opera che può dirsi “corale” per la consonanza espressa sui temi trattati e sul tono medio della narrazione, e per una vicinanza che si esplicita nella ricorrenza continua a parole-chiave. Una forte consonanza di intenti libera qui una raccolta coesa, che testimonia una collaborazione fluida e quasi spontanea. Giovanni Agnoloni, Carlo Cuppini e Sandra Salvato, esplorando lontananze fisiche e immaginarie, manifestando tensioni intellettuali intense e mai appagate, percorrendo in piena libertà spazi tracciabili e indefiniti, giungono a incontrarsi in un punto impercettibile eppure possibile, e lì accolgono per qualche istante il lettore, prima di lanciarlo in un’atmosfera che, nata dal sogno e dal ricordo, genera infiniti altri sogni e ricordi, tanti quanti sono i ricordi e i sogni che il lettore è capace di vivere.
Lia Amen
Il link alla recensione su Una banda di cefali: https://bit.ly/3NNhAD9
Che si sia trattato di un esperimento (non comunque inedito) o di una semplice esperienza, quello di Giovanni Agnolini, Carlo Cuppini e Sandra Salvato, mi sembra un progetto tutto sommato ben realizzato. Da luoghi lontani, il loro ultimo libro, è una raccolta di nove racconti, tre per autore, che si alternano in tre sezioni, Memoria, Sogno, Spazi cosmici, nel tentativo di farne, se non una specie di “romanzo”, un che di unitario dove il filo logico e narrativo giochi comunque un ruolo essenziale. Bene hanno fatto gli autori, visti i risultati, e bene ha visto la casa editrice Arkadia a credere nel loro progetto, anche se forse non si capisce bene la rinuncia a pubblicare anche una versione e.book, a quel che mi risulta, ma ognuno ha la propria strategia editoriale. In effetti, come preannunciato nella bandella del libro, il collagene che salda i nove racconti c’è: quello della “dimensione” della memoria, del sogno e della profondità cosmica, lette in modo particolare e soggettivo dai tre autori in un articolarsi di luoghi, tempi e situazioni che vagano per trovare un punto d’incontro nella “metafora dell’ignoto e dell’oltre”, inteso come “altrove”, anche se questo termine andrebbe mediato in maniera più puntuale, vista l’importanza che ha assunto nella cultura contemporanea. Sarebbe giusto trattare autore per autore e poi l’opera come corpo unico, ma l’impresa richiederebbe tempo, spazio e metodo che qui mancano, per cui mi sembra opportuno concentrare l’attenzione su uno di loro, non tanto come campione, e neppure come summa della letteratura degli altri due, ma come una facilitazione alla mia visione e alla lettura di chi vorrà. La scelta è caduta su Carlo Cuppini, e non per motivi, diciamo, campanilistici, quanto perché ho avuto la fortuna di potere seguire il suo lavoro di scrittore fin dagli esordi, da quel racconto, Il mago, che gli valse la finale del “Campiello giovani” già nel 1998. Il palazzo rinascimentale, Il carico e La porta del cielo, i titoli dei tre racconti di Carlo che compaiono nel volume, racconti l’uno indipendente dall’altro e al tempo stesso interconnessi. Intanto va notata una cosa di non secondaria importanza: la struttura e lo stile dei tre pezzi si discosta da quello che si potrebbe definire lo stereotipo novecentesco, avviandosi, senza cadere in uno sperimentalismo fine a se stesso, verso un’apertura a nuovi terreni da esplorare, vuoi nella frammentazione del linguaggio, o nel cambio dei tempi verbali, fino ai balzi di senso che obbligano il lettore a una più attenta concentrazione e a una riflessione che può condurre su strade almeno in parte inesplorate. Anche i tre lavori di Cuppini si sviluppano seguendo il filo della memoria. La memoria o qualcosa che le si avvicina molto. “Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di ogni sorta di cose, introdotte dalle percezioni; dove sono pure depositati tutti i prodotti del nostro pensiero, ottenuti amplificando o riducendo o comunque alterando le percezioni dei sensi, e tutto ciò che vi fu messo al riparo e in disparte e che l’oblio non ha ancora inghiottito e sepolto”, scriveva Agostino (Confessioni, 8.12) , legando la memoria alla conoscenza, ma pure come il riaffiorare di ciò che già si sapeva, in quanto l’uomo è già in possesso degli strumenti adatti al riconoscere, strumenti che si attivano quando la volontà lo richiede, lo ritiene necessario. Insomma l’uomo sarebbe il prodotto del proprio passato e della propria memoria. E ciò varrebbe anche per il futuro, per potere guardare in avanti bisogna prima rivolgersi in dietro, capire se stessi. In Cuppini però il discorso sembra un poco differente. I racconti, soprattutto il primo, danno l’impressione di dipanarsi più sotto il segno del ricordo piuttosto di quello della memoria. La memoria la si può considerare di natura ricostruttiva, è in grado di recuperare i dati dal passato, mentre il ricordo “implica cucire assieme piccoli frammenti di informazione, in una narrazione che abbia senso” (Costandi 2014), e anche per Wittgenstein nelle Osservazioni filosofiche, il ricordo è un modo di vedere nel passato. Mi sembra sia quanto accada ne Il palazzo rinascimentale, dove il susseguirsi dei ricordi infantili legati a un luogo mitico, più la città che il Palazzo in sé, e a alcuni personaggi che sono de-personalizzati (la madre e non mia madre, il padre e non mio padre, la sorella e non mia sorella) creano una specie di film, fotogrammi, frammenti, che compongono un momento interiore del personaggio e dell’autore (il racconto è chiaramente autobiografico), che partendo da un evento o da una serie di eventi di fatto creano un testo che non ha una vera e propria fine. Ogni ricordo del racconto è legato, anche se può non apparire immediatamente, per una specie di continuità a tutto ciò che avviene, che lo precede o lo segue, insomma, a ricostruire la vita stessa del personaggio. In definitiva in questo racconto più che memoria, come dato immediato, sembra dominare il ricordo come un procedimento mediato dalla riflessione, nel senso in cui intendeva il concetto il Kierkegaard di In vino veritas. Infatti, la memoria è un dato immediato, mentre il ricordo è un’operazione mediata dalla riflessione, cioè un atto di coscienza attraverso il quale si ricostruisce una parte determinata del passato. Un passato che si presentifica e si costituisce come atto individuale (caratteri individuabili anche ne Niente da dichiarare della Salvato e in Alleghe di Agnoloni, seppur in maniera piuttosto differente). Ancora un aspetto, tra i tanti che emergono da questi tre racconti di Cuppini, che mi ha colpito, è quello dell’identità. Qui si torna, in qualche modo, alla memoria, poiché questa garantendo la continuità, si lega all’identità (Assmann, 1997); non sarebbe possibile infatti conoscere ciò che si è e verso cosa si sta andando se la propria provenienza è sconosciuta. L’identità nel nostro mondo costituisce un vero e proprio problema, iniziato dal ‘900 come crisi e fondamento di tutto un discorso, ormai quasi completamente superato, che ha costituito una delle basi del postmoderno. Si può parlare di alterazione antropologica alla luce di tutti i cambiamenti, per altro piuttosto rapidi, che hanno coinvolto la società contemporanea con una inevitabile ricaduta sull’identità collettiva e, soprattutto per quel che qui interessa, personale. Ci si trova di fronte a delle “identità modulari”, cioè che sono soggette a mutamenti continui e, almeno apparentemente, senza limitazione. L’identità si è trasformata cioè in una “rappresentazione teatrale del sé” (Kellner 1992). È come se il passato, anche personale, fosse scacciato via a favore del presente, del qui ora, là dove prima era proprio il passato la struttura portante dell’identità e ne viene che, senza il passato, non si ha più un’identità stabile. L’identità vede nella memoria sia la propria origine che la propria espressione, essa permette di riconoscere l’uguale che si sviluppa nel tempo selezionando determinati ricordi piuttosto che altri. È il flusso dei ricordi che sta alla base dell’identità, la quale si posa sull’esperienza vissuta e poi ricordata. Si rende così necessario un dialogo con la memoria, un dialogo interiore che, però, nel nostro mondo sollecitato da mille differenti fonti e da una frenesia del presente, non si attua come cosa facile, e spesso necessita di un medium che, più o meno inconsciamente, veicola l’individuo verso il recupero della memoria e dell’identità. Nasce un’idea di relazione che permette di considerare l’identità come unità decentrata in cui la memoria gioca il ruolo da protagonista. Ne Il carico tutto sembra girare attorno al “sacco”, l’oggetto dal contenuto misterioso e che tale rimane e alla eventuale illegalità della sua commissione e destinazione, mai dimostrate. Ma ciò che emerge è che il protagonista, gravato dal peso del pacco e vagante per una Venezia nella quale sono assenti i registri soliti di romanticismo o decadenza e, tanto meno, turistici, sembra un uomo alla ricerca di una propria identità, forse perduta a causa degli avvenimenti personali, soprattutto famigliari che lo hanno segnato, ma che non riescono a emergere dalla sabbia della mente come ricordi e tanto meno come memoria. Ciò è reso possibile dall’incontro con l’acrobata funambola, la ragazza che cammina sul filo con la faccia bianca e l’ombrellino che le fa da contrappeso, cioè dalla presenza dell’altro e dalla relazione che si instaura, inizialmente con una certa fatica e diffidenza, tra i due. Solo allora i ricordi, le telefonate, la moglie, i figli, sembrano riemergere con un significato che costruisce un passato e che restituisce un’identità al protagonista. La memoria prende i sopravvento anche se rimane sospesa, ma girando la pagina di quel libro da scrivere e già scritto che è la vita e il futuro imprevedibile della vita, non si troverà la parola “sacco”, l’indefinito, ma qualcosa in qualche modo certo, anche se mutabile, perché “ci sarà scritto”, già scritto dalla memoria potremmo aggiungere, e questo, pur tra le lacrime, questa ritrovata identità, permette agli occhi di guardare lontano. Così anche il futuro, il futuro più o meno fantascientifico, appare come un’ipotesi. La memoria non è un qualcosa di passivo, costruisce o, meglio, ri-costruisce operando una selezione e trasformando e aprendo in questo modo ipotesi per il futuro. Anche in La porta del cielo, terzo racconto di Cuppini, il futuro viene costruito sulla memoria, sul passato, alla ricerca di una identità che appare solamente già prefigurata. Non è tanto importante, mi sembra, il fatto che il narrato si svolga, sia ambientato, nel futuro, poiché nello svolgimento della diegesi si mostra come presente, come agente nel presente del personaggio, e, tra l’altro, è un futuro che ha poco di fantascientifico, poiché potrebbe benissimo essere qualcosa che accadrà domani o tra un mese. Tuttavia anche qui il protagonista si appella all’immagine e al ricordo della donna che ha amato da ragazzo, donna morta, e la cosa non sarebbe di poca importanza, ma aprirebbe un ulteriore capitolo, e della quale ricorda i momenti salienti della loro coesistenza, la spensieratezza, le speranze giovanili. Ma ciò che fa scattare nel protagonista tutto il meccanismo che lo conduce verso un recupero dell’identità è provocato dalla tensione verso uno scopo, forse “toccare i segreti del cosmo, a raccogliere dati cruciali per il futuro della scienza e dell’umanità”, che mette in moto e viene messo in moto dalla memoria, nel senso che è la tensione verso il futuro che accelera il motore della catena dei ricordi che non sarebbe possibile senza l’intervento di colui che ricorda. Un po’ come accade a Crizia nel celebre dialogo di Platone. Sarà il rientro nell’atmosfera terrestre e il prossimo ammaraggio o atterraggio, che riporterà definitivamente il protagonista a contatto con la propria identità e ciò gli è permesso proprio smettendo di pensare all’amica scomparsa, poiché se la memoria ha permesso la costruzione e il mantenimento dell’identità nel tempo nonostante i continui cambiamenti che intervengono sul soggetto modificandolo, l’identità interviene svelando all’individuo che egli rimane pur sempre uguale se stesso, cioè che colui che agisce sarà sempre lo stesso individuo. La realtà, il contingente, il “Sto per atterrare”, cioè rientrare nella propria dimensione, rende possibile smettere di “pensare a te che mi hai accompagnato in questo viaggio senza parlare. I ricordi si staccano dalla corteccia, vanno alla deriva nello spazio interstellare”. Nel racconto di Carlo, in questo caso, mi sembra che la memoria dia la possibilità all’identità di essere comunque stabile e l’identità, dal proprio canto, funge da collante tra la realtà e il soggetto. Insomma i racconti di Carlo Cuppini appaiono come un’apertura verso una dimensione che prevede la presenza attiva dell’altro e di possibili alterità e lo fa attraverso il recupero della memoria che fa propri i concetti racchiusi nel passato e ne coglie i segnali, attraverso un’identità forse ancora mobile (fluida?), ma in fondo stabile e immutabile nel suo essere e appartenere al soggetto come elemento unico e insostituibile. Bei racconti che meritano una riflessione accurata assieme a quelli degli altri due autori, Giovanni Agnolini e Sandra Salvato. Un libro da leggere come un insieme, anche cercando di dimenticare le differenti firme, scivolando con leggerezza da uno stile all’altro.
Enrico Maria Guidi
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