Ho “incontrato” per la prima volta Marisa Salabelle, scrittrice pistoiese di origine sarda, un anno fa con il suo “La scrittrice obesa” e ho sentito il desiderio di leggere questa sua opera precedente che mi ha affascinato per vari motivi. In primis perché è un commovente inno alla sua terra d’origine, la Sardegna, ai suoi straordinari paesaggi, alla sua lingua, alle sue tradizioni e agli eventi storici che hanno avuto luogo durante la seconda guerra mondiale ricostruiti perfettamente grazie all’escamotage dei capitoli che si alternano tra il 1943-1944 e il 2015; Salabelle sceglie di seguire, in parallelo, la storia di due famiglie, quella che fa capo a signora Generosa, al marito medico e alla sua numerosa prole e quella di Demy, di Felice e di Bella, non vi anticipo altro; soltanto alla fine si capirà il perché di questa scelta: bravissima!!! Complimenti per la dettagliata ricostruzione storica dei piccoli e grandi fatti di cronaca, purtroppo dolorosa, che sono accaduti sia in Sardegna che a Roma in quel periodo e per l’empatia, istintiva e travolgente, che fa provare a chi legge verso i/le suoi/e tanti/e co-protagonisti/e, soprattutto zia Demy di cui non possiamo non innamorarci subito: standing ovation!
Daniela Domenici
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È molte cose insieme, questo piccolo libro di Tito Barbini, Storie di amori e migrazioni sull’isola dalle ali di farfalla. Breve, cento pagine appena, ma denso. È, per aperta e ripetuta dichiarazione dell’autore, un romanzo d’amore. È un saggio, o una serie di microsaggi, sulle migrazioni, sulla letteratura, sul mito. È un libro di viaggi, di mare e di isole; è infine un metaracconto, perché l’autore, mentre scrive, si interroga e riflette sulle ragioni del suo scrivere, sul modo in cui intende sviluppare la trama, sui dubbi che lo assalgono, sui rischi che teme di correre. Di cosa si parla, dunque, in questo libro? Di un’isola, Astypalea, la più occidentale del Dodecaneso, che Barbini chiama poeticamente “l’isola dalle ali di farfalla” (ho guardato la mappa ed effettivamente ha la forma di una farfalla). Un’isola brulla e montuosa, bagnata da un mare limpidissimo. Di un pescatore, Apostolos, e di una giovane donna, una profuga siriana chiamata Samira, che sbarca sull’isola-farfalla a bordo di un barcone insieme ad altre quarantadue persone. Dell’amore a prima vista che scoppia tra i due: un amore non destinato a codificarsi in una relazione stabile, ma che vive della propria luce per tutto il tempo che gli è concesso. Di Enea e Ulisse, illustri profughi e naufraghi, cui una civiltà più accogliente seppe offrire ospitalità. Dei profughi e dei migranti che attraversano il Mediterraneo spinti dalla necessità, dalla disperazione ma anche dalla speranza di potersi ricostruire una vita. Dei feroci sistemi che l’Europa mette in atto per impedire a profughi e migranti di entrare nel suo territorio o, quando vi entrano, per relegarli in disumane strutture di detenzione. E del richiamo del viaggio, della nostra ambivalenza tra avventura e ricerca di stabilità, tra il fascino del mare e la sicurezza della terraferma. Un piccolo libro, dunque, come dicevo molto denso, che ci trascina da un pensiero all’altro, da una suggestione all’altra, seguendo il filo dei pensieri vagabondi del suo autore.
Marisa Salabelle
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Pinuccio Badalà ha solo cinque anni quando, in un giorno d’agosto del 1980, suo padre Michele e suo zio Salvatore si trovano a Bologna, alla stazione: devono prendere il treno per tornare a casa, in Sicilia, dove la famiglia li aspetta. Zio Salvatore ha persino comprato un regalino per Pinuccio: un libro. Ma quando la sorte ci si mette di mezzo c’è poco da fare: un boato immenso, la stazione salta in aria, zio Salvatore muore sul colpo, Michele invece se la cava ma tornerà a casa dopo mesi, gravemente menomato. È così che la Storia con la esse maiuscola irrompe nella piccola storia della famiglia Badalà. Pinuccio, traumatizzato dall’evento cui non ha assistito ma di cui paga le conseguenze, non riceverà mai il regalo dello zio Salvatore, ma in qualche modo la passione per i libri gli si incollerà addosso e non lo lascerà più. Il romanzo di Vladimir Di Prima, Il buio delle tre, racconta la vita del giovane Badalà, un ragazzo che ha una sola ambizione, quella di diventare uno scrittore. Come sappiamo non è facile realizzare questo sogno: tanti hanno la passione di scrivere, pochi riescono a dar corpo ai propri sogni, a pubblicare i loro romanzi, ad avere successo, a sfondare. L’odissea di Pinuccio, descritta con molto brio dall’autore, contempla tutti i passi della via crucis: scrivere è il meno, il difficile viene dopo. Trovarsi un mentore, cercare un editore, intrufolarsi in un programma televisivo, tentare di fare amicizia con un autore già famoso o con un giornalista capace di esercitare la sua influenza… E, con l’avvento di internet, seguire i blog letterari, lasciare commenti, cercare gli indirizzi di persone influenti, importunarle come un volgarissimo troll. Nel frattempo la vita di Pinuccio si dipana, tra la madre Santina, comprensibilmente preoccupata per il suo avvenire, il maestro Magazù, suo confidente e consigliere, la possibile fidanzata Enzuccia sponsorizzata da Santina e altri esilaranti personaggi. Un romanzo che si legge con grande divertimento, scritto in una lingua elegante e un po’ ricercata: chissà, se l’avesse scritto Pinuccio avrebbe coronato il suo sogno di successo…
Marisa Salabelle
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Un cinquantenne si trova a passare qualche giorno, intorno a Ferragosto, nella casa di Fregene dove da bambino trascorreva le vacanze. Mentre guarda fuori dalla finestra, incapace di prender sonno, la sagoma di un bambino sui cinque anni gli sfreccia accanto, indossando vistosi pantaloncini gialli: di chi si tratta? È una presenza reale o un’allucinazione? L’uomo segue il bambino, svolta l’angolo del corridoio, quasi si schianta contro il muro… e si ritrova proiettato nella propria infanzia: è lui, quel ragazzino, è lui il “bambino sbagliato”. Ma come può un bambino essere sbagliato? Col piglio naïf ma al tempo stesso saggio tipico di certi bambini, è lui stesso che ce lo fa capire: basta mettersi nel suo punto di vista, vedere le cose come le vede lui. Prima di tutto, quando è nato la sua mamma non era lì con lui: la donna che lo ha messo al mondo, gli hanno spiegato, non poteva tenerlo e lo ha dovuto lasciare, ma per lui è stato un colpo di fortuna, perché così è potuto entrare a far parte di una famiglia formidabile, con genitori affettuosi e comprensivi, una nonna gagliarda, un’infinità di cugini e cugine, zii e zie, uno più divertente e originale dell’altro. Giovanni si accorge di essere “sbagliato” perché i suoi gusti non si allineano a quelli degli altri maschietti e a ciò che il mondo degli adulti si aspetterebbe da lui. Gli piacciono i colori vivaci e brillanti, adora il rosa, gli piacciono le Barbie e detesta Big Jim, che invece gli viene regolarmente regalato con tutti i suoi accessori dai colori spenti e dall’aspetto poco invitante. Sarebbe bello, pensa Giovanni, che ognuno potesse divertirsi con i giocattoli che vuole senza che gli altri pretendano di imporgliene di diversi, socialmente più accettabili; sarebbe bello che gli altri, specialmente gli adulti, ci prendessero semplicemente per quello che siamo, e non per quello che loro vorrebbero che fossimo. Succede anche alla zia Luciana, “comunista e femminista”, di non essere vista di buon occhio; a Pierluigi, un bambino timido che non ama giocare a pallone, alla cugina Fabiola, nata con una malformazione a un braccio e soprattutto così poco femminile da essere scambiata per un maschio e perciò insultata e offesa dagli altri ragazzi. Giovanni è un bambino e proprio per questo vede le cose con occhi limpidi, non ancora incrostati da pregiudizi e stereotipi. Ma imboccare la sua strada non gli è facile, pressato com’è dalle aspettative della sua famiglia. Come quando gli viene regalata una bicicletta, e tutti vogliono che impari presto a guidarla, tutti vogliono insegnargli come fare, e intanto gli mettono addosso un’ansia che lo paralizza. Finché una mattina, mentre tutti ancora dormono, esce piano piano di casa, inforca la bici e dopo qualche tentennamento prende a filare liscio come l’olio: era tanto facile, alla fine!
Marisa Salabelle
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Della strage degli innocenti scrive solamente Matteo nel suo vangelo: Erode re, parlando coi Magi seguitori di stelle, nell’apprendere che nascerà a Betlemme un altro re dei Giudei e che loro andranno ad omaggiarlo li prega di tornare da lui, una volta l’avessero trovato, a tutto riferirgli. E vedendosi gabbato da loro: “…si adirò fortemente e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e dei dintorni, dai due anni in giù…”. Giuseppe Flavio, lo storico ebreo del tempo, non ne fa cenno nei suoi commentari, del resto il numero dei bimbi che avrebbero dovuto essere sacrificati era insignificante se paragonato a ben altre stragi che Erode avrebbe perpetrato durante il suo regno. Nessun dubbio per l’immaginario collettivo di noi gente comune, né nei capolavori che ci hanno lasciato descrivendolo con la loro pittura i vari Giotto e Duccio da Boninsegna e Beato Angelico, per citare che i più grandi. La famiglia di Gesù, da un Angelo avvertita in sogno a babbo Giuseppe, fuggì in Egitto. Oggi non l’avrebbero fatta passare, al valico di Rafah. E finalmente, sempre da oggi, non ci saranno più dubbi che una strage di innocenti si va perpetrando in quelle lande, e che numeri sono in ballo: cinquemila, settemila… e quelli che non sono contati sotto le macerie delle loro case? Non ci sono pallottolieri abbastanza grandi a numerarli tutti. Chi non muore subito ha ampie possibilità di farlo a breve, di fame, di freddo, di malattie, di acqua non potabile, di interventi eseguiti senza anestesia. L’Erode di oggi si chiama Netanyahu, anche lui “re” dei giudei, non che ce l’abbia coi bimbi in particolare, lui sterminerebbe solo i macellai-stupratori- rapitori di Hamas che, se potessero, taglierebbero la gola anche loro a migliaia a giudei e abitanti d’Israele. Sono riusciti a farlo “solo” a 1400, altrettanto innocenti del resto. Due facce della stessa miserabile medaglia. E stante che i padroni del mondo, stati uniti d’America, stanno con Israele finché morte non li separi, a cui regalano miliardi in armi, la carneficina non accenna a fermarsi, dinanzi agli occhi attoniti del resto del mondo. Che sbraita, protesta, marcia, ma nulla fa o può fare, neanche per una tregua che porti viveri e medicinali a Gaza, che porti una qualche bottiglia d’acqua potabile. Non c’è più ONU che tenga, né Amnesty, FAO, Organizzazione Mondiale della Sanità, Papa Francesco. Bibi e Jo se ne fottono, e vanno avanti tranquillamente. Pure Hamas continua a sparare razzi a casaccio su Gerusalemme e dintorni. Non pensate che questo tipo di comportamento folle non minerà, alla grande, le basi democratiche su cui si fonda la civiltà occidentale, europea in particolare. Lo farà eccome! E’ l’umanità in quanto tale che fa indietro passi da gigante. E nessuno, che non si sia precipitato a morire per Gaza, può vantarsi d’innocenza. Nessuno. E’ il nuovo peccato originale: di quella generazione che non ha fatto abbastanza perché questa mattanza di innocenti avesse termine. E ha continuato a vedersela sfilare nella televisione del salotto. Di tutto questo si è parlato, a Peschiera Borromeo, circolo Nuova Sardegna. Mercè il libro di Marisa Salabelle, che ad onta del suo cognome è sarda di Cagliari, classe ‘55, anche se la sua famiglia si è poi trasferita a Pistoia, lei decenne, dove tuttora abita. Studi storici all’Università di Firenze, e anche di Teologia sempre nel capoluogo toscano. Insegnato materie letterarie negli istituti superiori sino al 2016. Sposata, quattro figli: femmina/maschio/femmina/maschio, un nipote. La guerra di cui narra questo suo libro: “Gli ingranaggi dei ricordi”, Arkadia ed. , è la seconda mondiale, ricchissima essa stessa di massacri di civili innocenti, e in particolare quella che si svolse nella Sardegna natia che ebbe la sorte, in quanto “portaerei del Mediterraneo” di mussoliniana memoria, e anche “Bastione della Patria”! “Ellusu”, di esser bombardata da subito dagli alleati, mentre il resto d’Italia avrebbe dovuto attendere l’8 settembre ‘43 e il cambio di alleanze, e di restare poi relativamente tranquilla mentre, soprattutto al nord, regnava la lotta partigiana, e gli alleati bombardavano alla grande le città principali, specie Napoli, ma anche Roma e Milano. Cagliari comunque fu, dopo Napoli, quella che ebbe più bombe e distruzioni in assoluto, a sentire Marisa alla fine erano rimasti in città poco più che mille dei suoi abitanti. Gli altri sfollarono per l’sola tutta. In particolare, dei parenti di Marisa, alcuni sino a Olbia, da cui sarebbero poi scesi passando per Sassari e Thiesi e Berchidda e poi sempre più a sud, altri sin dall’inizio in quel di Sanluri, i più ricchi, babbo dottore che resiste a Cagliari a curare la gente. Mamma e tre figli, incinta di altri due anche se ne aspettavano uno solo, due “servette” tutti stipati in una casa del posto. Dove si incontrarono coi “poveri”, e gli “ingranaggi” del titolo presero a incastrarsi e a generare altre storie. I “poveri” che scendono da nord sono tre fratelli, Felice il più grande sui sedici- diciassette anni, si tira dietro due sorelle più piccole: Bella e Demoiselle detta Demy, quest’ultima con una gamba che la polio ha reso malferma, mamma morta giovane e babbo “commerciante” e indaffaratissimo nei suoi “affari”; gran bell’uomo e conoscitore di molte signore. I figli non sopravviverebbero se Felice, che i gesuiti a Cagliari hanno fatto studiare di greco e di latino, non si muovesse per una strada di canoniche e chiese in cui, lui chierichetto, le sorelle a lavare panni e pulire di tutto, avrebbero trovato un pezzo di pane e un po’ di minestra, che di cibo ce ne era poco per tutti. A rubare pane si erano trovate anche a Sassari, quando la gente affamata aveva assaltato i panifici nel ‘44 e in quel frangente uno dei “signorini” a cui Felice dava lezioni di latino, tale Berlinguer Enrico, era finito in galera, seppur per pochi mesi, che la sua famiglia molto era potente, imparentata anche coi Segni e i Cossiga i cui rampolli sarebbero diventati Presidenti della neonata Repubblica. A Berchidda Felice avrebbe fatto amicizia con il parroco, tale Pietro Casu, detto Babai: “…uno di cultura, eja, quanti libri che aveva scritto, e articoli su riviste, in tutta la Sardegna famoso era. Figurati che aveva scritto la “Divina Commedia” in sardo…cos’e maccus”! “…a dormire per terra in una specie di ripostiglio, eja, in mezzo alle scope e ai secchi per lavare per terra…su due materassi pisciosi direttamente sul pavimento…”. E’ Demy, ormai anziana, che ricorda e narra la sua storia alla nipote, che vive in continente e la va a trovare perché ha avuto un colpo e non ci sta più con la testa. Si dimentica le cose dell’altro ieri, che suo fratello Felice è oramai morto, ma ha una memoria di ferro per le cose della sua infanzia. E se lo ricorda bene quel viaggio in cui dovevano pietire un passaggio a qualche camion, qualche carretto, quando spesso un qualche Chicchinu se ne approfittava per aiutarle a salire, lei e Bella, e la gonna si sollevava un poco: “… come faccio a sapere che era un porco? Ma perché gli uomini sono tutti porci, bella mia! Che se poco poco ti distrai, ti mettono le mani addosso che è un piacere…”. Altri tempi! Oggi invece…A Sanluri c’è più benessere, nascono i due gemelli, un maschio più vigoroso, la bimba più minuta, a Maria Ausilia, la figlia maggiore adolescente, tocca occuparsi degli altri fratellini, è sempre imbronciata, se ne vorrebbe tornare a Cagliari, i gemelli vengono posti in un lettino con le sbarre, uno di testa e uno di piedi, secondo tradizione. “Va a finire che la soffoca, grosso com’è” aveva commentato Maria Ausilia. “Ohi, ta segament’e culu! Maria Disgrazia ti dovevo chiamare, non Maria Ausilia”! Marisa mi dice che non parla sardo, il poco che aveva imparato nei suoi primi dieci anni cagliaritani se lo è oramai dimenticato, eppure queste “perle sarde” che lascia cadere ogni tanto nelle pagine del libro sono davvero illuminanti. E divertenti. Sentite questo scambio di battute delle due servette anche loro adolescenti: “Già l’ho visto come l’hai guardato” disse Giannina che delle due era la più sveglia. “Chi ho guardato?” “Mulas”. “Mulas? Ma se sembra una scimmia! T’arrori” “Eja, puoi dire quello che vuoi, tanto lo so che ti piace”. “E tu allora? Sei innamorata di Setzu…” “Setzu? Mai’n sa vida”! Chi si innamorerà davvero saranno invece Maria Ausilia e Felice, lei a Cagliari non ci vorrà tornare troppo presto, lui dimenticherà subito i suoi trascorsi “preteschi”. E poi c’è un pronipote che sulle orme del fratello della madre di Maria Ausilia, sfollato a Roma con mamma e sorella, a nome Silvio Serra,si laurea in storia e si mette sulle tracce di questo parente, antifascista, che finisce implicato sulla strage di via Rasella, scampa alle Fosse Ardeatine nonostante il tradimento di tale Blasi che fa arrestare un bel po’ dei Gap che presero parte all’eccidio, si arruola nel neonato esercito italiano che risale la penisola scontrandosi con la resistenza tedesca, e muore giovanissimo sulla linea gotica, nelle vicinanze di Ravenna. E’ una bella parte del libro, in cui questo Kevin, giovane dei nostri tempi, si deve appropriare di una storia che, per lui, è altrettanto lontana quanto quella dei romani o dei babilonesi. E in queste pagine servono a mettere un punto fermo in quella che veramente fu la storia di via Rasella e le conseguenze che ne derivarono. Usando fonti storiche, come debbono fare gli storici che abbiano in mente di scrivere sulle cose del passato. C’è il declino di Demy, nel libro, il destino delle persone anziane che diventano non più autosufficienti, che finiscono in una RSA: “…luoghi malinconici, pervasi da odore di minestrone e corpi vecchi non troppo puliti, popolato da una fauna strampalata le cui bizzarrie, però, non generavano allegria ma una profonda tristezza”. La storia della gente semplice che a stento capisce cosa sia la guerra e perché i giovani siano chiamati a combatterla, spesso loro malgrado. Un libro questo di Marisa Salabelle che si dimostra essere di un’attualità sconcertante. Aveva esordito con due “gialli” Marisa: “L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu” e “L’ultimo dei Santi e il ferro da calza” (Tarka editore); “Gli ingranaggi dei ricordi”( Arkadia edit.) è uscito nel 2020. E sempre per Arkadia: “La scrittrice obesa”, tanto per mettere in chiaro che lei è capace di spaziare in tutti i generi della letteratura, dal giallo al tragicomico, passando per il romanzo a fondo storico. Presto, mi dice, ne uscirà uno nuovo.
Sergio Portas
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Negli ultimi mesi del 2023 sono usciti, a non molti giorni di distanza l’uno dall’altro, due libri che presentano una certa affinità, sia per la città di cui parlano, Firenze, sia per l’evidente affetto che gli autori, fiorentini entrambi, nutrono verso di essa, sia perché in ciascuno dei due la città è rappresentata attraverso gli occhi di altri due fiorentini illustri e grandi scrittori. Si tratta di Il babbo di Pinocchio, di Paolo Ciampi (Arkadia editore) e di A Firenze con Vasco Pratolini, di Valerio Aiolli (Giulio Perrone editore). Due lunghe passeggiate in una città ormai scomparsa, una città vivace e popolana, oggi consegnata mani e piedi ai turisti e privata, forse per sempre, della sua anima più autentica. Ma andiamo con ordine. Partiamo con Il babbo di Pinocchio: qui un giornalista che non ha voglia di andare a dormire, e nel quale riconosciamo l’alter ego dell’autore, Paolo Ciampi, nota una figura d’uomo dall’aspetto vagamente anacronistico seduta su una panchina di piazza San Lorenzo. Il giornalista non ci pensa su due volte e si mette a sedere accanto all’uomo: per un po’ stanno in silenzio, poi lo sconosciuto inizia a parlare, definendo Firenze come “la città di Acchiappacitrulli”. Un momento! La città di Acchiappacitrulli… chi è che ha coniato questo buffo nome? Possibile che… in poche parole, lo sconosciuto si rivela essere Carlo Lorenzini, per tutti Collodi, il padre di Pinocchio. I due, lo scrittore ottocentesco e il giornalista del XXI secolo, si fanno un giro per la città, ripercorrendo i luoghi di Lorenzini detto Collodi, facendo rivivere la Firenze di un tempo, confrontandola con la Firenze di oggi, così cambiata, così snaturata. La passeggiata è anche un pretesto per ricostruire la vita e l’attività letteraria di Carlo Collodi, pardon, Lorenzini, cui l’essere diventato famoso in tutto il mondo a causa del famoso burattino da lui creato va un po’ stretto. E, essendo Paolo Ciampi l’autore di questo delizioso racconto, non possono mancare le digressioni, le riflessioni, l’affabulazione caratteristica del suo modo di scrivere. Il lettore, nel mio caso la lettrice, si lascia portare in giro per la Firenze antica e moderna, si lascia sedurre dalla conversazione di questi due uomini che nel giro di una notte si fanno tutta la città a piedi, fermandosi di tanto in tanto in qualche bar a bere qualcosa. E rimane di stucco, la lettrice, specialmente se conosce Paolo Ciampi di persona e il suo sorriso disarmante, quando a un certo punto legge che a tutti quelli che lo lodano per il suo buonumore e per il suo viso sempre sorridente, il narratore replica con sarcasmo: dovrebbero vedermi a casa mia… rivelando l’indole malinconica che comunque la lettrice aveva già percepito leggendo le altre opere del Nostro. Anche Valerio Aiolli ci porta in giro per una Firenze d’altri tempi, anche se più vicina a noi rispetto a quella in cui è vissuto Lorenzini: la Firenze di Vasco Pratolini, il quartiere di Santa Croce, San Frediano, la mitica via del Corno, dove ha vissuto gli anni dell’adolescenza e dove è ambientata Cronaca di poveri amanti. Anche per Valerio Aiolli quella Firenze è svanita: «Posso darvi un consiglio?», scrive: «Non andateci, in via del Corno. Oggi via del Corno non esiste. O meglio esiste, ma non vive.» Anche in questo caso la rievocazione di una città che non c’è più, non quella dei monumenti abbaglianti per il loro splendore e dei fast food, dei negozi di vestiti e di souvenir, ma quella dei bottegai, degli artigiani, dei ragazzi che giocavano in strada. Una città amata e magistralmente ritratta da Vasco Pratolini, la cui vita e le cui opere vengono qui sapientemente riproposte al lettore, o alla lettrice, da Valerio Aiolli.
Nota dell’editore sull’immagine
Il Giardino di Boboli è un parco storico della città di Firenze. Nato come giardino granducale di Palazzo Pitti, è connesso anche al Forte di Belvedere, avamposto militare per la sicurezza del sovrano e la sua famiglia. Il giardino, che accoglie ogni anno oltre 800.000 visitatori, è uno dei più importanti esempi di giardino all’italiana al mondo ed è un vero e proprio museo all’aperto, per l’impostazione architettonico-paesaggistica e per la collezione di sculture, che vanno dalle antichità romane al XX secolo. Il giardino di Boboli è uno dei più famosi giardini della penisola. I giardini furono costruiti tra il XVI e il XIX secolo, dai Medici, poi dagli Asburgo-Lorena e dai Savoia, e occupano un’area di circa 45.000 m². Alla prima impostazione di stile tardo-rinascimentale, visibile nel nucleo più vicino al palazzo, si aggiunsero negli anni nuove porzioni con differenti impostazioni: lungo l’asse parallelo al palazzo nacquero l’asse prospettico del viottolone, dal quale si dipanano vialetti ricoperti di ghiaia che portano a laghetti, fontane, ninfei, tempietti e grotte. Notevole è l’importanza che nel giardino assumono le statue e gli edifici, come la settecentesca Kaffeehaus (raro esempio di gusto rococò in Toscana), che permette di godere del panorama sulla città, o la limonaia, ancora nell’originario color verde Lorena.
Marisa Salabelle
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Molte delle mie letture di quest’anno le ho recensite qui su Masticadores o su altri blog o riviste online: l’elenco è troppo lungo per riportarlo in questo articolo. Dirò soltanto che tra i romanzi che ho recensito, e che sono quasi solo italiani, non mancano i miei amatissimi Sinigaglia, Magliani, Ciampi, Trevi, Ferraguti, sempre pronti a sorprendermi con nuove splendide opere. Tra gli altri autori italiani che ho letto ma non recensito (o non ancora) ci sono alcuni miei colleghi di Arkadia, e voi potrete dire, okay, deve dirne bene perché pubblicano col suo stesso editore, e certo devo ammettere che ai libri di Arkadia rivolgo sempre uno sguardo particolarmente affettuoso, perché è il mio editore, sì, ma anche perché è una realtà che sta crescendo e che meriterebbe di essere più conosciuta e apprezzata poiché molte delle opere che pubblica sono realmente degne di nota. Come Nomi, cose, musiche e città, di Giovanni Granatelli, una raccolta di racconti brevi molto suggestivi, La lacrima della giovane comunista, di Giorgio Bona, e Un bambino sbagliato, di Giovanni Lucchese, di cui sicuramente parlerò più avanti perché avrò il piacere di presentarlo a Pistoia. Tra le scrittrici italiane che ho letto quest’anno voglio ricordare Francesca Matteoni e Rosalia Messina, anche loro già recensite, Fabrizia Ramondino, una scrittrice novecentesca che non finisce mai di stupirmi, Viviana Viviani, che ha pubblicato con Arkadia una bella e originalissima silloge poetica dal titolo La bambina impazzita, e Antonella Cilento, di cui ho letto Solo di uomini il mondo può morire, un libro molto bello, tra il diario e il saggio, che racconta di passeggiate che l’autrice e il suo compagno usavano fare nella Foresta Regionale di Cuma, durante la pandemia di covid, e spazia tra gli incontri inaspettati e curiosi, la rievocazione delle leggende legate al luogo, le riflessioni personali e le considerazioni relative alla questione ambientale. Passando invece agli autori stranieri, tra di loro ci sono senza dubbio i libri più belli e importanti, non perché gli italiani siano da meno, o forse sì, chissà. Si comincia con Lezioni, l’ultima fatica di Ian McEwan, che percorre tutta la vita di Roland Baines, un uomo sempre alle prese con donne dalla personalità fortissima che in qualche modo lo seducono e lo soggiogano: la madre, l’insegnante di pianoforte Miss Miriam, la moglie Alissa. Un’opera magistrale, come tutto ciò che esce dalla penna di McEwan. Ho letto con grande interesse e un certo senso di spaesamento per la sovrabbondanza di pagine, temi, personaggi, due romanzi di due grandi vecchi: Il passeggero, di Cormac McCarthy, e Cronache dalla terra dei più felici al mondo, di Wole Soyinka. Due opere molto belle e importanti ma di non facilissima lettura. Devo menzionare inoltre lo straordinario V13 di Emmanuel Carrère, il reportage del processo ai terroristi che fecero gli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi. Mi piacerebbe parlare ancora di altri libri che ho apprezzato molto, italiani e no, maschili e femminili, ma come si fa, nominerò appena Amianto, di Alberto Prunetti, La conca buia, di Claudio Morandini, L’orecchio di Kiev, di Andrej Kurkov. Per quanto riguarda la saggistica, sono molti i libri che hanno avuto su di me una forte impressione. La maledizione della noce moscata, di Amitav Gosh, parte da una vicenda storica sconosciuta ai più, del modo cioè in cui l’arcipelago indonesiano Banda, colonia prima portoghese e poi olandese, nel XVII secolo fu ferocemente spopolato dei suoi abitanti, successivamente ricollocati sulle stesse isole come schiavi, per impiantare la coltivazione della noce moscata. Un caso esemplare di colonialismo arrogante e distruttivo che offre all’autore lo spunto per parlare di storia, popoli, ambiente, sfruttamento. La Q di Qomplotto, di Wuming 1, che analizza il fenomeno del complottismo in modo acuto e approfondito, e Doppio, di Naomi Klein, un saggio molto interessante che spazia tra vari argomenti, difficile da riassumere in poche righe. Contagi, di Kyle Harper, un grande affresco della storia umana dal punto di vista delle malattie che l’hanno afflitta nelle varie epoche. Ho letto diversi libri su un tema che mi coinvolge molto, quello delle migrazioni: il più importante è stato il saggio di Sally Hayden, una giornalista irlandese che da tempo si occupa dell’argomento. E la quarta volta siamo annegati è un testo duro, che si basa su inchieste condotte dall’autrice, testimonianze, racconti autobiografici, e narra senza nascondere nulla il dramma dei migranti che vengono dall’Africa. J’accuse, di Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni Unite, è invece un duro atto di accusa verso la politica coloniale di Israele nei confronti della terra e della popolazione palestinese, con occupazione dei territori, apartheid, stragi e ora la spaventosa guerra che sta distruggendo Gaza. Concludo con una biografia davvero monumentale, quella di Philip Roth scritta da Blake Bailey, imperdibile per chi ama il grande scrittore americano, e con due testi di poesia: la raccolta Corpuscoli di Krause, di Fabiano Alborghetti, e Le case vogliono dire, un libro a metà autobiografico e a metà autocritico di Umberto Fiori, un poeta che mi piace talmente che mi basta leggere un suo verso per sorridere di felicità dentro di me.
Marisa Salabelle
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Davvero insolito e molto intrigante il romanzo di Rosalia Messina, Nulla d’importante tranne i sogni, uscito recentemente per la casa editrice Arkadia. Insolita anche la protagonista, la scrittrice Rosamaria Mortillaro che, sebbene esca di scena abbastanza presto, stroncata da una misteriosa malattia, permea di sé ogni pagina del romanzo. Interessanti anche le altre figure, più che altro femminili, intrecciate tra di loro da rapporti complicati che rasentano la morbosità. Facciamo la conoscenza di Rosamaria detta Ro mentre visita la casa di Acireale dove ha deciso di trasferirsi, abbandonando la più caotica e rumorosa Catania. Rosamaria ha dedicato tutta la sua vita alla letteratura, non si è sposata, non ha avuto figli: ha una sorella, Annapaola, detta Nana, e due nipoti, Giada e Fosco, i figli di Annapaola. Ha inoltre un’amica e collaboratrice factotum, Anita, con la quale intreccerà un legame molto stretto. È alla morte di Ro, e alla lettura del suo testamento, che emerge tutta una serie di questioni, divergenze caratteriali, gelosie, rivalità, drammi che l’astuta scrittrice riacutizza con disposizioni controverse, che lasciano di stucco i familiari e fanno esplodere le contraddizioni delle loro relazioni. Ognuno ha i suoi segreti, i suoi lati oscuri e le sue bizzarrie, ognuno ha una ragione per essere scontento delle decisioni prese da Ro, nessuno si salva, o quasi. Ricco di sorprese e colpi di scena, Nulla d’importante tranne i sogni è sostanzialmente un romanzo psicologico, imperniato sulla personalità delle protagoniste, tratteggiate con grande abilità e finezza. Da Rosamaria, protagonista indiscussa e quasi artefice del destino delle altre, una donna che ha posto al centro della sua vita la passione per la letteratura e l’ambizione a diventare una grande scrittrice, riuscendovi, ma sacrificando vita privata e relazioni umane, a Nana, sopraffatta dalla personalità della sorella, gelosa, insicura, affetta da inguaribile vittimismo, a Giada, considerata aspra e ingrata sia dalla madre che dalla zia, ad Anita, un personaggio umbratile, che entra quasi per caso nella vita di Ro e ne diventa l’amica e collaboratrice più stretta, sia nella sua attività di scrittrice, sia nel portare a compimento la sua vendetta postuma. Rosalia Messina porta avanti il racconto utilizzando una scrittura mista: all’interno della narrazione principale in terza persona si inseriscono lettere, pagine di diario e stralci di romanzi incompiuti, che danno varietà e spessore al romanzo, permettendo di compiere incursioni nel privato della protagonista e di gettare uno sguardo obliquo sulla storia che si viene componendo pazientemente, pezzo per pezzo.
Marisa Salabelle
Il link alla recensione su Masticadores Italia: https://bitly.ws/345Ip
La frustrazione della dimenticanza fa scuro ovunque. Per uno scrittore, poi, è un tarlo che gli fa perdere l’appetito per la vita. Si nutre di parole, di storie, di ossessione nel riuscire a pubblicare con un editore importante o con un altro al di sotto del primo. La speranza è sempre l’ultimaa morire, certo. Ma non basta. Bisogna essere bravi, scrivere bene, avere stile, lasciare una storia efficace. Non è sufficiente neanche questo. Neppure la tenacia e la troppa sicurezza di sé, salvano. L’editoria è un mondo chiuso, aperto ai lettori, ma chiuso per la marea di aspiranti scrittori che vorrebbero farne parte. Non tutto ciò che viene pubblicato è accettabile. Di libri mediocri, pessimi, mal riusciti, ce ne sono, sia chiaro. E la frustrazione aumenta dinanzi a situazioni del genere. Il talento di un autore, se c’è, sarà riconosciuto. Non sarà immediato, farà dei larghi giri prima di conoscere il successo o la popolarità. L’editoria ha i suoi tempi e ha la sua modalità di scelta. Il sistema è uguale per tutte le case editrici, possono cambiare alcune dinamiche, ma generalmente seguono tutte lo stesso schema. Non è facile accettare i rifiuti oppure i silenzi di un editore. Sapersi capaci, bravi, senza esserlo davvero è un errore che lo scrittore non considera minimamente. Chi perde il proprio senso critico e chi non l’ha mai avuto resta ancorato alla propria arroganza pensandosi necessario per la letteratura. Vive per la scrittura isolandosi nelle storie tatuate su carta. In La scrittrice obesa di Marisa Salabelle entri nella vita di Susanna Rosso, una donna sola. Ha sue passioni: la scrittura e il cibo. Susanna è molto scontrosa, esce pochissimo da casa, ha lavori precari e scrive improbabili romanzi. Il suo appartamento è una discarica di rifiuti e sporcizia, non si preoccupa della cura della casa e della propria persona. Non riesce a pubblicare con nessun editore e vince premi sconosciuti di quart’ordine. Il romanzo è una montagna russa di speranza, di ostinazione, di convincimenti e di dolore. La storia è convincente perché rispecchia l’ansia di molti autori nel pensarsi grandi scrittori. La scrittura è fluida, ma manca di spinta.
Lucia Accoto
Il link alla recensione su M Social Magazine: https://bitly.ws/XvPX