Il Comitato Tecnico del Premio Letterario Chianti, esaminati i testi di narrativa editi nel periodo dall’1 gennaio 2022 al 30 giugno 2023, ha compiuto una prima scelta di titoli comprendente i seguenti quaranta testi, di seguito proposti in ordine alfabetico. Da questa lista il Comitato trarrà, dopo ulteriori opportune selezioni e confronti, i tre autori finalisti, i cui nomi saranno comunicati entro il mese di febbraio 2024.
1. Albinati Edoardo, Uscire dal mondo, Rizzoli
2. Baldelli Simona, Il pozzo delle bambole, Sellerio
3. Bianca Federico, Riscatto, Felici
4. Bicchi Luigi, Il noce dell’Alderga, NIE
5. Bona Giorgio, La lacrima della giovane comunista, Arkadia
6. Borrasso Francesco, Sott’acqua, Giulio Perrone
7. Bortolotti Nicoletta, Un giorno e una donna, HarperCollins
8. Camurri Roberto, Qualcosa nella nebbia, NN
9. Casadio Paolo, Fiordicotone, Manni
10. Cassioli Silvia, Il capro, Il Saggiatore
11. Cecconi Arianna, La girandola degli insonni, Feltrinelli
12. Ciano Martino, Itinerari della mente verso Thomas Bernhard, A&B
13. Drago Marco, Innamorato, Bollati Boringhieri
14. Durastanti Claudia, Cleopatra va in prigione, Minimum Fax
15. Falco Giorgio, Il paradosso della sopravvivenza, Einaudi
16. Fallai Paolo, Un inverno lungo un anno, Solferino
17. Gori Leonardo, La libraia di Stalino, Tea
18. Innocenti Simone, L’anno capovolto, Blu Atlantide
19. Lepri Roberta, DNA Chef, Voland
20. Levi Lia, Per un biglietto del cinema in più, Salani
21. Lupo Giuseppe, Tabacco clan, Marsilio
22. Manganelli Lietta, Aspettando che l’Inferno cominci a funzionare, La Nave di Teseo
23. Miorandi Paolo, Nannetti. La polvere delle parole, Exorma
24. Mondadori Sebastiano, Verità di famiglia, La Nave di Teseo
25. Naspini Sacha, Villa del seminario, E\O
26. Nata Sebastiano, Memorie di un infedele, Bompiani
27. Ossorio Antoniella, I bambini del maestrale, Neri Pozza
28. Paoli Gigi, La voce del buio, Giunti
29. Pardini Vincenzo, Il passo dei briganti, Vallecchi
30. Permunian Francesco, Elogio dell’aberrazione, Ponte alle Grazie
31. Piersanti Claudio, Ogni rancore è spento, Rizzoli
32. Pignatelli Anna Luisa, Il campo di Gosto, Fazi
33. Sartori Giacomo, Fisica delle separazioni in otto movimenti, Exorma
34. Scudeletti Massimiliano, La laguna dei sogni sbagliati, Arkadia
35. Soriani Melania, Bly, Mondadori
36. Spampinato Lorena, Piccole cose connesse al peccato, Feltrinelli
37. Spila Cristiano, I baffi di Gadda e altri malinconici oggetti, Avagliano
38. Tuti Ilaria, Come vento cucito alla terra, Longanesi
39. Veltri Francesca, Malapace, Miraggi
40. Vichi Marco, Nulla si distrugge, Guanda
Il Premio letterario Chianti è promosso dai Comuni di Greve in Chianti (Firenze), Unione Comunale Barberino V.E -Tavamelle Vel di Pesa (Firenze), Castellina in Chianti (Siena), Gaiole in Chianti (Siena), Impruneta (Firenze), Radda in Chianti (Siena), San Casciano Val di Pesa (Firenze), Castelnuovo Berardenga (Siena) e dall’Associazione Culturale Stazione di Posta di Firenze con l’ideatore del Premio Paolo Codazzi, con il coinvolgimento delle loro biblioteche.
Sponsor della manifestazione è il Rotary San Casciano – Chianti.
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Molte delle mie letture di quest’anno le ho recensite qui su Masticadores o su altri blog o riviste online: l’elenco è troppo lungo per riportarlo in questo articolo. Dirò soltanto che tra i romanzi che ho recensito, e che sono quasi solo italiani, non mancano i miei amatissimi Sinigaglia, Magliani, Ciampi, Trevi, Ferraguti, sempre pronti a sorprendermi con nuove splendide opere. Tra gli altri autori italiani che ho letto ma non recensito (o non ancora) ci sono alcuni miei colleghi di Arkadia, e voi potrete dire, okay, deve dirne bene perché pubblicano col suo stesso editore, e certo devo ammettere che ai libri di Arkadia rivolgo sempre uno sguardo particolarmente affettuoso, perché è il mio editore, sì, ma anche perché è una realtà che sta crescendo e che meriterebbe di essere più conosciuta e apprezzata poiché molte delle opere che pubblica sono realmente degne di nota. Come Nomi, cose, musiche e città, di Giovanni Granatelli, una raccolta di racconti brevi molto suggestivi, La lacrima della giovane comunista, di Giorgio Bona, e Un bambino sbagliato, di Giovanni Lucchese, di cui sicuramente parlerò più avanti perché avrò il piacere di presentarlo a Pistoia. Tra le scrittrici italiane che ho letto quest’anno voglio ricordare Francesca Matteoni e Rosalia Messina, anche loro già recensite, Fabrizia Ramondino, una scrittrice novecentesca che non finisce mai di stupirmi, Viviana Viviani, che ha pubblicato con Arkadia una bella e originalissima silloge poetica dal titolo La bambina impazzita, e Antonella Cilento, di cui ho letto Solo di uomini il mondo può morire, un libro molto bello, tra il diario e il saggio, che racconta di passeggiate che l’autrice e il suo compagno usavano fare nella Foresta Regionale di Cuma, durante la pandemia di covid, e spazia tra gli incontri inaspettati e curiosi, la rievocazione delle leggende legate al luogo, le riflessioni personali e le considerazioni relative alla questione ambientale. Passando invece agli autori stranieri, tra di loro ci sono senza dubbio i libri più belli e importanti, non perché gli italiani siano da meno, o forse sì, chissà. Si comincia con Lezioni, l’ultima fatica di Ian McEwan, che percorre tutta la vita di Roland Baines, un uomo sempre alle prese con donne dalla personalità fortissima che in qualche modo lo seducono e lo soggiogano: la madre, l’insegnante di pianoforte Miss Miriam, la moglie Alissa. Un’opera magistrale, come tutto ciò che esce dalla penna di McEwan. Ho letto con grande interesse e un certo senso di spaesamento per la sovrabbondanza di pagine, temi, personaggi, due romanzi di due grandi vecchi: Il passeggero, di Cormac McCarthy, e Cronache dalla terra dei più felici al mondo, di Wole Soyinka. Due opere molto belle e importanti ma di non facilissima lettura. Devo menzionare inoltre lo straordinario V13 di Emmanuel Carrère, il reportage del processo ai terroristi che fecero gli attentati del 13 novembre 2015 a Parigi. Mi piacerebbe parlare ancora di altri libri che ho apprezzato molto, italiani e no, maschili e femminili, ma come si fa, nominerò appena Amianto, di Alberto Prunetti, La conca buia, di Claudio Morandini, L’orecchio di Kiev, di Andrej Kurkov. Per quanto riguarda la saggistica, sono molti i libri che hanno avuto su di me una forte impressione. La maledizione della noce moscata, di Amitav Gosh, parte da una vicenda storica sconosciuta ai più, del modo cioè in cui l’arcipelago indonesiano Banda, colonia prima portoghese e poi olandese, nel XVII secolo fu ferocemente spopolato dei suoi abitanti, successivamente ricollocati sulle stesse isole come schiavi, per impiantare la coltivazione della noce moscata. Un caso esemplare di colonialismo arrogante e distruttivo che offre all’autore lo spunto per parlare di storia, popoli, ambiente, sfruttamento. La Q di Qomplotto, di Wuming 1, che analizza il fenomeno del complottismo in modo acuto e approfondito, e Doppio, di Naomi Klein, un saggio molto interessante che spazia tra vari argomenti, difficile da riassumere in poche righe. Contagi, di Kyle Harper, un grande affresco della storia umana dal punto di vista delle malattie che l’hanno afflitta nelle varie epoche. Ho letto diversi libri su un tema che mi coinvolge molto, quello delle migrazioni: il più importante è stato il saggio di Sally Hayden, una giornalista irlandese che da tempo si occupa dell’argomento. E la quarta volta siamo annegati è un testo duro, che si basa su inchieste condotte dall’autrice, testimonianze, racconti autobiografici, e narra senza nascondere nulla il dramma dei migranti che vengono dall’Africa. J’accuse, di Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni Unite, è invece un duro atto di accusa verso la politica coloniale di Israele nei confronti della terra e della popolazione palestinese, con occupazione dei territori, apartheid, stragi e ora la spaventosa guerra che sta distruggendo Gaza. Concludo con una biografia davvero monumentale, quella di Philip Roth scritta da Blake Bailey, imperdibile per chi ama il grande scrittore americano, e con due testi di poesia: la raccolta Corpuscoli di Krause, di Fabiano Alborghetti, e Le case vogliono dire, un libro a metà autobiografico e a metà autocritico di Umberto Fiori, un poeta che mi piace talmente che mi basta leggere un suo verso per sorridere di felicità dentro di me.
Marisa Salabelle
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Trama semplice e lineare e tono di narrazione pacato ed euristico, che ricorda i migliori narratori, ma la magia di questa perla di Giorgio Bona risiede davvero nel saper evocare in ogni capitolo scenari e cartografie di altri universi narrativi. La lacrima della giovane comunista contiene molteplicità di autori e romanzi e un tal gioco di prestigio a Bona riesce, in fondo, col descriverci in modo pacato, senza voli pindarici, ma puntuale, assai evocativo la città-dio Mosca. Forse questo, sopra ogni altra cosa, ci fa notare La lacrima della giovane comunista: tutti quegli intrecci di spie, quelle oscure faccende politiche, quell’incrociarsi di destini in opere narrative di matrice russo-britannico-americano ci hanno raffigurato nient’altro se non il volto immenso e plurimo di una città come Mosca. La metropoli. Pantheon di Dei d’Olimpo Comunista. Così, quando il professore nella sua rischiosa impresa nel tentativo di far luce sulla controversa figura del poeta rivoluzionario Venedikt Erofeev finisce alla Lubjanka subito ci vengono in mente, quantomeno, le grandi narrazioni tolstojane (la parte conclusiva di Guerra e Pace) e Aleksandr Isaevič Solženicyn – Arcipelago Gulag. Quando il professore nel suo sherlockiano pellegrinare finisce al Parco Gorky subito ci sovvengono le ruspe a scoprir cadaveri sepolti sotto la neve nel romanzo Gorky Park di Martin Cruz Smith. Così come quando si finisce nelle saune tra acque bollenti e nebbiosi vapori non possiamo non ricordare, grazie allo stile pacato e puntuale di Giorgio Bona, ma in certo modo potente e implacabile, Danko di Arnold Schwarzenegger o Viggo Mortensen del cronenbergiano Promessa dell’assassino. Quando Bona e il suo professore ci conducono per mano facendoci percepire come scenografia vera, palpabile Peredelkino non possiamo non pensare al Yakov Savelyev de La Casa Russia di John le Carré. Certo, Bona ha forse in mente le mappe assai meno accessibili di David Peace e Marina Cvetaeva, nonché di Osip Mandel’štam e Venedikt Erofeev stesso. Mentre noi dobbiamo contentarci, ahimè, dei nostri radar a corto raggio. Sia come sia, anche le relazioni tra i personaggi, da Bona orchestrati con paurosa bravura, i loro incontri, i loro intrecci, di Viktor e del professore, del professore e di Olga, paiono compendio di distopie di matrice veterocomunista, tutte faccende assurde da regime sovietico, che prima Solženicyn in Padiglione Cancro, e poi, magari un poco derivativamente, la straordinaria intelligenza di Kundera ci hanno indicato. Ma poi, Bona in poche pagine riesce a illuminarci anche su noi stessi, noi europei, quando nel descrivere il paesaggio urbano moscovita odierno sembra quasi restituirci l’immagine di una qualsiasi delle nostre città, della nostra realtà nella quale da sempre socialismo e capitalismo camminano assieme su una fune tesa sull’irto terreno del compromesso. Recentemente, ho lette alcune note dell’autore varzino Andrea B. Nardi, egli vissuto in South Dakota, Stati Uniti, per vario tempo. Racconta di quando alcuni americani gli chiedevano “Are you a comunist?” (“Sei un comunista?”) Nardi non riuscendo a capacitarsi di una domanda così retrograda, così datata. Invece no. La questione comunista per gli americani non è e non sarà mai datata. Siamo noi europei a non essere realmente in grado di capire fino in fondo. E questo per via della situazione compromissoria tra capitalismo e Stato Sociale che almeno dal ’45 quotidianamente viviamo. Noi europei non capiremo mai quanto per un americano il comunismo sia Morte, sia Fine di Tutto. Gli americani non possono e non potranno mai concepire di abbandonare sul serio il loro stile di vita basato sull’abbondanza. Nella serie televisiva The Society di fresca realizzazione ciò appare inequivocabile. I ragazzi, simili agli inglesi de Il Signore delle Mosche, danno vita a un modello socialista basato sull’abbondanza; ma quando le risorse terminano ed è necessario organizzarsi più francescanamente, secondo modelli simili a quello di derivazione comunista, cosa accade? La serie televisiva cessa, troncandosi quasi di colpo, in un finale genialmente raffazzonato dal sapore kafkiano. Inconcepibile. Per un americano l’abbandono del lusso è la paura più grande. Il comunismo. Ma quanto in ciò vi è di paradossale, è che questo sentimento già ce l’abbia mostrato proprio un padre russo della letteratura, ossia Lev Nikolàevič Tolstòj, il quale, sì in Guerra e Pace, ma massimamente in Resurrezione imbastisce una sontuosa narrazione retta sulla dicotomia fondamentale tra fasto e miseria, facendoci scorgere con estrema vivezza quanto la sfarzosità, una volta assaggiata, sia all’uomo irrinunciabile, per esempio allorché il nobile Dmitrij Nechljudov riemergendo dalla sua catacombale anabasi nelle carceri dove è rinchiusa Katjuša Maslova ha un bisogno fisico, quasi insopprimibile, di ricchezza, di fastosità e splendore del mobilio, degli arredi, delle vesti e di stanze e luoghi. Tutte queste cose, e naturalmente altro assai, le ritroviamo in La lacrima della giovane comunista in un perlaceo compendio di sole 176 pagine, talento di sintesi tutto italiano: storia degna, quella di Giorgio Bona, della migliore letteratura russa, e che a essa si affianca, in essa entra di diritto.
Marco Candida
Il link alla recensione su LetterMagazine: https://bitly.ws/33yx5
Parla l’autore di un romanzo che racconta un viaggio alla ricerca di uno scrittore russo, Venedikt Erofeev, tra vecchio corso sovietico e nuovo ordine dopo la caduta dell’Urss.
È in libreria da qualche tempo un romanzo scritto da Giorgio Bona, che racconta la Russia subito dopo la caduta dell’Unione Sovietica e l’inizio del nuovo regime che si instaura a Mosca in quegli anni, s’intitola La lacrima della giovane comunista (Arkadia 2022) e mi sembra tornato di grande attualità proprio in questi giorni, mentre le notizie della guerra tra Russia e Ucraina si sono andate complicando con il colpo di mano di Evgenij Prigozhin, che ha prima marciato verso la capitale poi si è ritirato. Il tutto condito da un senso di doppiezza e mistero, intrighi e furbizie, la perdurante sensazione che nulla sia come sembra e tutto possa essere infido e pericoloso. La storia in breve: un professore universitario italiano, che di mestiere fa lo slavista, segue le tracce di uno scrittore russo dissidente, Venedikt Erofeev, e di un suo romanzo che resta oscurato anche dopo la fine della dittatura. Penso che valga proprio la pena fare quattro chiacchiere con il suo autore.
Chi è Venedikt Erofeev, autore del libro che il tuo protagonista va cercando dall’Italia in Russia, attraversando l’Europa dell’est?
Venedikt Erofeev è diventato un autore cult della letteratura russa dopo la morte. Il suo successo si realizzò attraverso canali clandestini che lo portarono a essere tradotto in 27 paesi prima di essere pubblicato in Unione Sovietica. Il padre fu arrestato per aver raccontato una barzelletta su Stalin e fu deportato per cinque anni in un campo di lavoro. La madre, non potendo accudire i figli, trasferì Venedikt e il fratello in orfanotrofio. Venedikt dimostrò subito una grande sensibilità per la letteratura ed entrò all’università di Mosca facendosi apprezzare come studente modello fino all’espulsione per aver scritto una satira sulla presidente del Komsomol. Da quel momento visse nei bassifondi della società russa dormendo sui treni in transito della stazione Kursk per otto anni in preda all’etilismo. Scrisse moltissimo ma dei suoi scritti si salvò poco. Il suo libro più famoso fu Mosca-Petuski. Morì in seguito a un tumore alla laringe a 52 anni. Negli ultimi anni della sua vita parlava con un microfono alla gola dove usciva una voce metallica e stridula.
Quanto c’è di vero in questa storia?
Questa storia parte da una vicenda vera. Negli anni ’70 lessi la traduzione italiana di Mosca-Petuški, un libro che mi contagiò profondamente. Nel 1981 ero a Mosca a frequentare un corso di russo. Erano gli ultimi anni del socialismo reale e al governo c’era Leonid Breznev. Chiesi al mio amico Ivan, giornalista in pensione della Literaturnaja Gazeta se aveva notizie che riguardavano Venedikt Erofeev perché volevo comprarmi i suoi libri in lingua originale. Disse di non conoscere nulla e di non averlo mai sentito nominare. Il problema si presentò dieci anni più tardi ed eravamo nell’epoca in cui c’era Eltzin al governo ed era in atto la politica di rinnovamento. La risposta fu tale e quale a dieci anni prima. Questo è stato il viatico per iniziare una storia che avevo in testa da tempo. La ricerca di Erofeev scomparso nei meandri della società socialista e che non rientrava in quegli autori per così dire “riabilitati” dalla politica del nuovo corso. Un’indagine in una società che stava cambiando e chi meglio di una figura come il protagonista del mio libro, uno slavista profondo conoscitore e appassionato di letteratura russa, poteva fare?
Proprio all’inizio del tuo testo un personaggio dice: “La letteratura caro professore non è sufficiente. Perché la letteratura è una forma di conoscenza in più che va oltre la nostra esistenza. È per questo che scrivi?
Forse scrivere è un’arte e l’arte è una missione. Io sono fermamente convinto che la letteratura serva a riscattare fatti e personaggi che la storia con il tempo potrebbe cancellare. Certo, la letteratura ha il dovere di conservare una grande identità, e allora può dare la risposta a tantissime cose.
Che cos’è per te la Russia?
La Russia potrei facilmente dire che è un luogo dell’anima e chiuderla qui. Un paese si ama per la sua lingua e per la sua letteratura. E io ho addirittura incominciato gli studi della lingua per affrontare la lettura di poeti straordinari come Osip Mandel’stam, Marina Cvetaeva, Sergej Esenin, Velimir Chebnikov e Anna Achmatova. Poeti che dovevo assolutamente conoscere nella loro lingua. Perché? Come diceva Dostoevskij, per citare un grande della letteratura di quel paese, c’è sempre qualcosa di intrasportabile da una lingua a un’altra, qualcosa che nella lingua tradotta si perde rispetto all’originale. Lo diceva a proposito di un’opera di Gogol’ tradotta in francese, perché in francese si perdeva sempre quella sottile ilarità che è presente e indispensabile nella letteratura russa e che non rende in un’altra lingua. Ecco allora che la lingua diventa un fiume sotterraneo, che viaggia sottopelle, come i versi di quei poeti amati. Proprio Venedikt Erofeev diceva che un paese che non ha radici letterarie è un paese alla deriva, come un ubriaco abbandonato sul ciglio di un marciapiede.
È una nazione che si alimenta anche di grande letteratura, e nel tuo romanzo si vive anche questo. Come fa l’arte a convivere con il terrore dell’apparato poliziesco dell’Unione Sovietica o con la repressione strisciante del nuovo corso che racconti?
Il potere è una forma di arroganza che agisce con forza e ha paura di una sola cosa: la parola. La parola può far male, è un’arma di distruzione di massa se usata in maniera impropria. Ma può essere rivoluzionaria se diventa una forma di lotta, può scatenare la rabbia e può davvero essere una proposta vera per chi ha la capacità e la voglia di ascoltare. Marina Cvetaeva scrisse una lettera a Berja, il capo della polizia sovietica, in favore del marito arrestato per attività antisovietica e per la figlia Alja, anche lei arrestata per questo motivo. Berja sembra che, da quella lettera scritta con una dignità di una spudoratezza tale, ne rimase turbato e ordinò la fucilazione dell’uomo, che venne passato alle armi. Il potere tende a narcotizzare la letteratura, ma la parola scava e lascia il segno. Rimane.
La storia che hai scritto può servire soltanto a illuminare i fatti passati oppure anche la situazione attuale, la guerra che si sta svolgendo in questi giorni?
C’è un preludio che si apre verso la Russia che vediamo adesso. Il mio romanzo è ambientato all’inizio del cambiamento, siamo nel 1990. In quegli anni la riforma Gorbacioviana doveva portare un cambiamento nel paese e doveva avvenire gradatamente altrimenti l’impatto sarebbe stato terribile. La Russia attuale, quella putiniana per intenderci, è figlia del più sfrenato neoliberismo. Si pensava a un processo più calvinista, meno indolore, dove il popolo avesse un suo riconoscimento. Non è stato così. Anche questa forma di potere ha narcotizzato la letteratura dove tutti, intellettuali e scrittori, si sono adoperati a parlare del grande mutamento in atto, anche quegli autori che prima esaltavano il socialismo reale.
Esiste davvero il cocktail che dà il titolo al romanzo “La lacrima della giovane comunista”? E tu l’hai mai assaggiato?
Intanto il titolo introduce il lettore dentro un romanzo a tasso alcolico elevato e non solo per il nostro incredibile autore, ma anche perché il protagonista spesso e volentieri tende ad alzare il gomito. Ma in un’atmosfera come questa poteva essere da meno?
La lacrima della giovane comunista è un cocktail, possiamo definirla una preparazione alcolica surreale formata in gran parte da vodka, acqua di colonia, lozione antiforfora, unghiolina, deodorante per i piedi e se possibile qualche foglia di verbena. Erofeev parlava di questo cocktail per i brindisi delle grandi occasioni.
Io non l’ho mai provata ma confesso che potrei assaggiarla soltanto se fosse aromatizzata con la verbena, altrimenti rinuncio e passo il calice.
Mi sembra che una delle questioni che emerge sia quella dell’impossibilità di sapere la verità su un avvenimento, anche sulla vita di una persona. Un personaggio a un certo punto parla di Venedikt Erofeev: “Chi ti dice che le notizie su di lui siano false? Magari la sua è soltanto una miseria apparente, lui adesso conduce una vita agiata e vive nel lusso”. Quindi in certe situazioni è possibile tutto e il contrario di tutto?
C’è un depistaggio per allontanare la verità e la verità non sempre viene a galla. Ma occorre essere preparati alle sconfitte, non rassegnarsi mai. Il protagonista del libro è un intellettuale che all’occorrenza si trasforma nel suo piccolo anche in un uomo d’azione e non si tira indietro davanti al pericolo. C’è una ragione in tutto questo? Sì perché il mio protagonista, come Erofeev, è l’opposto del personaggio che mira a costruire una carriera, attento a conservare con scrupolo ogni passo della propria azione. Con dignità e coraggio.
A un certo punto scrivi: “Forse non vaneggiava Bulgakov quando vide il diavolo a Mosca. Credo che qui sia rimasto, non si sia mai allontanato”.
Nel romanzo di Bulgakov Il maestro e margherita il diavolo apparve per la prima a volta a Mosca presso gli Stagni del patriarca, dove i suoi giardini diventarono negli anni a venire un luogo cult della capitale. Era uno di quegli angoli che mi avevano affascinato di più e ci passai tre ore di un pomeriggio consumando gelati venduti da un ambulante con un piccolo carretto dopo aver fatto lunghissime code. Rimasi lì perché mi sembrava di respirare quell’aria rarefatta e solenne che aveva animato il grande scrittore russo. Al mio protagonista feci fare il medesimo percorso, ricostruendo la coda che io avevo fatto per acquistare il gelato. Anche lui consuma un gelato mentre incontra il suo interlocutore che depistava la sua ricerca. Ecco allora il diavolo pronto a identificarsi con la menzogna, la rovina del mondo. Forse il diavolo non lo troviamo soltanto a Mosca, ma qui se ne avvertiva la presenza grazie a chi gli aveva dato vita, ovvero Michail Bulgakov.
Per ultimo, usiamo un paradosso: se un professore russo facesse un viaggio al contrario di quello descritto nel tuo libro, alla ricerca di uno scrittore occidentale dimenticato o scomodo, secondo te che romanzo ne verrebbe fuori?
Il mio protagonista arriva a Mosca in seguito a un rocambolesco viaggio in treno. Il treno ha un significato particolare nella letteratura russa perché non rappresenta soltanto un mezzo di spostamento, ma un luogo dove avvengono moltissime cose: si incontrano le persone più stravaganti, si dialoga, si raccontano i sogni, si condivide il cibo e, perché no, anche una bevuta e una bella sbronza. I viaggiatori tra loro non si conoscono e questo agevola le confidenze. Nessun mezzo di trasporto è così pieno di significati come il treno e scrittori come Tolstoj e Dostoevskij lo vedono come una metafora della società. Anche In Mosca-Petuški di Venedikt Erofeev c’è un viaggio in treno che annulla spazio e tempo, sospeso nella disgressione delle stazioni attraversate tra sbronze esilaranti, stati di angoscia e di abbandono, colpi improvvisi di genio e di felicità. Io non riuscirei a vedere un protagonista che fa un viaggio a ritroso per venire in Occidente confrontandosi con le realtà che racconto perché forse non le incontrerebbe. Mi piacerebbe però che qualcuno provasse a farlo e sarei curioso di sapere cosa ne può venire fuori. Stiamo pronti. In alto i calici e intanto brindiamo con La lacrima della giovane comunista.
Paolo Restuccia
Il link all’intervista su Storygenius.it: http://bitly.ws/K4Eq
Tre sono i motori di questo romanzo di Giorgio Bona, piemontese, autore di interventi su “Thriller Magazine” e “Carmillaonline”: primo, il protagonista, un professore universitario italiano, slavista; secondo, uno scrittore russo dissidente, Venedikt Erofeev, ostracizzato dal sistema sovietico, alcolizzato e marginalizzato; terzo, un suo romanzo “maledetto”, boicottato e negletto anche dopo la fine dell’URSS. Sembrerebbero elementi di un thriller, ma questa sarebbe una lettura scontata; in primo luogo, perché la trama e il ritmo contraddicono questa interpretazione “di genere”, e poi perché Venedikt Vasil’evič Erofeev esiste veramente, e il romanzo maledetto di cui si parla è il suo Mosca-Petuški (poema ferroviario), finalmente pubblicato anche in patria grazie alla Perestrojka, dopo essere stato “contrabbandato” all’estero diversi anni prima. Quest’esistenziale, ricostruzione d’ambiente, omaggio alle sofferenze degli intellettuali russi, schiacciati dal conformismo del “realismo socialista? La lacrima della giovane comunista è forse un po’ di tutto questo; o meglio, diciamo che cambia direzione strada facendo. Inizia all’università del Piemonte Orientale, dove il protagonista riceve da un collega russo, in procinto di tornare in patria, la copia di un libro di Erofeev in russo e la richiesta di farne l’argomento per un corso universitario. Mosca-Petuški, che esiste davvero e che i curiosi possono leggere in italiano in tre edizioni (Feltrinelli 1977, Fanucci 2003, Quodlibet 2014, quest’ultima tradotta da Paolo Nori), è la storia di un intellettuale alcolizzato, Venja (di ispirazione chiaramente autobiografica) e dei suoi viaggi sul treno tra la capitale e la città di Petuški, dove vive la sua ex insieme al loro figlio. Venja è stato licenziato dalla squadra di operai dove lavorava, per questioni legate indirettamente all’alcol; sul treno, si lascia andare con gli altri passeggeri a lunghi monologhi talvolta sconclusionati, ma che denotano una lucida amarezza per lo stato in cui il paese è ridotto. Dai suoi dialoghi con occasionali compagni di viaggio, caratterizzati da un’ebbrezza rabbiosa e disperata, emerge un quadro deprimente della vita quotidiana nell’URSS. Il protagonista di La lacrima della giovane comunista (è il nome di un liquore russo) parte volentieri per Mosca, città che conosce bene e nella quale vanta amicizie che vuole rivedere. Se Mosca-Petuški è definito dall’autore, sarcasticamente, “poema in prosa” (è invece un testo chiaramente postmoderno), il romanzo di Bona parte come un bildungsroman, con episodi iniziali che sembrano epifanie di significati che però non si verificheranno più avanti, perché la trama subisce una torsione verso il thriller di spionaggio — dopotutto l’ambientazione è l’ex Impero del Male. L’intreccio si snoda in una Mosca amata e ostile, affascinante e respingente al tempo stesso, che della democrazia sembra avere adottato solo il guscio, il libero mercato, mentre la mentalità del potere e dei suoi sudditi è rimasta quella del socialismo-in-un-solo-paese, se non addirittura quella dell’autocrazia zarista. L’autore riesce a padroneggiare una materia non facile, eludendo (non sempre) il rischio dello stereotipo, evitando facili prediche e ancora più facili condanne, sino al finale che è una delle parti più alte del libro. Chi fosse incuriosito dalla figura di Venedikt Erofeev può trovare nel web una quantità di documentazione soddisfacente. La sua parabola di repressione e autodistruzione è indicativa di quanto la cultura mondiale abbia perso per colpa dell’annientamento dell’intelligencija sovietica da parte di un potere immobilista, conservatore e irrigidito in dogmi oscurantisti.
Franco Ricciardiello
Il link alla recensione su Pulp libri: https://bit.ly/3n5iJ1f
Cominciamo da un dettaglio apparentemente paradossale. La lacrima della giovane comunista che offre titolo a questo bel romanzo di Giorgio Bona è un cocktail dalla ricetta almeno losca, ma diciamo francamente tossica, per bevitori disperati (basti dire che tra gli ingredienti, oltre la vodka, contiene shampoo antiforfora, lacca per capelli e unghiolina): un mix che la dice lunga su tutta una realtà spuria e intossicante descritta in queste pagine. Ma la tristezza in quel nome sottesa corre per tutto il testo – e questo si può dire senza spoilerare. In Italia il nome di Venedikt Vasil’evič Erofeev (1938-1990) non è molto noto al grande pubblico. Della sua produzione, seminata in una vita tragicamente inquieta, tre edizioni sono più o meno disponibili solo dell’opera maggiore Moskva-Petuškì (Москва-Петушки, 1973), circolata in Unione Sovietica per la prima volta nel 1970 come samizdat e poi pubblicata, in russo, in Israele nel 1973: cioè Mosca sulla vodka, Feltrinelli, 1977, 2004; Tra Mosca e Petuški, Fanucci, 2003; e in ultimo Mosca-Petuškì: poema ferroviario, traduzione di Paolo Nori, Quodlibet, 2014. In tempi più recenti, ad arricchire il quadro è apparso Memorie di uno psicopatico (Записки психопата, 1956-58, redatto dopo l’espulsione dell’autore dalla facoltà di lettere), Miraggi edizioni, 2017. Ma rispetto alla quantità delle opere materialmente scritte da Erofeev, gran parte delle quali probabilmente perdute per sempre, si tratta di una porzione molto contenuta. Non è strano dunque il magnetico interesse provato dalla voce narrante del romanzo, un docente universitario dell’Ateneo del Piemonte Orientale, all’offerta di un funzionario consolare russo, tal Viktor Demanenko, che sul punto di tornare in patria evoca promettenti possibilità di porre mano su materiali di quell’autore, non riabilitato – a differenza di tanti altri – dal nuovo corso. Il Nostro parte così per una Russia che nell’epoca immediatamente successiva alla Perestroika dimostra solo molto superficialmente un mutare di tempi. Con parecchia determinazione e altrettanta ingenuità il protagonista dovrà presto rendersi conto che a dispetto della sopravvivenza di truci apparati di polizia e orrendi funzionari che li utilizzano, tutto in Russia si vende: corpi e anime, a voler ricordare la profezia di Bulgakov sull’inatteso Visitatore a spasso per Mosca. Con la differenza che di comunismo in giro ora non se ne vede più neanche un grammo. Sperduto nel dedalo di un labirinto che lo condurrà molto vicino all’ormai defunto scrittore, con la sensazione di essere continuamente sorvegliato, il professore finisce alla deriva di contatti umani untuosi e incerti, di notti di sesso retribuito in modo più o meno esplicito, di storie squallide o invece tragiche che gli renderanno chiaro il senso di esplosione psichica patito da Erofeev e dal suo piccolo mondo. L’evocazione d’ambiente di tutta una società in decomposizione e in caduta libera sul piano dell’identità, tra ricordi tragici e un presente ostentato di brutalità poliziesca, è condotta bene, con ombre nostalgiche per dimensioni affascinanti di un’altra Mosca del passato ed echi di una grande cultura in ostaggio di burocrati e piccoli profittatori. Quanto alle lacrime, ne troverà fin troppe – anche tragicamente genuine. Tra le opere dell’autore Giorgio Bona, i romanzi Sangue di tutti noi (Scritturapura, 2012), ricostruzione dell’omicidio del dissidente comunista Mario Acquaviva, Le cicale cantano nel nostro silenzio (A&B Editrice, 2019) e Da qui all’eternit (Scritturapura, 2021), sulla vicenda dell’amianto di Casale Monferrato.
Franco Pezzini
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È ambientato nella Russia post-sovietica l’avvincente e convincente romanzo, fra thriller e spy-story, «La lacrima della giovane comunista», Arkadia Editore, pp. 177, € 15,00, firmato da Giorgio Bona (1956), scrittore non nuovo alla narrativa “gialla”, se il risvolto di copertina lo presenta autore di numerosi articoli su “Thriller Magazine”.
Il protagonista, e voce narrante, è un professore genovese, slavista, dell’università del Piemonte orientale, che si impegna a far luce sulla tragica esistenza dello scrittore russo Venedikt Erofeev (1938-1990), dopo che ha ricevuto da un suo amico, Viktor Demanenko, portavoce del console russo di Genova, in procinto di tornare, controvoglia, in Russia, un ultimo regalo, «un’edizione russa, preziosa e introvabile», un «reperto di un grande scrittore russo che – aggiunge Demanenko – la storia non vuole riconoscere», Venedikt Erofeev: il suo capolavoro, «Mosca-Petuški», al quale «mancava qualche pagina e alcune non si riuscivano a leggere, come se fosse stato salvato dal macero o dalla censura degli anni duri del regime».
Con la promessa a Demanenko che sarebbe andato a trovarlo, quasi subito il professore parte da Milano per Mosca su una carrozza della Freccia dell’Est. All’arrivo, l’impatto con la Mosca post-comunista è sconcertante. Memore di una città diversa, conosciuta in visite precedenti, ora nota che si era del tutto occidentalizzata nel traffico e che non l’aveva «mai trovata così sporca Mosca. Provai molta tristezza nel vedere come era peggiorata in questi ultimi anni: sembrava avere smarrito la sua dignitosa facciata di grande efficienza, aveva quasi, per così dire, cambiato aspetto».
Per le sue ricerche spera nell’aiuto di un paio di amici: Ivan, brillante giornalista ormai in pensione, «uno dei privilegiati durante il comunismo», che aveva lavorato anche alla “Literaturnaja Gazeta”, e Olga, una bella ragazza dalla «testa dorata» e dalle «gambe scultoree», dal passato famigliare molto tormentato. Ma, quando li incontrerà, resterà deluso di entrambi. Infatti, Ivan confessa che non può essergli di aiuto perché quell’Erofeev non l’ha mai sentito nominare e che non lo conoscono «nemmeno gli addetti ai lavori», e da Olga «non una parola su Erofeev», nonostante parlassero «a lungo della Russia della grande svolta, del nuovo corso e di come la situazione era peggiorata», come, in mancanza di soldi, poter comprare le scarpe restasse «il miraggio di molti», di come Eltsin avesse venduto i russi agli americani «per una mazzetta di dollari», che la roba si trovava a prezzi inaccessibili e ai russi facevano «mangiare tutti gli scarti che l’occidente non può digerire». Solo in un colloquio successivo Olga dirà di credere che Erofeev allora non godesse «dei vantaggi di cui godono gli scrittori della sua generazione, ora completamente riabilitati dalla politica del nuovo corso».
Un consiglio, però, Olga glielo dà: di recarsi alla Cooperativa Scrittori di Pederelkino, il villaggio di dacie degli scrittori sovietici nei sobborghi di Mosca. Qui, il professore vince facilmente la ritrosia di una segretaria facendole scivolare nelle mani una banconota da cinquanta dollari (eloquente il commento: «Basta far correre la moneta e puoi comprarti la Russia») e riesce a consultare lo schedario, dove trova un fascicolo dedicato a Erofeev. Lo sfoglia, lo legge e apprende che Venedikt Erofeev era stato uno scrittore “maledetto”, che già «sembrava portare nell’etimologia del proprio nome lo stigma del suo profondo destino». Infatti, «in russo “Erofeiv” significa alcolizzato». Preso dalla lettura di quei documenti, decide di trafugarli.
Raccattando notizie qua e là, il professore vuole andare fino in fondo: cercare, a Petuški, l’amica intima di Erofeev, Tonia Petrova, per raccoglierne la testimonianza. E lei, quando lo vede, lo accoglie come «un angelo del Signore». «Sei il primo – gli dice – a cui racconto questa storia. Sei italiano e mi piacciono gli italiani. Piacevano anche a Venja. Lui era capace di creare, di inventare, di giocare con le parole. Questo entusiasmo, la fantasia, la voglia di creare l’hanno debellata come si fa con un brutto male. Ti avvelenano il sangue. Era caduto in un coma profondo dove scrivere era diventato impossibile. […]. Tutto questo lo aveva portato al disprezzo di sé. Se non poteva essere uno scrittore, nient’altro poteva accendere il suo entusiasmo».
Siamo nella Russia del “disgelo”, dunque in un clima che si immaginerebbe rischiarato dagli effetti della perestrojka e della glasnost promosse da Gorbaciov. Invece, il professore entra in contatto con una realtà torbida, minacciosa, insidiosa, terribilmente legata a un passato ancora recente, angosciato da diffidenza e paura. Perché in ognuno poteva celarsi un diavolo. Tale si rivelerà l’inquietante personaggio Arkadij Antropov, che sale sul treno alla stazione di Budapest, si installa nello stesso scompartimento del professore, dichiara di lavorare come funzionario presso il Ministero della Cultura di Mosca e, ai saluti finali, invita il suo compagno di viaggio a fargli visita in quella sede.
Così farà, il professore. Ma proverà sulla propria pelle come rispetto alla Russia sovietica inalterato fosse rimasto il ferreo sistema di controllo sociale, poliziesco, illiberale, antidemocratico, della Russia post-eltsiniana, cioè putiniana.
Paolo Fai
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Uno slavista e professore universitario subito dopo la caduta del muro si mette sulle tracce di Venedikt Erofeev, uno scrittore russo che è sparito nel nulla, che non è mai stato gradito alla nomenclatura sovietica e anche nel nuovo corso di lui è proibito parlare. Il professore parte per la Russia in cerca della memoria di questo scrittore per cercare di scoprire la verità sulla sua opera e sul suo destino. Di questo scrittore non si hanno più notizie e lui sembra inghiottito nel nulla. Il professore non immagina che in Russia si scontrerà con un pericoloso muro di gomma che rischierà di travolgerlo. Giorgio Bona ne La lacrima della giovane comunista racconta le peripezie del professore che sfida il nuovo potere russo per venire a capo della verità su Efrofeev.
«Erofeev è l’opposto dello scrittore che mira a programmare e organizzare una carriera, intento a conservare con scrupolo e attenzione ogni passo della propria scrittura. La rovinosa catastrofe di Erofeev che perde i suoi manoscritti in preda a deliranti crisi etiliche diventò leggenda. Era una sua abitudine smarrire i manoscritti, venderli per pochi rubli o in cambio di una bottiglia e disinteressarsene. Mosca-Petuski fu venduto per pochi rubli a un collezionista di samizdat e soltanto per caso un amico ne intuì il valore e lo fece trascrivere in una notte prima di restituirlo all’autore. Per decenni Erofeev, pur essendo una persona in carne ed ossa e pur scrivendo testi reali, era come se non fosse mai esistito. La sua figura non si materializza in questa storia ma diventa mito, leggenda. Naturalmente dopo la sua morte. Anche il protagonista del romanzo obbedisce come Erofeev agli slanci della coscienza con energia, rasentando inconsapevolmente il baratro di un incubo, camminando su una corda ad occhi chiusi sopra un precipizio. È il viaggio di un eretico che rimanda al suo alter ego il mistero, la poesia e il bisogno di una rivolta.»
Così Bona in un’intervista recente spiega la figura scomoda dello scrittore che il potere mette a tacere per sempre. A Mosca succede di tutto. Il professore viene ostacolato in ogni modo perché la verità sullo scrittore scomparso non deve venire a galla. Il romanzo diventa un vero e proprio noir con inaspettati colpi di scena e il protagonista arriva a pensare che Bulgakov non vaneggiava quando vide il diavolo a Mosca. La lacrima della giovane comunista è un romanzo avvincente. Giorgio Bona racconta con una scrittura incalzante un intrigo dal quale il lettore si farà coinvolgere fino alla fine. Venedikt Erofeev è uno scrittore da maneggiare con cura. In Russia chi cerca la verità su di lui rischia grosso.
«Di Erofeev non si sa più nulla da tempo. Le sue opere erano state censurate. Di lui non si avevano più tracce. Espulso dall’università, ex studente prodigio, trascorse un lungo periodo nei bassifondi della società, bevendo fino a diventare alcolizzato gravemente ammalato e in miseria».
Il professore se ne accorge durante il suo viaggio in Russa sulle tracce dello scrittore scomodo e proibito e scopre che anche il nuovo corso postcomunista incarna l’ideologia del male.
Il diavolo è ancora a Mosca.
Nicola Vacca
Il link alla recensione su Gli Amanti dei Libri: https://bit.ly/402z2uX
A. D. I tuoi ultimi due romanzi avevano un impianto storico sociale. In La lacrima della Giovane comunista hai deciso di darti al canone del noir. Puoi dirci cosa ti ha spinto a questo cambiamento di registro nella tua narrazione?
G. B. Tutto ebbe inizio quando lessi Mosca sulla vodka di Venedikt Erofeev, l’autore russo cui il libro è dedicato, pubblicato a metà degli anni 70 dall’editore Feltrinelli. Non si avevano notizie sulla vita di questo straordinario scrittore che sembrava inghiottito nel nulla. Qualche anno dopo, era il 1981, a Mosca, cercai sue notizie e qualche traccia della sua opera. Erano gli ultimi anni del socialismo reale e c’era ancora Breznev capo del governo. Chiesi informazioni a un caro amico giornalista che disse di non conoscerlo. Il sospetto che non fosse sincero mi balenò nella mente così a lungo da non farmi desistere. Fu un buon viatico. Tutto cominciò da lì. Un romanzo che ha preso corpo nella mente ed è rimasto in cassaforte per molto tempo. L’io narrante di questa storia nella figura di uno slavista appassionato, un professore universitario, parte improvvisamente per Mosca e si mette sulle tracce di Erofeev nel periodo appena successivo alla caduta del muro, in una città e in una realtà dove sono ancora evidenti gli strascichi degli anni precedenti. E il viaggio avviene in treno perché il treno ha un significato profondo nella cultura russa, perché non rappresenta soltanto uno spostamento, ma è un luogo dove accadono molte cose: si incontrano le persone più stravaganti, si dialoga, si raccontano i sogni, ci si scambia informazioni, si condivide il cibo e, perché no, anche una bevuta e una bella sbronza. I viaggiatori tra loro non si conoscono e questo agevola le confidenze. Nessun mezzo di trasporto è così pieno di significati come il treno. Si possono raccontare anche i risvolti più intimi della propria vita. Scrittori come Tolstoj e Dostoevskj lo vedono come una metafora della società e ha un ruolo ponderante nella letteratura russa. Anche il romanzo poema Mosca-Petuski di Venedikt Erofeev è un viaggio in treno che annulla spazio e tempo, sospeso nella disgressione delle stazioni attraversate tra sbronze esilaranti, stati di abbandono e di angoscia, colpi improvvisi di genio e di felicità, con trovate sorprendenti e meditazioni poetiche. Il treno è parte della vita di Erofeev. Per un periodo lunghissimo è stato un letto dove dormire, un rifugio per passare la notte, ma anche un simbolo tragico della sua esistenza. Anche il viaggio del protagonista del mio romanzo inizia su un treno e si chiude con un treno. Forse ho scritto, senza pormi il problema, un romanzo tipicamente russo. Qualcuno me lo ha fatto notare e devo dire che per me è motivo di orgoglio e lo considero un complimento.
A. D. Il tuo rapporto con la letteratura russa e anche con alcuni luoghi in cui l’azione si svolge non sono certo d’occasione. Puoi parlarci un poco di questo retroterra fertile con cui, forse, stavi meditando da un poco un ricongiungimento creativo?
G. B. La passione per la letteratura russa risale ai primi anni del mio percorso universitario tanto che mi iscrissi a un corso di lingua russa soprattutto con l’intenzione di affrontare la lettura dei grandi poeti come Osip Mandelstam, Marina Cvetaeva, Velemir Chebnikov, Anna Achmatova e Sergej Esenin in lingua originale. I poeti vanno letti nella loro lingua. Come diceva Dostoevskj in “Diario di uno scrittore” c’è sempre qualcosa di intrasportabile da una lingua ad un’altra che non si riesce a far rendere nei suoi aspetti e significati più profondi. Si riferiva a una traduzione di Gogol in francese che non poteva trasmettere quel senso di sottile ilarità e comicità profonda che rendeva soltanto nella lingua originale. Ecco allora che la lingua diventa un fiume sotterraneo, che viaggia sottopelle, come i versi di quei poeti amati. Nel 1981 a Mosca comprai l’opera completa di Sergej Esenin e Marina Cvetaeva, poeti, si racconta, che avevano gli abiti lacerati come la loro anima. Ma la loro opera si trovava, circolava. Chi ha detto che la Russia non amava i suoi poeti? Quante volte mi tornava in mente L’uomo nero di Sergei Esenin e ripetevo quei versi nella loro lingua perché erano di una bellezza e di uno slancio primordiale. Proprio Venedikt Erofeev sosteneva che un paese che non ha radici letterarie è un paese alla deriva, dormiente, come un ubriaco abbandonato sul ciglio di un marciapiede. C’era già qualcosa che mi portava verso il suo grande approccio alla letteratura. In una intervista un suo compagno di bevute diceva: ci svegliavamo la mattina e litigavamo per decidere che dovesse andare a prendere da bere. Per riuscire a decidere abbiamo cominciato una competizione letteraria che consisteva nel recitare i propri poeti preferiti senza fare errori. Recitavamo continuamente e quando uno di noi incespicava o commetteva un errore, allora doveva andare allo spaccio a comprare da bere. Per così dire, senza pretesa di fare accostamenti impropri e dire bestemmie, anche io ebbi questa folgorazione come Erofeev quando si avvicinò, dopo l’espulsione dall’università per aver scritto una satira contro la segretaria del Kom’somol (la gioventù comunista), con una passione travolgente rivolta ai poeti proibiti del regime come Osip Mandelstam e Marina Cvetaeva.
A. D. Al centro del romanzo c’è la figura mitica e fantasmatica di Venedikt Erofeev, uno scrittore di culto anche se non famosissimo da noi. In realtà la bella traduzione di Mosca-Petuski, fatta qualche tempo fa da Paolo Nori, aveva destato molto interesse. Perché hai deciso di ambientare la tua storia nel problematico passaggio d’epoca tra la fine del collettivismo burocratico e la “Russia in vendita” del nuovo corso eltsiniano?
G. B. Erofeev è l’opposto dello scrittore che mira a programmare e organizzare una carriera, intento a conservare con scrupolo e attenzione ogni passo della propria scrittura. La rovinosa catastrofe di Erofeev che perde i suoi manoscritti in preda a deliranti crisi etiliche diventò leggenda. Era una sua abitudine smarrire i manoscritti, venderli per pochi rubli o in cambio di una bottiglia e disinteressarsene. Mosca-Petuski fu venduto per pochi rubli a un collezionista di samizdat e soltanto per caso un amico ne intuì il valore e lo fece trascrivere in una notte prima di restituirlo all’autore. Perdecenni Erofeev, pur essendo una persona in carne ed ossa e pur scrivendo testi reali, era come se non fosse mai esistito. La sua figura
non si materializza in questa storia ma diventa mito, leggenda. Naturalmente dopo la sua morte. Anche il protagonista del romanzo obbedisce come Erofeev agli slanci della coscienza con energia, rasentando inconsapevolmente il baratro di un incubo, camminando su una corda ad occhi chiusi sopra un precipizio. È il viaggio di un eretico che rimanda al suo alterego il mistero, la poesia e il bisogno di una rivolta. Un uomo in bilico che nella sua lucidità e nella sua follia ritrova equilibrio dentro una disperazione assoluta. Prima che uscisse in Unione Sovietica, molti editori si adoperarono per la sua traduzione. Francese, italiano, spagnolo, versioni ceke, polacche, la sua opera entrò in moltissime librerie europee e d’oltre oceano. Se alla fine di questa storia sono riuscito a lasciare nella memoria del lettore una scia di grande complicità, di trascinarlo dentro questo viaggio così come Erofeev ha trascinato me, se ci fosse un effetto di ritorno raggiungendo i lettori che mi hanno trovato sarebbe bello che mi comunicassero quanto io mi aspetto, ecco, potrei dire: missione compiuta. La felicità sarebbe totale perché la prima grande gioia mi toccava nel momento della stesura di questo romanzo e cresceva man mano che procedevo Non avrei voluto mai scrivere la parola fine perché dentro ci stavo bene, perché appena ne uscivo sentivo di aver lasciato qualcosa, spento una luce per tornare a camminare nella penombra.
A. D. La lacrima della giovane comunista è sicuramente un romanzo ad alto tasso alcolico. Non si tratta del semplice recupero della ricetta segreta del micidiale cocktail di Erofeev per designare il titolo del lavoro, ma di continui riferimenti, ruminazioni, ossessioni dominati dall’uso via via più intenso della sostanza alcoolica, sino al climax drammatico delle ultime pagine. In fondo il lettore è avvertito sin dall’esergo in cui richiami il rapporto col bicchiere di Valerio Evangelisti a sorvegliare l’intera vicenda. Come hai affrontato il rapporto con questo topos letterario, questa eterna occasione per lenire e rendere lucida la mente?
G. B. Come riconosce il regista polacco Pawlikowski, autore di un documentario di 42 minuti, un prodotto artistico straordinario e incredibile che percorre le tracce di Venedikt Erofeev nella capitale russa nel periodo successivo alla caduta del muro, mostrando il risvolto tragico degli anni precedenti, riconosce nell’autore russo il figlio di un paese destalinizzato dove l’intellettuale è bloccato tra il rigore del regime e il peso insostenibile del passato letterario. Questa empasse trova una via d’uscita nell’alcol perché alzare il tasso etilico genera vitalità e forza per raggiungere onnipotenza letteraria rivisitando i grandi del passato, anche perché, in quella condizione, uno se li trova davanti, ne può parlare bene o male. La vertigine di Erofeev è l’estasi alcolica Un autore che sembra portare nell’etimologia del proprio nome lo stigma del suo futuro destino: Erofeiv. in russo significa alcolizzato. Bere è un modo tragico e nello stesso tempo divertente per perdersi completamente, un modo rapido per arrivare a un punto d’arrivo finale: quello della propria distruzione. La sfida al sistema di Erofeev è prima di tutto una sfida contro la proibizione dell’alcol. Nel dopoguerra si formò in Russia una cultura del consumo di alcol dove il bere non si limitava soltanto ai giorni festivi per brindisi e feste, ma si allargava anche alle giornate lavorative e avveniva nei luoghi di lavoro. Un consumo che aumentò durante il periodo dell’ottepel (disgelo) e della zastoj (stagnazione). La lacrima della giovane comunista è il titolo del libro e prende spunto da Mosca-Petuski che in questo fantomatico viaggio in treno, nel suo elogio alle sane bevute, la lacrima della giovane comunista è una preparazione alcolica surreale composta da vodka, acqua di colonia, lozione antiforfora, deodorante per i piedi e, se possibile, un po’ di verbena. dove il grottesco non si discosta poi così tanto dalla realtà. Pawlikowski, al contrario del professore nella mia storia, riuscì a trovare Erofeev al tredicesimo piano, interno 78 di un vecchio casermone di edilizia popolare. Il documentario racconta di una signora anziana che non sapeva del suo status di scrittore e soltanto in quell’anno, era il 1990, anno della sua morte per un tumore alla laringe che lo costrinse per diversi anni a parlare con un microfono puntato in gola, si resero conto che non avevano a che fare con un povero ubriacone e che era un illustre letterato.
A. D. Il potere fa quel che vuole con arroganza. Per Erofeev la marginalizzazione ha attraversato le ideologie perché la sua scrittura era evidentemente scomoda per tutti. Nel tuo romanzo a rendere in qualche modo giustizia alla storia travagliatissima, penosa e grandiosa a un tempo dello scrittore russo ci pensa un professore italiano, detective suo malgrado. La sua vittoria, in fondo, sta nel togliere dall’oblio una sofferenza attraverso l’incontro di altri sofferenti che l’anno conosciuto. Tra ruffiani, tirapiedi e doppiogiochisti sembra più potente l’ombra lunga dello scrittore russo che desiderava vedere il suo romanzo venduto al prezzo di una bottiglia di vodka…
G. B. Un io narrante nella figura di uno slavista, sicuramente non un barone universitario ma un personaggio che porta dentro di sé una grande passione. Non era difficile immaginare uno dei tanti scritti smarriti da Erofeev per creare una condizione di samizdat. Come diceva Vladimir Murav’ev amico di Erofeev e testimone della sua opera “ognuno ha un sottosuolo nell’anima e Venedikt giocava con le forze oscure che uscivano dal sottosuolo della sua anima. Ecco è quello che accade all’io narrante di questa storia che come Venedikt gioca con forze oscure a cominciare dall’inizio del suo viaggio in treno dove cominciano ad aleggiare spiriti che si materializzeranno anche dopo. Un io narrante quindi che va alla ricerca di Erofeev nella capitale russa, nei bassifondi, ma anche nei luoghi più letterari. Non a caso la descrizione della Malaja Bronnaja, uno dei luoghi cult della capitale dove nel romanzo di Bulgakov apparve per la prima volta il diavolo a Mosca. Oppure sulla Via Arbat, l’anima della città un tempo la via dei cortili e luogo d’incontro della grande letteratura e ritrovo dei cantori come Bulat Okudžava. Ma quello che lo porta più vicino all’esito della sua missione è la frequenza nei bassifondi di una società, quei bassifondi scelti da Eroffeev, dove stare ai margini della società non significava vivere da reietto, ma da uomo libero. Anche per questo andò via dall’università rifiutandosi di partecipare alle lezioni di educazione militare paragonandole alle pratiche del regime nazista. Posso chiudere qui dicendo che alla fine il mio romanzo avrebbe la presunzione di sfidare i muri della coscienza pervaso dall’ideologia di un viaggio delirante e passionale. Manca un febbrile delirio alcolico, ma al mio protagonista non è necessario bere per smarrirsi dentro un mondo drammatico e vedere un puntino luminoso all’orizzonte anche se si trova sulla soglia di una distruzione. Il mio protagonista scopre le carte e mentre gli altri le nascondono, lui senza mezze misure le svela. Come dice Erofeev: in questo silenzio il vostro cuore potrà parlare. È insondabile, mentre noi siamo impotenti. E allora, come Venedikt, io mi chiedo: perché la vita umana non è forse un ciclone dell’anima? È come se tutti noi fossimo ubriachi, soltanto ognuno per conto suo, a ognuno con un effetto diverso. Io dopo aver assaggiato questo mondo tante di quelle volte da averne perso il conto e il senso sono il più sobrio e questo mondo mi va veramente stretto. Ecco anche nel protagonista il mondo che si trova davanti va semplicemente stretto, soprattutto dopo aver vissuto l’esperienza di un diversivo di cui solo i moscoviti conoscono gli effetti. Quello che i russi chiamano il punto di smaltimento della sbornia, il vutrevitzel, ovvero una bella doccia a temperatura glaciale che si fa per far passare lo stato di ebbrezza e che nei mesi rigidi degli inverni moscoviti può provocare un arresto cardiaco. Questo sembra aver dato una folgorante lucidità, un impulso straordinario che diventa una sindrome bellissima.
Alberto Deambrogio
Il link all’intervista su Lavoro e Salute: https://bit.ly/3GSk3en