Alessandro Gianetti. La ragazza Andalusa. Arkadia Editore
Il più delle volte, sono i libri a venirmi a cercare, è come se intuissero, secondo quale legge sovrannaturale non saprei, di essere sulla buona strada per entrare nella cerchia dei miei favoriti. E, questo, spesso mi capita a scoppio ritardato, diciamo, coi miei tempi, i tempi di chi aspetta che si venga a creare un invisibile legame tra me (la mia attenzione, la mia curiosità, la mia empatia) e, in questo caso, il libro. Mi capita così, infatti, anche con le persone, ci possono essere mille occasioni di contatto, di avvicinamento, a volte perfino di condivisione, ma ce ne sarà una soltanto, che io chiamo “scintilla”, in cui la nostra attenzione verrà catturata con la testa, con la pancia e anche con il cuore. In questo caso, bisogna soltanto approfittare e gettarsi all’avventura. La ragazza Andalusa di Alessandro Gianetti (Arkadia – Senza rotta) ha fatto lo stesso percorso, a rilento, tanto a rilento che circa un mese fa, prima di acquistarlo, ho chiesto ad Alessandro quando sarebbe uscito il libro e lui, preso senz’altro dai turchi, mi ha risposto con la garbata calma, che gli è senza ombra di dubbio congeniale, che il libro era uscito più di un anno fa. Pazzesco! Pazzesco perché sono andato poi a rileggere i posts di un anno fa e mi sono ricordato, eccome. Insomma, tutto questo per dirvi che c’è voluto un anno per avvicinarmici e, una volta avvicinato, l’ho voluto e dovuto avere subito. Mi attirava come una calamita. Sarà che di Gianetti avevo da poco letto la sua traduzione puntuale e felice di un altro splendido libro, sempre di Arkadia, di Edgardo Scott, Lutto, sarà che il mestiere di traduttore è un mestiere d’amore nei confronti di ciò che si traduce. Sta di fatto che mi ci sono buttato dentro e lì mi trovo ancora, con mia grande gioia, in questo momento. La ragazza andalusa è la storia di un giovane adulto trentenne che decide di trasferirsi in Spagna e, precisamente, a Madrid. Viene descritto con un carattere mite ma deciso, affettivamente disincantato ma non privo di curiosità nei confronti dell’altro sesso, a tal punto da finire “imbrigliato” in una relazione amorosa. Per questa ragione, per il disincanto di cui sono pervasi i suoi dialoghi e le sue considerazioni, il personaggio del romanzo mi ha fatto subito pensare a Leo Gazzarra, il protagonista de L’ultima estate in città di Gianfranco Calligarich, entrambi infatti fuggono dai loro luoghi, entrambi senza avere idee chiare su ciò che vorrebbero fare, entrambi si legano a una persona fuori dal comune, ma estremamente bella (chissà perché ma le due cose vanno spesso insieme) e, soprattutto, malgrado ancora giovani, entrambi vengono “disegnati” sempre trasognati e già disillusi dalla vita. La relazione che intraprende il protagonista del libro di Gianetti lo costringe ad ampliare e ad allungare il suo “viaggio” dall’Italia, suo paese di origine, e raggiungere Siviglia con ulteriori tappe in altri luoghi che Gianetti ci descrive con la perizia di uno studioso paesaggista. Le pagine in cui descrive i suoi viaggi hanno qualcosa di magico, per la quantità di immagini che descrivono, e di emozioni e suggestioni che suscitano, “In mezzo a tanto nulla, le poche cose che scorgevo, una casa colonica, un uliveto, un ciuco, si separavano dalla loro oggettività fisica e galleggiavano in uno spazio che vibrava al calore del Sole, assumendo le sembianze di un miraggio. Il confine tra la Castiglia e l’Andalusia fu annunciato dagli alberi di eucalipto sul ciglio della strada. Le loro foglie oblunghe si accumulavano ai bordi di uliveti sterminati, che si alternavano ai campi di grano con le balle di fieno rettangolari, come enormi lingotti d’oro”. Per non parlare degli spostamenti all’interno delle due città. Io che ne ho calpestato i marciapiedi di entrambe, vi assicuro che sono state tantissime le volte in cui ho aperto Google Maps per rivivere quei luoghi straordinari, e straordinario è l’effetto che produce il suo modo preciso ma per niente pedante di descriverci vie, piazze, palazzi, monumenti, pub, bar. Sono tornato al Paseo del Prado, a Plaza de Santa Ana, alla Puerta del Sol, a Triana, in Calle San Jacinto. E non c’è cosa più bella di ricevere restituzioni geografiche così precise e riuscire a rivivere i propri luoghi del cuore, “Ci era venuto un certo appetito, e attraversammo il Barrio de las Letras per arrivare in Plaza de Santa Ana, dove la statua di García Lorca ci suggerì un posticino aperto fino all’alba, in calle del Prìncipe”. Perfino quando indugia sul corpo di Beatrix, si sofferma sui più piccoli dettagli, con un linguaggio peraltro talmente efficace da farci sentire lì, insieme a lei, “Erano piedi carnali e insieme metaforici, toccandoli non avevo la sensazione di sfiorare soltanto il suo corpo, ma di carezzare anche l’incomprensibile significato della sua presenza nel mondo, quel pulviscolo di colore, odore e geometria che aleggia intorno a una donna, una sensazione che indica fino a che punto ti puoi fidare, che induce in definitiva a essere ingannati”. Per questa ragione, questa sua passione per il particolare, questo suo indugiare sul paesaggio, sui colori, sulle forme, persino sulle sensazioni tattili, nel posare per esempio i polpastrelli sul corpo di lei, non è nient’altro che amore, e questo libro, malgrado l’aria disincantata del protagonista, malgrado il tema dominante di cosa possa significare vivere fuori dal proprio Paese, malgrado l’annoso problema occupazionale, è un libro che parla anche d’amore. Ma l’amore qui non è il fine, rappresenta il “motore” che lo aiuta ad andare avanti, che spinge il protagonista a osservare oltre la punta del proprio naso. L’obiettivo, se mai si possa dire che un libro debba avere un obiettivo, è altro, che io ho intercettato nell’importanza che il protagonista dà al ritorno, nell’ambito del viaggio in generale. Lui ci dice che il ritorno, da un viaggio, è una sorta di cartina tornasole del viaggio stesso e che un viaggio, di qualsiasi tipo, senza un ritorno non può essere raccontato e, di conseguenza, risulta monco, come amputato, “Senza il ritorno il viaggio non esiste, si dissolve, e io non desideravo la dissoluzione, aspiravo al contrario alla congregazione dei fatti e alla loro spiegazione”. L’autore sente il bisogno di verbalizzare questa considerazione che sta vivendo sulla propria pelle. Anche lui, infatti, è emigrato dal nostro paese, anche lui è senz’altro alla ricerca di qualcosa che possa dare una svolta alla propria esistenza, anche lui, infine, come il protagonista, ci riesce, trovano entrambi una “soluzione” attraverso la loro lingua madre, “Si torna sempre alla lingua, come nel mio mestiere di traduttore. Sprovvisto della lingua sarei stato come uno di quei satelliti che si lanciano per esplorare lo spazio profondo, senza una precisa data di ritorno: solo andata”. E questo poiché entrambi intraprendono un’attività che rinsalderà loro le radici, diventano cioè traduttori e attraverso la scrittura riescono a “tornare” a casa. “Finii per scegliere un modo diverso di tornare: scrivere. Si scrive sempre per tornare in un altrove, in un quando o in un dove. Scrivendo mi mettevo in viaggio, e viaggiavo in Italia. Era un continuo ritorno, per me, la scrittura”.
Riccardo Sapia
Il link alla recensione su Border Liber: https://bit.ly/3vdW3hz