Il patto funesto fra aspiranti capipopolo e l’uomo atomizzato degli ultimi decenni non è certo una specialità nostrana. È vero però che in Italia possiamo vantare un certo pionierismo, dal ’94 in poi, nell’evoluzione dei populismi post-novecenteschi. Del resto, quello che oggi è ormai un fenomeno globale e ampiamente digitalizzato ha le sue radici in un ambito molto concreto, che è la vita di tutti i giorni con le sue ingiustizie inevase. Così è la narrativa che può forse esplorare al meglio le ragioni esistenziali e materiali di una simile deriva del politico. Vi si è ora cimentato, ambientandolo in un microcosmo periferico della sua Firenze, l’autore e traduttore Alessandro Gianetti ne L’imbattibile lentezza delle tartarughe (Arkadia, pp. 112, euro 14).
È UNA PROSA dal ritmo placido e garbato, quasi una messa in atto del titolo, ad accompagnarci nella vicenda umana e ideologica di Davide Risatti, disoccupato di lungo corso e perfino «metodico», ex dipendente di un’azienda di elettroforniture. Come altri personaggi che animano il racconto dai bordi – il senzatetto Renzo, appeso a una quotidianità residuale sotto il ponte sul Terzolle, o la barista Giovanna, che ascolta suo malgrado le storie del quartiere – Risatti vive all’ombra di una sconfitta. La sua ritualità mattutina, che prevede la prima colazione al bar e la lettura dei giornali, lo porta però presto a riconoscersi negli editoriali di Girolamo Rovescio, «maestro nel concentrare la disillusione e la rabbia di chi si vede relegato nelle ultime file della vita». È come un germe che, una volta inoculato, prolifera e cresce fino a mutare la visione delle cose.
Sul versante pratico, Risatti si mette in testa di trasformare in giardino il cortile su cui affaccia l’appartamento in cui vive con la madre, per cui l’impresa sarà quella di convincere i vicini o, alla peggio, di imporsi in qualche modo su di loro. Questo anche per dare un ambiente migliore alla tartaruga Perpetua, che gli è accanto fin dall’infanzia. In lui, frattanto, le perorazioni ad alzo zero di Rovescio agganciano e nutrono il bisogno di rivalsa, fino a suggerirgli un «legame magico» con il giornalista e leader del neonato movimento MVP. A poco sembra servire che l’ex collega Ferriano Airaldi, rappresentante sindacale di categoria, preoccupato da certe sparate del Risatti si adoperi non richiesto per trovargli un posto alla Viplux, dove oggi lavora. La deriva del risentimento non conosce dapprima incrinature, fa sì anzi che il nostro venga ai ferri corti un po’ con tutti – la madre, che vuole dissuaderlo da passi incauti, i vicini stessi, che lui si prende la briga di visitare nei loro impieghi quotidiani, giusto per giudicarne le migliori fortune.
IL CULMINE del dissidio fra Risatti e il suo mondo si ha allorché, suggestionato dalla lettura de La giustizia agraria di Paine, o piuttosto da come Rovescio ne abbia tratto l’idea del reddito di base, il protagonista nega le evidenze che lo vorrebbero arreso: quella per cui la casa dove vive fu in realtà un regalo dell’attuale amministratore di condominio e quella, tanto più risolutiva, di un posto effettivamente offerto dalla Viplux grazie all’intercessione di Airaldi. Ma Risatti ha ormai deciso di «andar spedito»: non vuole più sentire le ragioni altrui, ne va delle proprie nuove certezze. Se c’è margine per una svolta, è forse in un ritorno a quelle vecchie, ma a noi, a fine corsa, rimangono più che altro una sbornia enigmatica e soprattutto il contraltare di Perpetua: poiché, mentre l’uomo si affanna, i tempi rettiliani della tartaruga hanno la calma sorniona di un memento.
Stefano Zangrando








