Da Venezia a Napoli, precisamente a Torre del Greco, si trova a muoversi il commissario di polizia Aurelio Di Giannantonio, romano di origine, trasferitosi a Venezia per amore, un uomo di poche parole, ma di fine osservazione. Nel viaggio in treno cerca qualche dettaglio che lo riporti a uno sconosciuto benefattore che a Torre del Greco gli ha lasciato casa e terre nel testamento. Ma è tutto inutile, quel nome non appartiene alla sua vita. Vuole incontrare il notaio, vedere di che cosa si tratta, risolvere rapidamente e tornare a Venezia dove ha lasciato la compagna un po’ preoccupata, soprattutto perché conosce il carattere di lui, che interviene dovunque, se individua una illegalità. Nei vicoli di Torre del Greco ha tutti gli occhi addosso: dovunque si sposti per cercare un posto per mangiare o per dormire già sanno chi è, perché tutti si conoscono lì o sono imparentati, e le voci corrono insieme alla curiosità. Un anziano calzolaio è sempre di vedetta sulla porta del suo laboratorio puzzolente, due sorelle conosciute in trattoria lo aiutano a trovare la casa isolata dell’eredità, felici di collaborare con un commissario venuto da fuori. Piano piano il suo soggiorno si protrae, perché, da commissario di polizia, non può rimanere indifferente davanti al manifesto su cui compaiono i volti di due sorelline scomparse sulla strada di casa. Come non può non farsi domande sugli strani movimenti nel piazzale dell’albergo, che lui, insonne, ha visto dal terrazzo nel cuore della notte. Nonostante quella sia una zona non di sua competenza, la sua etica professionale non gli permette di tornare a Venezia senza avere contribuito a fare chiarezza. Non è solo, ma presto si guadagna la fiducia dell’ispettore del commissariato di Torre del Greco, De Sanctis. Patrizio Nissirio ci porta in una storia dove l’omertà e il sospetto sono ovunque, dove la criminalità prolifera e i criminali stranieri fanno affari con i boss locali con ogni forma di illecito, dove la vita ha perso valore. Chi è il responsabile di un omicidio e ha deturpato la faccia del morto coll’acido? Che cosa ha ascoltato nel segreto confessionale Don Pasquale, che è morto poco dopo? Davvero un uomo si è impiccato o qualcuno lo ha tolto di mezzo? Perché non esiste traccia da nessuna parte dietro un nome di donna? Che cos’è “qualcosa che ha a che vedere con dei congelatori” e viene consegnato di nascosto? Chi sfrutta “la disperazione di chi ha bisogno di soldi” insozzando anche la propria professione? Addirittura il commissario finisce per rivolgersi, contro le regole, a un fuorilegge esperto d’informatica per andare avanti nelle ricerche, e questo gli pesa, deve essere solo una parentesi: “Ma sono un poliziotto, e quindi questa vicenda segna l’ultima volta in cui ho violato e violerò le regole che mi sono dato tanto tempo fa e che non ho fatto altro che disprezzare in queste ultime settimane. Da oggi torneremo a essere un funzionario di polizia e un delinquente. Simpatico e con competenze per me fantascientifiche, ma pur sempre un delinquente”. Del resto “come potevano due poliziotti di buona volontà sperare di vincere? Il nemico non aveva neanche contorni afferrabili, era un garbuglio di serpenti a sonagli: se sfuggivi a un morso alla gola, un altro rettile ti azzannava la mano”. Lo sa bene il commissario Di Giannantonio che ha visto troppo ed è diventato un ostacolo per la criminalità. In gita sul Vesuvio, “Il primo colpo fu al torace, poi un ginocchio. Poi ovunque. Scendeva a balzi sulle rocce sempre più in basso, verso la porta dell’inferno. Non pensava, ma con le mani cercava istintivamente un appiglio. Per un istante vide una fumarola, poi la vista si annebbiò per un colpo alla tempia, e per il vapore che lo circondava”. Un commissario “che era venuto in paese da fuori e per poco non ci aveva lasciato la pelle. E nel frattempo, suo malgrado, aveva scoperchiato diverse anfore piene di serpenti. Molti ne sarebbero stati contenti, alcuni, come dappertutto, sarebbero stati infastiditi, preferendo il non detto e il non saputo a una verità violenta”. Eppure, nonostante tutto, lui aveva cominciato a sentirsi a casa, come se quei luoghi lo avessero accolto. Ma in mezzo a tanti pericoli è riuscito a risolvere il suo problema personale, a capire la ragione dell’eredità? Ha mai visto quella casa in vita sua? Che fine hanno fatto le due sorelline e altri bambini scomparsi negli anni? Patrizio Nissirio tiene incollati fino all’ultima pagina, tutto legando con abilità, fino a disperdere la nebbia e le stratificazioni del tempo e riportare alla memoria del commissario Di Giannantonio una frase sussurrata a lui, ragazzino, da un uomo neppure parente, lo stesso del testamento. “Se avessi un figlio, mi piacerebbe che fossi tu”. Lì si trova la risposta all’eredità e alla scomparsa dei bambini. La bellezza del golfo di Napoli, l’immagine della penisola Sorrentina, di Capri, il profumo di mare, il cielo luminoso, il buon cibo, i rapidi e cordiali rapporti umani, la calda accoglienza del sud, contrastano con la violenza della storia, quasi a volerla mitigare.
Marisa Cecchetti
La recensione su TELLUS folio
Giorgio Bona, Volevo soltanto salvare le mie parole, Arkadia, Cagliari, 2025, pp. 204.
È un libro aspro, potente, terribile quello che Giorgio Bona consegna ai suoi lettori. Un libro che scandaglia gli ultimi mesi della vita di Mandel’štam, una delle voci più alte dell’universo poetico novecentesco, e lo fa con una prosa profondamente intrisa di poesia, spezzettando la narrazione con frasi che sono quasi versi, e che del verso posseggono a volte la crudele perentorietà. Ma lo fa anche con il piglio dello storico che vuole documentare ogni passaggio, appoggiandosi sulle fonti dell’epoca, fra le quali impossibile non ricordare le magnifiche memorie di Nadežda, la moglie del poeta. Ma lo fa, soprattutto, dialogando con i versi del poeta stesso, che tramano i sedici capitoli del romanzo, prima che il libro giunga al suo compimento con la bellissima lettera che Nadežda volle inviare al marito, sapendo che non l’avrebbe mai letta, il 22 ottobre 1938. Volevo soltanto salvare le mie parole è il titolo di questo libro tutto in bianco e nero, in cui già si riassume la sproporzione tra la fragile persona del poeta, armata solo di immagini e di parole, e l’impressionante apparato repressivo dell’era staliniana. E non è un caso se nel piccolo catalogo che il poeta riesce a salvare dopo tante peregrinazioni (siamo ancora nel secondo capitolo del libro), spicchino i nomi di Dante e di Tasso: uomini che avevano patito l’ombra del potere, anche se mai come lo stavano patendo i poeti russi scivolati a poco a poco nell’imbuto degli anni Trenta, dominati dalla figura del «montanaro del Cremlino, / l’assassino e il mangiatore di uomini» di due versi che certo molto costarono all’autore, e che ricorrono nello squallido dialogo che intercorre tra Mandel’štam e Pasternak. A volte, come all’inizio del cap. 3, la narrazione si fa concitata, al limite del monologo scenico: «Sparire! / Suicidarsi! / Dire basta! / Urlare basta con il corpo, perché l’anima è immortale». A volte l’autore indugia in particolari descrittivi che restituiscono il clima poliziesco di quei giorni, l’affresco di una Mosca «invasa dalla pellagra e dal tifo», dove l’aria «puzzava di fogna e di pesce marcio». Solo la figura di di Nadežda sembra poter alleggerire le tonalità scure del racconto, spostandolo sul piano degli affetti e della dedizione. E a volte, nella bruma dolorosa delle pagine, si insinuano ricordi di un altro passato, come quello dell’appartamento borghese di San Pietroburgo, dove la madre del poeta suonava il pianoforte o leggeva i grandi poeti del romanticismo tedesco. E dentro la trama del libro sono i versi del protagonista, le parole che esprimono non solo una resistenza morale ai tempi, ma una forza conoscitiva che oltrepassa i tempi stessi. E sta proprio qui il valore del libro di Giorgio Bona, scrittore che ha sempre evitato ogni forma di semplificazione dei fatti storici e sociali, cercandone i nessi profondi. Lungo i sedici capitoli del libro, fino all’Epilogo finale, non è solo lo sprofondamento di un poeta nello spaventoso laboratorio sociale del regime staliniano, ma anche una sorta di caduta dentro la bocca di quello che i tragici greci avrebbero chiamato un destino. Mandel’štam, il poeta che confessò di non appartenere al presente, sente a un certo punto del suo tragitto esistenziale di non appartenere più a nulla, come se questa fosse la scoperta più tragica del suo breve tragitto esistenziale. «Manca il respiro, il firmamento brulica di vermi, / non una sola stella parla», aveva scritto quasi vent’anni prima. E adesso, sul vagone che lo porta al campo di concentramento di Vtoraja Rečka, sente che «Il dolore, il male, non hanno vie d’uscita. / Soltanto vicoli ciechi», e che il «suo cuore era vuoto». A colmarlo, forse, sarebbero stati i suoi versi, o la strenua dedizione di Nadežda. «Addio» è l’ultima parola del libro. Ma in epigrafe avevamo già letto questi due versi premonitori: «Ho imparato la scienza degli addii, / nel piangere notturno, a testa nuda».
Giancarlo Pontiggia
La recensione su Zona di disagio
“Osip Mandel’štam come Anna Achmatova aveva imparato prima di altri cosa significasse l’epoca staliniana”, scrive Giorgio Bona in Volevo soltanto salvare le mie parole. E lo sapeva ancheMarina Cvetaeva: tutti e tre vivevano gli stessi problemi e condividevano gli abiti logori e consumati, “stracciati come la loro anima.” Mandel’štam (Varsavia 1891, Vladivostok 1938), poeta, letterato e saggista, da molti considerato il più grande poeta russo del Novecento, fu vittima delle purghe staliniane. Fu esponente importante dell’acmeismo, un movimento letterario nato in opposizione al simbolismo francese. “La sua popolarità era pari a quella di Vladimir Majakovskij, Sergej Esenin e con Marina Cvetaeva esprimeva grandi e nobili valori con la profondità e la bellezza dei suoi versi.” Era cresciuto in una benestante famiglia ebrea che non frequentava la sinagoga, aveva frequentato la Sorbona e l’università di San Pietroburgo, aveva viaggiato molto, anche in Italia, e pubblicato presto poesie che gli valsero la fama. Il primo maggio del 1919 incontrò Nadežda non ancora ventenne a Kiev; si sposarono tre anni più tardi e lei gli rimarrà sempre accanto, coraggiosa, tenace e innamorata. Con una importante bibliografia che contempla tutte le opere di Mandel’štam, quelle di Nadežda Mandel’štam, di Sergej Esenin, di Marina Cvetaeva, Giorgio Bona accompagna il poeta nell’ultimo anno di vita, quando ha occhi di spie addosso, ridotto a straccione affamato, malato, tuttavia dignitoso, che trova la forza nella scrittura, pur essendo questa la ragione della sua condanna. Infatti, pur aperto inizialmente alle idee socialiste come portatrici di progresso, si fa duro critico della politica staliniana. Se già il suo Viaggio in Armenia era stato criticato dalla Pravda per idee anticonformiste e di critica al sistema militare, nel 1933 l’Epigramma di Stalin definito da Mandel’štam “il montanaro del Cremlino” suggellò la sua rovina: “Viviamo senza sentire sotto di noi il paese / a dieci passi le nostre voci sono belle e perdute / e ovunque ci sia spazio per poche chiacchiere/ si porge un breve dialogo / là ti ricordano il montanaro del Cremlino / le sue tozze dita come grossi vermi / come ghisa le sue ferme parole / ti scherniscono i suoi occhi di blatta / brillano i suoi stivali.” Dopo l’esilio coatto a Voronež, un posto dimenticato dal mondo, dove ogni tre giorni doveva firmare la presenza nell’ufficio della milizia, rientra a Mosca, ormai non più accolto né accettato dall’Unione degli Scrittori, e nemmeno aiutato da Boris Pasternak, il suo direttore, “troppo utile all’apparato perché ne potesse perdere i privilegi” sostenendo Mandel’štam, e il cui lavoro “consisteva nella valutazione per il riconoscimento del valore di poeti e scrittori, ma forse non si fermava qui.” Ora “lo scrittore doveva passare, senza arte né parte, dalla parte del nuovo committente sociale”, altrimenti era perseguitato: “Seduta sul cadavere della poesia uccisa da Stalin e i suoi accoliti, la polizia segreta dava la caccia ai poeti, inseguiva i liberi pensatori, le anime belle e questa era la vera ragione della loro disperazione, della disperazione di Osip.” Ormai tutto ciò che scrive viene considerato contro il sistema; lui è minacciato e “invitato” a non scrivere più niente: i miseri sedici metri quadri dove vive vengono perquisiti e viene sequestrato ogni scritto che Nadežda non è riuscita a nascondere. “Era un sorvegliato speciale che sentiva la corda tesa intorno al collo da circa tre anni, aspettandosi da un istante all’altro l’arresto.” Inutili le sue richieste di un lavoro che potesse salvare lui e Nadežda dalla fame, poco quello che lei ricavava dalle lezioni private e dalle traduzioni, loro sopravvivono per la pietà di qualche vicino, si dividono un uovo regalato e un pugno di ceci. Camminando per le strade gelate con un cappotto rattoppato e le allucinazioni della fame, “si fermava ad annusare l’odore dei cibi che uscivano dalle cucine delle mense di Stato e osservare quei pochi, frettolosi passanti con la borsa della spesa fatta con la tessera alimentare.” Ciò che scrive, compresi gli studi su Dante, deve essere tenuto nascosto nella consapevolezza del rischio. L’alternativa è rinunciare a scrivere, obbedendo al regime. Non potevano aiutarlo Marina Cvetaeva e Anna Achmatova, anche loro “poeti imbavagliati. Lontani dai lettori. Narcotizzati. Senza parola”, a cui era impossibile affidare gli scritti. Ma Nadežda si mette con ostinazione a imparare a memoria i versi del marito. La poesia era “la spinta verso la disperazione, ma era anche il canto da elevare verso l’alto”, con uno sguardo verso la miseria, la sofferenza, ma anche la bellezza delle cose. Nella sua poesia, come in quella delle due poetesse, c’era sempre una grande dignità, “una fierezza che la volgarità dei tempi in atto non sarebbe mai riuscita a piegare.” E se il potere uccideva in nome della poesia, significava che essa era temuta. Purtroppo era arrivato il momento “della gente qualunque. La gente qualunque non è intelligente. La gente qualunque ama questo stato di cose. E allora l’intelligenza dovrà bussare per entrare.” Lo stalinismo era “una barbarie dal volto disumano”, il suo processo di avvelenamento della letteratura appariva inarrestabile. Vivere era un atto di coraggio, ma i sogni alimentavano ancora l’amore di Nadežda: “Aveva sognato una casa con una finestra aperta su una via piena di vita. Sognava una dispensa con verdure, latte e formaggio.” Rimaneva, a consolazione, la consapevolezza che “la poesia è il potere perché ha vigore, perché va oltre il tempo. Quando il poeta muore, continuerà a vivere nei suoi versi.” Pur nel dolore, se Nadežda “imparerà questi versi, ne farà una cassaforte della memoria, non sarà per il dolore e per la paura, sarà per la gioia e per la vita. Per la vita di Osip, per l’eternità.” Osip Mandel’štam muore nel 1938, sfinito, affamato, malato, nel campo di concentramento di Vtoraja Rečka presso Vladivostok.
Marisa Cecchetti
La recensione su Il pensiero Mediterraneo
Le ragazze e le donne di questo millennio nuovo sono più ricettive e irriverenti rispetto ai maschi, ed è inutile mentire: i ragazzi e gli uomini potrebbero ormai vivere le loro connessioni amicali, lavorative ed erotiche con il buco nero dell’internet. Risultato è questa sarabanda giocosa e pericolosa. Non che le donne non conoscano tutti i canali di questo “pozzo nero”, il web, ma sanno distinguere cosa è importante e cosa non lo è, a volte per caso. Quindi chi scrive non ha affatto paura se fra un po’, all’anagrafe, oltre al nome e cognome, ci sarà un distintivo internet, che sarà di quella persona fino alla fine. Ed è un piccolo esempio, in quella valanga in trasformazione, ma le donne raccontate da Elisabetta Spanu nel romanzo La terza notte con il gatto (Arkadia editore, 2025) sono ancora bisognose d’amore e di protezione, anche con gli uomini che sono in chat sempre a tramare, per sganciare un appuntamento dove non andranno mai. Flavia, una signora elegante, molto colta, che continua a studiare per il suo lavoro, sta piangendo tutte le sue lacrime per un uomo di nome Coco che è morto a causa di un incidente aereo. Non sembra il tipo che possa abbattersi, non ha paura di niente, forse a volare a questo punto, e questa angoscia amorosa è legata a una relazione adulterina con questo Coco, visto solo tre giorni. Anche se non ci fosse stata la conoscenza fisica, erano così avanti nelle confessioni chat che uno pensa subito a felici matrimoni virtuali senza più tanta ironia. Flavia sente il bisogno di dirlo al marito Juan, un buon uomo e padre di famiglia di Lena, concepita quando Internet non c’era. Flavia e Juan a Madrid, che per motivi di lavoro gestisce le trasferte con la Sardegna della moglie. E insomma, si punta tutto sul coraggio di Flavia di dirlo senza aspettarsi niente, a cominciare con le pagine di separazione. Questo futuro divorzio dà alla donna la possibilità di sperimentare, di frequentare donne che la seducono. Spanu imbroglia, perché l’incipit triste poi diventa una sequela di uomini, tutti diversi. Queste pagine goderecce non spostano però l’infelicità e la voglia di una stabilità sentimentale e economica. La terza notte con il gatto è un libro piacevole, di una scrittrice che ha letto molto e riesce a passare l’idea che umorismo e amore possono, sulla pagina, andare d’accordo.
Vincenzo Mazzaccaro
La recensione su SoloLibri
EstArte Maglianese continua a regalare cultura e riflessione nelle serate estive di Magliano de’ Marsi. Nel suggestivo scenario del Giardino dell’ex Asilo Masciarelli, l’Amministrazione Comunale guidata dal Sindaco Pasqualino Di Cristofano propone due nuovi appuntamenti con l’autore, per una rassegna che intreccia letteratura, giornalismo e arte. Il primo incontro è previsto per mercoledì 13 agosto alle ore 21:30, con la presentazione del libro Giotto – 7 caffè su un altro pianeta di Matteo Farge. Un’occasione per scoprire un’opera originale, dal titolo evocativo, che promette di condurre il pubblico in un viaggio insolito tra parole e immaginazione. All’incontro interverrà, oltre all’autore, anche Sara Panecassio, giornalista di The Walk of Fame Magazine. La serata sarà arricchita dalla lettura di Barbara Abbondanza attrice RAI-Melevisione. Il secondo appuntamento sarà lunedì 18 agosto, sempre alle ore 21:30, con la presentazione del libro Il lato nascosto delle storie di Roberta Di Pascasio, pubblicato da Arkadia Editore. Un’opera intensa che invita il lettore a guardare oltre la superficie delle narrazioni quotidiane. Al fianco dell’autrice interverrà la giornalista Roberta Maiolini, per un dialogo aperto sul potere nascosto delle storie e sulla scrittura come strumento di rivelazione. Entrambe le serate si svolgeranno a ingresso libero e rientrano nel ricco calendario culturale promosso dal Comune di Magliano de’ Marsi per l’estate 2025. Un’iniziativa che conferma l’importanza della lettura e dell’incontro con gli autori come momenti di crescita, confronto e comunità.
La segnalazione su Marsica Web
Nasce a Cagliari, città in cui si laurea in Filosofia. Si specializza successivamente in Psicologia a Madrid, città in cui vive. È stata una docente di Filosofia e Scienze Sociali. Nel 2009 vince il concorso Aquí empieza tu libro, bandito dal quotidiano “El País” in concomitanza con la Fiera del libro di Madrid. Da allora pubblica vari racconti, molti dei quali vincitori di concorsi, per varie case editrici. Con lo pseudonimo Lisa Elisa pubblica nel 2013 il suo primo romanzo Dodici chicchi d’uva (Happy Hour edizioni). Nel 2014 ha vinto il concorso Racconti di donne: relazioni fra generazioni, indetto dal Centro di Documentazione e Studi delle Donne di Cagliari, con il racconto Memoria colorata. Il suo racconto Lettera d’amore al mio datore è, invece, uno dei due finalisti al concorso di Rai Radio 1 Plot Machine. Nel 2019 e nel 2023 si classifica prima e seconda al Concorso per microracconti organizzato dal LEI Festival di Cagliari. Nel 2021 ha vinto il premio Alfredo Rampi con il racconto Insediamenti amorosi. Ancora nel 2021 ha pubblicato una raccolta di racconti brevi e brevissimi dal titolo Amores (des) plegados con l’Associazione Culturale Meninas Cartoneras di Madrid, sia in italiano che in spagnolo e quest’anno, con la medesima casa editrice, una breve raccolta di racconti intitolati Amori di scuola. Collabora inoltre con la rivista online “La Voce d’Italia”. Nel 2025 per Arkadia Editore ha pubblicato La terza notte con il gatto.
“Se domandassero di pronunciarmi sulla natura di questo romanzo non esiterei a definirlo un atto d’amore” ha scritto Giorgio Bona
Un uomo cammina a fatica di notte, piove. Siamo nella Mosca staliniana. Anni Trenta. Spie dovunque, tutto deve essere sotto controllo.
L’uomo che cammina è giovane, ma le gambe tremano; è malnutrito (vive di tè, fuma, qualche rara volta la moglie riesce a procurarsi e cucinare un pugno di ceci, altre volte un uovo, che divide col marito). Scrive poesie, non dovrebbe, non deve. Quando ci sono le perquisizioni nella topaia che puzza di muffa e che condivide con la moglie gli scagnozzi del regime, frugando tra le sue carte, non devono trovare poesie. Né devono trovare dell’inchiostro. L’ordine arriva da Stalin: le poesie dell’uomo non devono sopravvivere. Rischierebbe o il confino o la condanna a morte se ne trovassero. L’uomo si chiama Osip Mandel’stam. Soffre di cuore. Vive per la poesia. Quello che scrive, però, lo brucia nella stufa. Deve.
Avrete soltanto il mio cadavere, la mia poesia sopravvivrà su di voi.
Ha osato troppo. Ha definito Stalin “Il montanaro del Cremlino” dalle grosse dita come vermi e dagli occhi da blatta.
Accanto a lui la moglie Nadežda. Se la poesia di Mandel’estam non è stata dimenticata lo dobbiamo a lei, che impara a memoria i suoi versi.
Leggendo il libro di Giorgio Bona, pubblicato da Arkadia, Volevo soltanto salvare la mie parole si rivivono gli ultimi mesi di vita di Osip Mandel’estam (1891-1938). Meno famoso di Majakovskij e di Esenin, ma grande come loro.
Bona scopre Mandel’stam nel 1981, durante un viaggio a Mosca. Ne acquista l’opera completa, inizia a leggerlo, a chiedere di lui. Viene così a sapere che il poeta aveva vissuto gli ultimi mesi a Mosca, prima della sparizione e della morte in un campo di lavoro siberiano, Poi, una volta rientrato in Italia, Bona cerca tutto ciò che si trova su Mandel’estam. E dopo aver letto L’epoca e i lupi della moglie di Mandel’stam, Nadežda, comincia a pensare di scrivere un libro su di lui. Mette giù così una prima bozza, ma non lo convince. Aspetta, intanto scrive altri libri (romanzi politico-sociali come Da qui all’eternit o La lacrima della giovane comunista) finché arriva questa terza, ultima versione.
Sono pagine che commuovono. Mandel’estam è un uomo che sa di non avere futuro, ed è malato, ma al suo fianco ha una grande donna, Nadežda. Sebbene non riesca a reggersi in piedi il poeta non si piega, come non si piega sua moglie. Chiede aiuto ad altri poeti, che però lo evitano, è pericoloso farsi vedere con lui, solo Boris Pasternak gli allunga qualche rublo per poi, però, evitarlo. E quando lo ricoverano perché la miocardite peggiora sempre più, Mandel’estam, in ospedale, riceva la visita di Nikolaj Ežzov, Commissario del Popolo e braccio destro di Stalin, che gli dice: “Ho letto le sue poesie. Non sono granché. Anzi devo dire proprio che non mi piacciono per niente. Hanno ragione. Meglio che lei non scriva”.
Ma Mandel’estam non è un vinto. È disperato ed è soprattutto solo, certo.
Bona scopre Mandel’stam nel 1981, durante un viaggio a Mosca. Ne acquista l’opera completa, inizia a leggerlo, a chiedere di lui. Viene così a sapere che il poeta aveva vissuto gli ultimi mesi a Mosca, prima della sparizione e della morte in un campo di lavoro siberiano, Poi, una volta rientrato in Italia, Bona cerca tutto ciò che si trova su Mandel’estam. E dopo aver letto L’epoca e i lupi della moglie di Mandel’stam, Nadežda, comincia a pensare di scrivere un libro su di lui. Mette giù così una prima bozza, ma non lo convince. Aspetta, intanto scrive altri libri (romanzi politico-sociali come Da qui all’eternit o La lacrima della giovane comunista) finché arriva questa terza, ultima versione.
Sono pagine che commuovono. Mandel’estam è un uomo che sa di non avere futuro, ed è malato, ma al suo fianco ha una grande donna, Nadežda. Sebbene non riesca a reggersi in piedi il poeta non si piega, come non si piega sua moglie. Chiede aiuto ad altri poeti, che però lo evitano, è pericoloso farsi vedere con lui, solo Boris Pasternak gli allunga qualche rublo per poi, però, evitarlo. E quando lo ricoverano perché la miocardite peggiora sempre più, Mandel’estam, in ospedale, riceva la visita di Nikolaj Ežzov, Commissario del Popolo e braccio destro di Stalin, che gli dice: “Ho letto le sue poesie. Non sono granché. Anzi devo dire proprio che non mi piacciono per niente. Hanno ragione. Meglio che lei non scriva”.
Ma Mandel’estam non è un vinto. È disperato ed è soprattutto solo, certo.
Bona scopre Mandel’stam nel 1981, durante un viaggio a Mosca. Ne acquista l’opera completa, inizia a leggerlo, a chiedere di lui. Viene così a sapere che il poeta aveva vissuto gli ultimi mesi a Mosca, prima della sparizione e della morte in un campo di lavoro siberiano, Poi, una volta rientrato in Italia, Bona cerca tutto ciò che si trova su Mandel’estam. E dopo aver letto L’epoca e i lupi della moglie di Mandel’stam, Nadežda, comincia a pensare di scrivere un libro su di lui. Mette giù così una prima bozza, ma non lo convince. Aspetta, intanto scrive altri libri (romanzi politico-sociali come Da qui all’eternit o La lacrima della giovane comunista) finché arriva questa terza, ultima versione.
Sono pagine che commuovono. Mandel’estam è un uomo che sa di non avere futuro, ed è malato, ma al suo fianco ha una grande donna, Nadežda. Sebbene non riesca a reggersi in piedi il poeta non si piega, come non si piega sua moglie. Chiede aiuto ad altri poeti, che però lo evitano, è pericoloso farsi vedere con lui, solo Boris Pasternak gli allunga qualche rublo per poi, però, evitarlo. E quando lo ricoverano perché la miocardite peggiora sempre più, Mandel’estam, in ospedale, riceva la visita di Nikolaj Ežzov, Commissario del Popolo e braccio destro di Stalin, che gli dice: “Ho letto le sue poesie. Non sono granché. Anzi devo dire proprio che non mi piacciono per niente. Hanno ragione. Meglio che lei non scriva”.
Ma Mandel’estam non è un vinto. È disperato ed è soprattutto solo, certo.
Quella degli scrittori è una razza dalla pelle puzzolente e dalla cucina sudicia. È una razza nomade che dorme nel proprio vomito, cacciata dalla città, perseguitata in campagna, ma sempre e ovunque prossima all’autorità, alla quale concede un posto nei quartieri riservati alle puttane. Perché la letteratura adempie a un’unica funzione: aiuta i capi a preservare la disciplina tra i soldati e i giudici a massacrare i condannati.
Osip Mandel’stam voleva soltanto salvare le sue parole. Ce l’ha fatta, grazie alla moglie che memorizzava i suo versi (gli scagnozzi di Stalin a questo non avevano pensato) nonostante Ežzov, nonostante Stalin. “Se domandassero di pronunciarmi sulla natura di questo romanzo non esiterei a definirlo un atto d’amore” ha scritto Giorgio Bona. Infatti. Leggendo Volevo soltanto salvare la mie parole ci si imbatte nell’amore. In quello – smisurato – di Mandel’stam per la poesia, (la sua ma non solo, aveva sempre in testa Dante); in quello di Nadežda per il marito; e in quello di Giorgio Bona: un amore nato nel 1981 per le strade di Mosca e riversato nelle pagine di questo libro.
“Volevo soltanto salvare la mie parole”, di Giorgio Bona, Arkadia editore.
Remo Bassini
La recensione su Il Fatto Quotidiano
È sempre difficile dar conto in chiave di romanzo della vita interiore di uno scrittore, tanto più di un poeta: ciò che egli vede, ciò che per rifrazione vede il narratore stesso, deve restituire non solo fatti ma echi, toni, persino silenzi. L’operazione è possibile immergendosi nell’opera, magari traducendola nella lingua originale a scoprirne i ritmi e le pause: ma la sfida è resa più ardua dall’evocazione di contesti di vita estremi, lontani da quelli in cui fortunatamente viviamo e tali da mettere alla prova l’equilibrio stesso della scrittura – con il rischio di produrre un testo ostico al lettore.
Tutte queste considerazioni sono state chiare a Giorgio Bona nella scrittura di Volevo soltanto salvare le mie parole, un testo intenso e partecipe sulla caduta sociale del grande poeta russo Osip Ėmil’evič Mandel’štam (1891-1938). Bona attinge alle sue liriche, che in parte ritraduce e incastona, e alle memorie della vedova Nadežda Jakovlevna Khazina (1899-1980) che con piena partecipazione alla passione di lui ne tratterrà mnemonicamente i versi, lasciando uno struggente memoriale e tante lacrime. E nel dar conto di un testo scritto quasi in stato d’ipnosi e comunque in punta di piedi, con grande delicatezza e umana empatia, l’autore fornisce un’indispensabile bibliografia.
“Ecco il secolo belva”. Nelle pagine di questa storia, che è anche la storia di un corpo malato e sottonutrito che si sta spezzando, e delle umiliazioni che tuttavia finisce col reggere, incontriamo in modo diretto o meno i grandi nomi della letteratura russa del tempo, in parte amici di Osip, parecchi destinati a finir male – Anna Achmatova, Nikolaj Stepanovič Gumilëv, Sergej Esenin, Marina Cvetaeva, Velimir Chlebnikov, Vladimir Majakovskij, Vjačeslav Ivanov… – e in parte nemici o imbarazzati conoscenti come Aleksey Tolstoy cui Osip rifila uno schiaffone, o l’ambiguo Boris Pasternak che cerca di destreggiarsi tra piccoli aiuti e posizioni incensurabili con le autorità. “Quella degli scrittori è una razza dalla pelle puzzolente e dalla cucina sudicia. […] Perché la letteratura adempie a un’unica funzione: aiuta i capi a preservare la disciplina tra i soldati e i giudici a massacrare i condannati”.
E poi una selva di ombre, burocrati o sbirri che in qualunque momento possono fermare per strada o fare irruzione in casa, maltrattare, minacciare e – ciò che massimamente turba chi scriva – confiscare libri e opere, e addirittura il necessario per scrivere. Indicativa la rivendicazione del titolo: Volevo soltanto salvare le mie parole. Ombre, burocrati o sbirri, connotati fino a un certo punto nel farsi massa fungibile: una sorta di pluralità brulicante e volgare a costituire il corpo del qui invisibile ma sempre evocato “montanaro del Cremlino, / l’assassino e il mangiatore di uomini”, Stalin. E poi questa è una storia di stanze: quelle di casa asfittiche, minuscole, dove trascinarsi fragili o fare l’amore o riuscire impensabilmente a scrivere, e quelle di uffici e istituzioni davanti alle quali fare anticamera o nelle quali confrontarsi coi burocrati. Ma le stanze più segrete, in fondo, sono quelle della mente dove la poesia sboccia (in Osip) o viene custodita (in Nadežda): e lì gli sbirri non possono fare irruzione. “Avrai soltanto il mio cadavere, la mia poesia sarà più forte di te”.
Di Mandel’štam sono note soprattutto due foto: la prima giovanile (1914, ventitré anni), riportata qui anche in copertina, mentre la seconda è la foto segnaletica del 1938, all’epoca del suo secondo arresto, dove dimostra molti anni in più dei quarantasette effettivi. Ingrossato, sciupato, con gli abiti trascurati concessigli: si fatica a riconoscere l’elegante ventitreenne dell’altra. Ma questo invecchiamento di fame e vessazioni in stanze fredde e vuote dove, se proprio va bene, qualche vicina magari bussa alla porta a donare un uovo – e resta il sospetto che sia un’informatrice, in un intero panorama di spioni – è il tessuto di cui è fatto questo romanzo doloroso. Tra le cui pieghe, nondimeno, assieme a una grande storia d’amore di coppia, nel terreno ingrato di quella Mosca riesce a germinare intatta la poesia.
No, non appartengo al presente,
non mi conviene così tanto onore.
Franco Pezzini
La recensione su Carmilla Online