Mauro Caneschi presenta “Le Stagioni delle Illusioni” alla Feltrinelli di Arezzo
Arezzo — Lo scrittore Mauro Caneschi presenta il suo ultimo libro “Le Stagioni delle Illusioni” alla Libreria Feltrinelli di Arezzo. L’appuntamento è per giovedì 20 novembre 2025 alle ore 17:30, nell’ambito degli eventi organizzati dall’Associazione Scrittori Aretini Tagete.
Questa volta l’autore abbandona i sentieri della narrativa gialla e distopica che lo hanno visto protagonista con “La Chimera di Vasari”, “Le Figlie dell’Uomo” e “Il Codice Stradivari” per intraprendere un viaggio attraverso gli anni che hanno segnato un’intera generazione: quella dei nati a metà del Novecento. Il libro si presenta come un affresco vivace e documentato di un trentennio cruciale della storia italiana, dai giochi infantili, agli anni ’60, agli anni ’70, visti attraverso gli occhi di chi li ha vissuti a cavallo della propria giovinezza.
Caneschi, diplomatosi al Liceo Classico Petrarca di Arezzo e laureato in Chimica Pura a Firenze, porta nel racconto la stessa precisione descrittiva che caratterizza la sua formazione scientifica, ma la tempera con un’umanità straripante che sa alternare momenti ironici e personali – come le avventure in campeggio o le prime esperienze con il motorino – a quelli più drammatici di portata nazionale e internazionale, come la tragedia del Vajont o l’assassinio di Kennedy.
Già Segretario dell’Associazione Scrittori Aretini, ha ottenuto con il suo precedente romanzo “Il Codice Stradivari” il primo premio al Concorso Letterario Nazionale di Firenze “La città sul Ponte” 2024.
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Giovedì 6 novembre alle ore 19, presso l’Enobar Il Ciottolo, la scrittrice Roberta Poggio presenterà il suo romanzo d’esordio “Onora il figlio”, in un incontro organizzato dalla libreria BANCO Rivendita di Storie. L’autrice dialogherà con lo scrittore Carlo Carlotto.
La storia si svolge a Follero, paesino immaginario a vocazione rurale, i cui abitanti si trovano a deliberare sulla demolizione della chiesa principale. Da questa scelta prende avvio una vicenda corale che attraversa generazioni, intrecciando destini apparentemente lontani ma legati da un filo invisibile – forse un’antica maledizione.
Due donne senza un legame apparente, entrambe di nome Caterina Rambaldi, muoiono lo stesso giorno in città diverse. Nello stesso istante, Pietro, giovane destinato a una brillante carriera politica, entra in carcere. Ripercorrendo a ritroso le tappe che hanno portato a questi tragici destini, scopriamo a Roma la prima Caterina, giornalista affermata travolta da uno scandalo e madre coraggiosa di un sedicenne con gravi problemi psichici. A Genova, invece, conosciamo la seconda Caterina, ragazza fragile che lotta per sopravvivere tra lavoretti precari e problematiche familiari.
Emergono così le comuni origini a Follero, dove nel 1969 l’agguerrita Beatrice e i fratelli Antonio e Francesco Rambaldi convincono i paesani a demolire l’antica chiesa di Santa Croce. Il loro successo ha però un prezzo: per superstizione o giochi di potere, i folleresi li esiliarono. Ma dietro tutto questo si cela forse un antico anatema scagliato contro alcune famiglie in un passato oscuro e dimenticato, che pian piano riemergerà fino all’epilogo finale.
Un romanzo che intreccia memoria collettiva, misteri familiari e destini incrociati, tra campagna e città, passato e presente.
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TRAMA:
Andrea, ex carabiniere, reduce dalla strage di Nassirya, un matrimonio alle spalle e un’esistenza tormentata, vive con il cane Lizzie e si barcamena come meglio può. L’apparente routine viene sconvolta dal ritorno in città del Kosovaro, uno psicopatico con cui ha avuto seri problemi in passato, dalla comparsa di Fiamma, una giovane ragazza alla ricerca della propria amica inghiottita dal buco nero della droga e degli snuff movie, e dalle minacce che subisce da un insolito strozzino che vuole riscuotere un vecchio debito.
Sarà proprio il tentativo di aiutare Fiamma, però, a far recuperare ad Andrea un briciolo di rispetto per sé stesso, a scoprire che per lui c’è ancora una possibilità di redenzione. Ma, a questo punto, dovrà decidere come combattere una guerra che si profila pericolosa e sanguinosa, soprattutto con il Kosovaro. Il tutto si risolverà in un evento drammatico che segnerà, per sempre, i destini di tutti i protagonisti.
RECENSIONE:
Con NON TI DIRÒ MAI ADDIO Alberto Büchi offre un noir estremamente cupo, duro e graffiante, ma pieno di umanità.
L’ambientazione è una Milano insolita, che diventa quasi essa stessa protagonista.
Non è la solita Milano luminosa e frenetica che tutti immaginano, ma una città dei sobborghi tetra e cupa, dove corruzione, dolore e solitudine si intrecciano quotidianamente.
Qui, il degrado urbano si rivela nel volto triste della droga e della prostituzione, mentre ombre oscure si insinuano nella vita di ogni giorno.
Nonostante questi elementi facciano da sfondo a una vicenda difficile da digerire, questa parte oscura della città si intreccia saldamente al racconto stesso, diventandone parte.
Al centro della storia c’è Andrea, un uomo con un passato doloroso e traumatico che continua a tormentarlo.
Andrea era un carabiniere sopravvissuto alla strage di Nassirya; ora è una figura affascinante ma profondamente tragica.
Vive ai margini della società, imprigionato dai suoi demoni interiori. I suoi segreti e i suoi incubi verranno svelati pian piano nel corso della storia.
Contraltare è Fiamma: giovane e delicata, ma al contempo forte e sorprendente. In lei si racchiudono la speranza, il coraggio e la possibilità di redenzione.
Le due figure, così lontane ma destinate a intrecciare i loro destini, simboleggiano le due facce della vita: la durezza e la dolcezza, l’istinto di sopravvivenza e il desiderio di lasciarsi andare ai sentimenti.
Tra gli altri personaggi che popolano il romanzo emerge la figura del Kosovaro, uno psicopatico tornato da un passato lontano in Iraq, portando con sé ferite e drammi che Andrea ha tentato di dimenticare, ma senza successo.
Alberto Büchi affronta temi complessi — il trauma, la colpa, la violenza — ma anche il desiderio di affetto e di riscatto. Questi argomenti vengono esplorati con grande profondità, evitando di cadere nella banalità o nell’autocommiserazione.
La storia dolorosa di Andrea è raccontata con rispetto e, da noir che descrive un’indagine intricata e multilivello, il romanzo si trasforma in un viaggio introspettivo volto a scavare nel buio che ognuno di noi porta dentro.
Lo stile di Alberto Büchi è asciutto e incisivo. Le frasi, brevi e potenti, scandiscono il ritmo e creano tensione in ogni scena. Ogni capitolo è introdotto da brani di canzoni (si inizia con i Red Hot Chili Peppers e la loro “Under the Bridge”, per passare ai Coldplay con “Fix you”, facendo sosta con “Sally” di Vasco Rossi e terminando con i Placebo e la loro “Protege-moi”, solo per citarne alcuni) che fungono da contrappunto emotivo, quasi come la colonna sonora di un mondo in decadenza.
La scrittura è dura, non concede tregua al lettore, mantenendo un ritmo serrato e un tono sempre teso. Questa scelta stilistica rende il romanzo ancora più potente.
NON TI DIRÒ MAI ADDIO è, quindi, una discesa negli abissi dell’animo umano. Colpisce per la sua intensità e lascia nel lettore un senso di inquietudine da cui è difficile liberarsi.
AUTORE:
Alberto Büchi nasce a Milano nel 1978. Il cinema è il suo primo grande amore e dopo la laurea si traferisce a Londra per frequentare la New York Film Academy. Negli anni seguenti lavora in pubblicità come filmmaker e regista e insegna. Collabora come curatore di testi classici con Crescere Editore e come ghostwriter.
Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su antologie come Strane Visioni (Hypnos, 2016), il volumetto bifronte Demoni (Nero Press, 2017) e 80 voglia di ammazzarti (AlterEgo, 2020). Il suo romanzo L’Eroe delle Terre Morenti (Nero Press, 2015) è uscito negli Stati Uniti col titolo Frontier Wanderer (Caliburn Press/Siento Sordida, 2015). Nel 2016 ha pubblicato il romanzo Fuoco Fatuo (AlterEgo Edizioni). Nel 2025 è uscito il suo romanzo noir Non ti dirò mai addio per Arkadia Editore.
Giulia Capacchietti
La recensione su Thriller Life
Chi (il protagonista di questo libro)?
Il protagonista principale del libro è Marco Valerio Marziale, un ragazzo che parte da Bilbilis (nella Spagna Tarraconense) per Roma, col desiderio di diventare il più grande poeta latino del suo tempo. Del nostro poeta ho tentato di ricostruire un “autoritratto”, facendo tesoro di tutte le tracce, le più minute, che ha lasciato involontariamente nei suoi 1500 epigrammi. Della vita di Marziale sappiamo pochissimo; non fosse così qualche latinista ne avrebbe scritto la biografia. In realtà, quello che emerge dai suoi epigrammi somiglia a un’anfora rotta in mille pezzi, molti dei quali perduti per sempre e altri che non trovano più posto; per cui ho di necessità ricostruito le parti mancanti facendo ricorso a ogni piccolo riferimento negli epigrammi, ma anche ad accenni nelle opere contemporanee e nella storia di Roma del I secolo.
Perché (e perché scomodo)?
Perché chiamava le cose con il proprio nome e questo gli valse (e gli vale ancora) l’accusa di oscenità. Perché non aveva peli sulla lingua e non si preoccupava di prendere in giro e ridicolizzare tutto e tutti, ricchi e poveri, compresa la tracotanza del potere. Questo gli costò una vita di insicurezza, vissuta continuamente sul filo del rasoio. Buona parte della critica lo ha accusato di eccessiva adulazione del potere. Fu un adulatore, Marziale? Certo, doveva pur sempre dar conto alla pancia che chiedeva di essere riempita; ma lo fu, comunque, meno di Virgilio o di Orazio e certo molto meno del suo contemporaneo e rivale Papinio Stazio. Giovenale fu un caso a parte: diede piglio a tutto il suo sarcasmo e livore contro il potere, ma i bersagli delle sue satire erano morti da un pezzo e non potevano nuocergli più di tanto. Marziale provò, con qualche cautela, a prendersi gioco dei vivi e questo ne fece un poeta scomodo, facile bersaglio dei potenti che amavano essere lisciati e prestare il loro orecchio a un linguaggio castigato.
Cosa (quali i temi del libro)?
Sono i temi che emergono dalla vita di Marziale, dalla sua giovinezza (e poi vecchiaia) a Bilbilis alla sua esperienza romana lunga 35 anni. Tra i temi più presenti nei dodici libri di Epigrammi: l’amicizia fraterna con Manio, il suo compagno di giochi mai dimenticato (leitmotiv del romanzo); il sesso, le donne, l’amore in tutte le sue declinazioni, la generosità, il contrasto fra la povertà più indecente e la ricchezza più sfrontata, l’editoria, il rapporto scrittore/lettore; e poi, temi scottanti, allora come adesso, come la libertà di parola e di stampa nei regimi autoritari, la censura, il rapporto col potere. Venti secoli fa, Marziale soffriva delle minacce e della prepotenza del potere costituito come, ai nostri giorni, i giornalisti d’inchiesta più impegnati.
Fra i suoi 1500 epigrammi, ce ne sono certamente tanti licenziosi, al limite forse della scurrilità, ma mai osceni; diceva lo stesso poeta che non si può scrivere con un linguaggio pudico trattando di temi piccanti, come il sesso: sarebbe come raccontare una “barzelletta sporca”, mettendo il velo alle parole triviali: non farebbe ridere. Oltre a questi epigrammi, ce ne sono un numero ragguardevole dedicati all’amore, all’amicizia, alla fugacità della vita (il “carpe diem” di oraziana memoria), al dolore per una scomparsa prematura (celebre l’epicedio per la piccola schiava Erotion). E poi, Marziale non è mai acido; non ha la vocazione del moralista né del predicatore; gioca con i vizi dell’umano genere e si diverte, divertendo il lettore, con la segreta speranza che i suoi versi possano aiutarlo a saper guardare dentro di sé.
Dove e quando (nasce l’idea di questo romanzo)?
Mi trovavo a Roma per presentare alla Biblioteca Vallicelliana il mio saggio sui “Fondamenti linguistici e neurali della lettura ad alta voce” (Fioriti 2018) e, poiché ero in buon anticipo, decisi di fare un giro per le bancarelle di libri usati nei pressi della biblioteca. La mia attenzione fu colpita da un bellissimo volume di Giuseppe Norcio con le traduzioni del corpus completo degli Epigrammi di Marziale. Non ne avevo mai letto uno perché ai miei tempi a scuola raramente si affrontava Marziale e decisi che era giunto il momento perché anche un anglista dedicasse un po’ del suo tempo a questo “misterioso” poeta. Fu un colpo di fulmine che mi portò da lì a un anno a tradurre in siciliano una selezione di ottanta epigrammi (A mala sorti, A&B 2019). Mentre traducevo, avevo come l’impressione che il poeta fosse lì, accanto a me, a sorvegliare le mie bizze di traduttore. Per mesi, me lo sono sentito accanto, il fiato sul collo al punto da farmi sentire sempre più spesso il bisogno di capire come fosse fatto questo Marziale, com’era fisicamente, come aveva vissuto, quali scuole aveva frequentato, quali esperienze aveva fatto a Roma, chi erano i suoi potenti amici romani, se fosse mai stato innamorato, perché fosse andato a vivere a Forum Cornelii (Imola) per oltre un anno, perché avesse deciso di tornare nella sua Bilbilis dopo trentacinque anni di permanenza nell’Urbe. Insomma, sentivo il bisogno di dare un corpo, un volto e un’anima a quello che, giorno dopo giorno, era diventato un amico inseparabile. Da qui, ebbe inizio questa avventura bella ma faticosa; oltre alla rilettura minuziosa dei suoi 1500 epigrammi, a note e traduzioni e a centinaia di articoli sugli aspetti più vari della sua opera, c’erano da ricostruire la Bilbilis e la Roma del I secolo d.C., studiare decine di carte topografiche dell’epoca, leggere tutto quello ch’era stato scritto su Nerone, Vespasiano, Tito, Domiziano, su fontane, acquedotti, bagni, postriboli, cucina, cibo, taberne vinarie, taberne librarie, vita quotidiana, etc. Tre anni di ricerche e un anno di scrittura e “Il poeta scomodo” prese vita.
Perché (scrivere un romanzo su Marziale)?
Per almeno due buoni motivi: il primo, che Marziale, che mai avevo incontrato a scuola (neanche all’Università, malgrado i miei due corsi di latino alla Facoltà di Lingue moderne), mi aveva affascinato sin dal momento della scoperta dei suoi Epigrammi; il secondo, aveva a che fare con la mia convinzione che il nostro poeta avesse subito una qualche forma di ostracismo sia in vita che nei secoli successivi. In vita, perché osava, pur con qualche necessaria precauzione, mettere in discussione tutto; nei secoli successivi, perché la pruderie occidentale e il moralismo cattolico cui siamo stati educati lo aveva relegato tra i poeti scurrili, quando non osceni, inadatto alle giovani generazioni. Scrivere un romanzo su Marziale, pur con tutte le difficoltà che presenta la stesura di un romanzo storico, mi è sembrato alla fine un atto riparatore e un omaggio dovuto al suo genio poetico.
E per finire (5W + 1): quale ruolo può avere la scrittura (e la lettura) nel momento storico delicatissimo in cui viviamo?
La letteratura, l’arte, la poesia sono i migliori alleati della resilienza e Dio sa di quanta capacità di resistere ci sia bisogno per mantenere saldi i principi fondanti della nostra democrazia in un’epoca di profondi stravolgimenti, nella quale sempre meno numerosi sembrano quelli ancora capaci di ascoltare e comprendere. Scrivere un corposo romanzo storico in un periodo nel quale si legge così poco e in fretta è una sfida allo strapotere dei nuovi media che, con banale e volgare sufficienza, danno a intendere alle nuove generazioni che la cultura possa ridursi a qualche riga di informazioni. La lettura dei grandi testi aiuta a comprendere la realtà e l’uomo, attraverso i numerosi mondi che è in grado di evocare e le innumerevoli esperienze umane che riesce a far rivivere. Nella grande letteratura c’è tutto, e soprattutto c’è l’uomo con le sue ansie e i suoi desideri, le sue paure e la sua audacia, i dolori e le gioie, le emozioni che da sempre ci fanno uomini. La grande letteratura parla di noi, dell’uomo di sempre, di ieri come di oggi; e, come dice Marziale dei suoi epigrammi, “la nostra pagina ha il sapore dell’uomo”. Nei suoi oltre mille epigrammi, il lettore ci ritrova se stesso, i suoi amici, il padrone di casa lagnoso, il suo avvocato ingordo pronto a far causa per tutto, l’uomo perbene e il farabutto, l’onesto lavoratore e il perdigiorno, la generosità e la tirchieria, la stupidità e l’ipocrisia, l’amore e il sesso. Insomma, nei grandi testi, quelli che chiamiamo “classici, che non significa antichi, c’è la vita. E questo è già un buon motivo per scrivere di Marziale e per leggere i suoi epigrammi.
Scelti per voi
Perché mi porto a letto i Tristia? Perché mi danno conforto, perché raccontano i tormenti di un uomo privato della sua libertà, perché le sue parole rimbalzano nella mia vita come volessero darne conto. Perché raccontano la nostra condizione di pellegrini quando siamo sradicati dalla nostra terra; perché nella sua storia trovo, tutta intera, la mia. Il desiderio di Roma lo privò della terra dei Peligni, come privò me del Salone, ne fece un poeta invece di un avvocato; ma Roma divora i suoi figli senza alcuna compassione quando osano troppo.
La poesia, Marcella, si nutre di futuro e si sostiene sulle ali della libertà; non ci può essere poesia nella tirannide, né libero pensiero; guai a sfidare il potere, a mettere in discussione i suoi capricci: un carme può frantumare i tuoi sogni per sempre. Prendo i Tristia e leggo: «Quando rivedo triste la notte che vide le mie ultime ore romane, / quando ripenso a quella notte nella quale lasciai quanto più mi era caro, / ancora scendono dai miei occhi, amare, le lacrime.»
La notte prima della mia partenza, anch’io piansi salutando gli amici più cari e al pensiero degli altri che avevo abbracciato fra le lacrime nei giorni precedenti, e di quelli che non avevo potuto salutare perché lontani dall’Urbe. Anche quella notte, a Roma, già tacevano le voci umane e quelle dei cani al tempio di Quirino, e la luna cavalcava alta sul cielo i cavalli della notte, al galoppo verso il giorno chiaro. O lente, lente currite noctis equi. (p. 29)
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Il libro gli fu consegnato, ma non ne ebbi alcun riscontro. Forse, chiedeva di più. Avrei dovuto andare a scuola dal napoletano. Stazio era un maestro di adulazione. Ma era questo il mio destino? Scrivere bigliettini per i regali dei ricchi e arrendermi alla cortigianeria? Scrivere per un’aristocrazia che si compiaceva delle mie bagattelle o abbeverarmi alla fonte di Calliope? Posi mente ai miei epigrammi su Roma e i Romani; se non potevo avere agiatezza e potere, avessi avuto almeno la fama. Se non potevo ottenere l’encomio del potere, avrei ricercato l’applauso del popolo; e intanto, avrei indossato una maschera, sperando di non essere riconosciuto.
… All’inizio di gennaio dell’85, Domiziano assunse su di sé i poteri della potestà censoria e si fece conferire dal Senato la carica di censore perpetuo che diede l’abbrivio a tutte le sue manie moralizzatrici: ordinò la distruzione di tutti i libelli in giro nell’Urbe che prendevano di mira personaggi in vista e decretò la pena di morte per chiunque fosse accusato di favorire la divulgazione di notizie diffamatorie.
Che cosa fosse diffamatorio lo sancivano i magistrati, ma lo decideva l’imperatore. Proibì, inoltre, ogni rappresentazione di pantomime, e questo contribuì a dare ulteriore credito alla convinzione popolare che dietro l’assassinio di Paride, nell’83, non poteva che esserci lui. Da lì, a vietare ogni scritto che non fosse deliberatamente adulatorio nei confronti del potere, il passo era breve, tanto più che il Senato gli aveva conferito il titolo di dominus et deus. Contro un dominus si poteva anche scrivere e magari cavarsela con l’esilio, ma scrivere contro un dio era come impiccarsi con le proprie mani. (p. 195)
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Gli editti di Domiziano contro i libri diffamatori mi impaurivano: non avrei fatto nomi, se non immaginari, dei miei bersagli; d’altra parte, non erano le persone l’oggetto del mio scherno, ma i loro vizi, la loro depravazione, l’insincerità, l’ipocrisia, la tirchieria. A preoccuparmi era anche la castigatezza del linguaggio, che la censura dell’imperatore e la falsa pudicizia delle classi aristocratiche sembravano reclamare. Ma si può scherzare sulle nefandezze dell’umano genere con un linguaggio pudico? Catullo, Marso, Pedone, Getulico testimoniavano che non si poteva.
Ai carmi giocosi è imposta questa legge: non si gustano se non producono prurito. Lo insegna Catullo. Questi epigrammi erano giocosi; erano scritti per quelli che amano assistere alle feste di Flora e non arrossiscono quando si chiamano le cose col loro nome. Coloro i quali non amavano gli allegri sollazzi, invece di storcere il naso, potevano sempre starsene fuori dal nostro teatro, o uscirne, come fece una volta Catone, turbato dai mimi licenziosi della festa di Flora.
Quanto all’imperatore, bisognava che lo tenessi buono, ma senza esagerare: inclusi nel libro gli epigrammi sui giochi che gli avevo inviato assieme agli Xenia e gli rivolsi l’invito a guardare al libro con mente serena; anche lui amava gli scherzi e il linguaggio licenzioso dei mimi. Latino e Timele, i suoi nuovi beniamini, non erano poi più pudichi di me. Speravo che il suo ufficio di censore potesse permettersi di perdonare i miei scherzi innocenti: Lasciva est nobis pagina, Caesar, vita proba. Immaginai la faccia di Domiziano, il suo rossore presago di sventure, il suo sarcasmo: io offro Naumachie e tu, Marco, mi ripaghi con qualche epigramma? Mi sa che finirete nel Tevere, tu e il tuo libro! (p. 196)
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La notte prima della partenza dormii poco e male. Che stava succedendo? A quale rischiosa avventura andavo incontro? Mi ronzava in testa Lucano: “Tristi presagi ti agitano, il sonno ti fa tremare di paura”. Sembrava rivolto a me; ne sentivo quasi la voce, dentro la mia testa. Che potevo fare? Avevo altra scelta se non quella di seguire il consiglio dei miei amici più cari? Avrei dovuto sfidare i capricci di un tiranno che temeva persino le mie parole innocenti? Motti e scherzi erano consentiti anche ai soldati nei confronti dei loro comandanti ed erano permessi a mimi e buffoni, a Latino come a Timele o Pannicolo, che Domiziano riempiva di lodi e sesterzi.
A me, no, se non a rischio di finire a Creta o sullo sperduto isolotto di Serifo, come fossi un Cassio Severo che s’era burlato degli amici potenti di Augusto. Lesa maestà, la chiamano. Quello che fa un libello può farlo un epigramma; e io non avevo alcuna voglia di morire in miseria e solitudine.
All’incerto lucore della luna che attraversava l’imposta malmessa della finestra, mi apparve a un tratto il fantasma del mio Ovidio in lacrime a Tomi, sul mar Nero, strappato alla sua Roma, reo di offesa ai costumi degli antenati. Aveva ragione Frontone: il poeta? Pensaci bene, si vive male e si muore peggio. (pp. 206-207)
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La verità è figlia della libertà e non sempre, perciò, ha vita facile.» Raccontai a Camonio le ragioni che mi avevano portato a Forum Cornelii, mentre Faustino ci faceva servire dell’ottimo cecubo invecchiato dal suo amasio. Dissi che la satira esigeva libertà e che, quando questa vacillava, l’arte non aveva altra scelta che farsi scudo di una maschera per riacciuffare quei frammenti di verità che il potere negava; che da sempre la verità era concessa a mimi e buffoni purché indossassero una maschera, come accadeva per i Saturnali, quando a tutto il popolo dei pezzenti era concesso di spezzare le catene del silenzio.
«Il guaio è, caro Marco, che il poeta pretende di vivere sempre nel regno di Saturno, mentre i Saturnali durano una settimana, dopo di che dal Palatino si ordina il silenzio. E allora, se vuoi parlare, primum mentiri, solo le bestie non mentono tranne quando hanno buoni maestri; e anche lì, non di rado, l’istinto riemerge. Tu sei così, Marco, come le bestie; la verità è una tentazione cui non sai resistere e questo è pericoloso, come ben sai.»
Aveva ragione Faustino: far finta di essere quello che non sei ti riconcilia col mondo e tutto corre liscio come l’acqua del Tevere, torbida dei liquami della nostra cloaca, ma rassicurante nel suo lento e ordinato fluire. Non era così tutta Roma? Non era forse l’Urbe stessa un gran teatro? Nessuno è quello che appare; tutti giocano a camuffarsi per apparire quello che non sono. Anche i miei personaggi: il patrizio fallito si dà aria da gran riccone, ma non sa cosa mangiare a cena; lo sdentato e il calvo sfoggiano denti e capelli finti come fossero veri; la vecchia matrona, a furia di trucco, alla fine si crede una giovane attraente; Bassa ostenta la sua maschera da pudica, ma non c’è donna a Roma che non le abbia scaldato il letto; Celio, a forza di far finta di avere la podagra, zoppica. Persino il cibo mente, e il vino: le zucche si spacciano per funghi o salsicce e il vino di Marsiglia si fa bello in coppe di murrina. (p. 210)
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Tuttavia, mi rimisi al lavoro. Sapevo oramai che la libertà di un poeta era un vicolo strettissimo che attraversava pericolosamente i capricci del padrone: i miei osanna all’imperatore sarebbero stati il salvacondotto per i miei epigrammi. Do ut des: io avrei cantato la sua gloria, lui avrebbe perdonato i miei frizzi. Anche i miei lettori mi avrebbero perdonato se avessi giocato a carte scoperte.
Valerio Marziale ti saluta, o Cesare Augusto Germanico Dacico. Questo libro VIII celebra la tua gloria, ma permetti ch’io possa mescolare alle lodi della tua venerabile persona i miei giochi, che tanto allietano il tuo popolo; sicché ognuno ne trarrà un vantaggio. Il meglio di questo libro è dedicato a te, perciò imparerò a lasciar passare dalla mia bocca parole più pudiche e a implorare l’aiuto della tua Minerva.
Primun mentiri, caro Giovenale. Come diceva Faustino, solo le bestie non mentono e noi non siamo bestie; se mentire non farà di te un Socrate, non ne farà comunque un pezzo di carne per i cani. I tuoi versi, Decimo, sono dettati dall’indignazione? Impara a stemperarli col buon senso. Non facciamo così anche col vino? La giusta misura, questo è il problema. Mentire è un’arte sottile che va appresa bene. (p. 255)
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Roma mi aveva regalato le facili donnine della Suburra e dei suoi lupanari, carni facili, nessun sentimento che non ubbidisse al naturale istinto del momentaneo godimento, nessun legame che mi tenesse saldamente ancorato a un centro attorno a cui far gravitare la mia vita, nessuna Cinzia, nessuna Corinna, nessuna Licoride.
Ho affidato il mio corpo a donne alle quali mai avrei affidato la mia anima, donne che mi hanno procurato piacere e che ho ingiustamente disprezzato; Galla, Celia, Lesbia, donne che si offrono senza nulla pretendere, che non sia qualche sesterzio o qualche anfora di vino, che arrivano a un cenno della mano e non provano rancore quando, dopo una notte di godimento, le lasci senza un sorriso, senza un arrivederci; donne che vivono il presente e questo offrono ai loro clienti, senza progetti per il futuro né speranze segrete da covare nel cuore. Queste sono state le mie donne; non credo di aver mai desiderato altro.
Ho sempre amato la solitudine, le cose semplici, e l’amore mi è sempre apparso un affare complicato; non mi sarei divertito tanto se avessi amato, né avrei divertito gli altri. Non avrei scritto i miei libri di epigrammi, fossi stato innamorato. (p. 23)
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(Scontro con Giovenale)
Il tabernario servì il cibo e cominciammo a mangiare. A un certo punto si rivolse a me e riprese, con tono più rilassato, da dove aveva finito. «E tu, Marco, che ne pensi?»
«Penso», risposi sorridendo, «che sono venuto a Roma per fare il poeta, non per ingrassare i vermi.»
«Il poeta?», fece in tono ironico. «E per chi scrivi? Per i potenti? Per la gente? E di che scrivi? Degli spettacoli dell’imperatore? Dei regali che nessun povero potrà mai permettersi?»
«Tu avrai pure il tuo comodo, Decimo, io no. Devo riempire la scodella, prima. L’avevano piena Virgilio, Orazio, Catullo. Scriverò, quindi, la mia Tebaide? Forse no, farò come la mia Galla, che sempre la promette ma non la dà mai. Scriverò per la gente, amico mio, scriverò della vita, dei cieli sereni e di quelli burrascosi, delle cose belle, poche, e di quelle che belle non sono, tante. E non lo farò per solleticare i gusti di un popolino che tu consideri rozzo e meschino, ma per levare la maschera a stupidità e ipocrisia. Farò anche ridere i miei lettori, almeno lo spero – Giove sa se non ne hanno un gran bisogno – ma farò anche in modo che si guardino dentro e dicano: ecco, questo sono io, questo è il mio vicino di casa, questo è il mio padrone e questo è il mio avvocato. Non credo, Decimo, ch’io abbia la vocazione del predicatore né l’autorità del censore; è il vizio che mi interessa colpire, non le persone, perché, se sono poveracci, fai loro un brutto servizio e, se sono potenti, ti ripagheranno cogli interessi. Se per fare questo dovrò ammansire le bestie feroci, lo farò sperando di non finire divorato come Orfeo; sono loro a pagare inchiostro e pergamena e a imbandire la mia tavola; fingere qualche carezza non farà di me un poeta meno sincero.»
«Carezze, lisciature, finzione, insomma una maschera! E speri che ci caschino? Che ne dici, Canio?», chiese Giovenale. Canio rideva. Credo pensasse alla sua di maschera e al suo Ludus de morte Claudii. «La libertà costa, caro Marco», disse.
«Quanto, Canio?», chiesi. «Costasse meno della vita darei ragione a te e a Decimo, ma è così? Fosse così, a che ti servirebbe una maschera? In fondo, parlare dei morti non è così rischioso. Io conoscevo Seneca, è stato mio amico e benefattore e non l’ho mai visto giocare: un filosofo stoico somiglia più a un musone che a un giocoliere.»
«Siamo venuti a Roma per fare i poeti», proseguii, «e, su Giove, giuro che io lo sarò. Perché credi che la diano le puttane? Per il loro piacere? No, per il tuo, sicché, sbrigato l’affare, non starai a mercanteggiare sul prezzo e consegnerai loro la borsa senza neanche contare le monete.»
«E tu questo lo chiami un poeta, Marco? Una puttana?», sbottò Decimo.
«A giorni alterni, amico mio», risposi, «mezza puttana, mezzo poeta: l’una vale il papiro e l’inchiostro che serve all’altro per conquistare la fama e la gloria. Ogni cosa ha un prezzo e se vuoi acquistarla dovrai pagarlo.» Fu un vero e proprio scontro, alla fine del quale ognuno restò con le proprie convinzioni. Quando ci salutammo, gli raccomandai comunque prudenza, almeno quanta, pensai, ne aveva avuta Canio col suo ludus, ché quelli non erano tempi da lancia in resta. La mia fu quasi una profezia. Già alla fine di quell’anno, Domiziano diede l’avvio alla sua campagna di correctio morum, riportando in auge la legge Giulia, da tempo ignorata. (p. 186)
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Paolo Sessa è nato ad Avola (Sr) nel 1950; ha studiato Lingue in Italia, Francia e Inghilterra e vive a Milo, dove è stato anche Sindaco, da oltre cinquant’anni. Ha insegnato Lingua e letteratura inglese nei licei e co-diretto, fra il 1985 e il 1992, le riviste Etna Territorio ed Eolo. Da oltre venti anni, si occupa di Linguistica applicata e, in particolare, di voce e pragmatica della comunicazione nei testi letterari. Tra le sue pubblicazioni in questo campo: La voce materna, il feto, il neonato (Maimone, 2016), Suoni e voci nella Commedia di Dante (Società Editrice Dante Alighieri, 2016), La lettura, il Corpo, la Voce (Giovanni Fioriti Editore, 2018), Viaggio nella Commedia di Dante (Bonanno Editore, 2021). Per anni ha coordinato il Gruppo Teatro “Leonardo”, tenuto corsi di lettura espressiva per gli studenti dei Licei ed eseguito pubbliche letture della Commedia di Dante. La sua formazione umanistica legittima il suo interesse per la poesia e la scrittura creativa. In questo campo, ha pubblicato: la silloge di racconti Specchio delle mie trame (Giovane Holden, 2014), il poemetto Schegge di Sciara. Canto d’amore per la Sicilia (Maimone, 2015), Ntâ valigia di Natali. Poesia e dialetto (Maimone, 2017), A Mala Sorti. Epigrammi scelti di Marco Valerio Marziale tradotti in siciliano (A&B, 2019), Il poeta scomodo (Arkadia, 2025). Alla sua Milo ha dedicato studi e ricerche storiche: Monsignor Concetto Fichera nella sua Milo (Tipolitografia Dell’Erba, 2001), Milo. Viaggio nella storia di una comunità (Lussografica, 2005), Il Collezionista di immagini (Maimone, 2012), L’eruzione del 1950 (A&B, 2021), Mistero al mulino e altre storie (Algra, 2024), Milo e la Contea di Mascali (Algra, 2025).
La recensione su l’EstroVerso
Sassari. Dopo il successo estivo del Festival Ammajare, svoltosi a Siligo nel mese di agosto, il mese di novembre segna la naturale prosecuzione di quel percorso con il Festival Ammajare OFF: un ciclo di incontri pensato per portare avanti la riflessione su temi di grande attualità, in Sardegna e non solo. Un’occasione per continuare a comprendere il mondo che ci circonda e, al tempo stesso, per riscoprire le nostre radici più profonde.
Quattro appuntamenti alla Biblioteca Comunale di Sassari – Palazzo d’Usini, che intrecciano letteratura, memoria, identità e ricerca.
Si parte martedì 11 novembre con Franciscu Sedda – professore ordinario all’Università di Cagliari, docente di Semiotica della comunicazione contemporanea e Semiotica Culturale – che, con L’imprevedibile accade (Bompiani), offrirà una riflessione lucida e appassionata sul nostro presente, tra crisi e cambiamento, per comprendere come affrontare l’imprevisto che segna la contemporaneità.
Giovedì 13 novembre Gianluca Medas – giornalista e artista poliedrico – proporrà un reading tratto dal suo Emilio Lussu. Il cavaliere indomito (Edizioni Abba), restituendo la forza civile e morale di una figura simbolo della libertà e della democrazia.
Il 18 novembre, martedì, Giampaolo Cassitta – giornalista e scrittore prolifico – con La legge di Donna Matilde (Arkadia Editore), farà rivivere l’Italia del boom economico, tra ironia, musica e dolcezza, in un racconto che parla di speranza e di rinascita.
Chiude la sezione Off di Ammajare, giovedì 20 novembre, Rita Nappi, con Guaritrici sarde tra medicina, magia e inquisizione: un’opera che intreccia tradizione, stregoneria e medicina popolare, con la donna come protagonista di un cammino che unisce mistero, leggenda e memoria storica. Un contributo prezioso per comprendere la profondità delle radici culturali sarde e il loro legame con il presente.
Il Festival Ammajare OFF è promosso dall’associazione Intrecci Culturali, con il patrocinio del Comune di Sassari, della Regione Autonoma della Sardegna, del Sistema Bibliotecario Comunale, ed è reso possibile grazie alla preziosa collaborazione della Fondazione di Sardegna, della Camera di Commercio di Sassari, della Rete delle Streghe – Città di Siligo e della Libreria Internazionale Koinè.
La segnalazione su Sassari Notizie
Intervista ad Alberto Büchi, tornato in libreria con il nuovo romanzo “Non ti dirò mai addio”, un noir serrato pubblicato da Arkadia Editore per la collana Eclypse
Intervista ad Alberto Büchi, tornato in libreria con il nuovo romanzo “Non ti dirò mai addio”, un noir serrato pubblicato da Arkadia Editore per la collana Eclypse.
Il protagonista è Andrea, ex carabiniere sopravvissuto alla strage di Nassirya, segnato da traumi e fallimenti – seppur romanzata in alcuni flash-back, per la ricostruzione storica dell’attentato avvenuto nel 2003 lo scrittore ha coinvolto e intervistato un tenente degli alpini che era presente ad Animal House quel giorno.
Andrea vive ai margini, con il solo cane Lizzie, quando la sua vita viene stravolta da tre eventi: il ritorno del Kosovaro, psicopatico che riemerge dal suo passato; l’arrivo di Fiamma, una ragazza di diciassette anni alla ricerca disperata dell’amica scomparsa tra droga e snuff movie; e le minacce di uno strozzino deciso a riscuotere un vecchio debito.
In questo intreccio di violenza e ricerca di senso, Andrea scoprirà che forse per lui c’è ancora una possibilità di redenzione, e che le “cose impossibili” – affetti, famiglia, amore – non sono sempre irraggiungibili.
Alberto, il noir contemporaneo è spesso una lente sul disagio sociale e sull’alienazione urbana. Quali aspetti della società attuale hai voluto esplorare o denunciare in “Non ti dirò mai addio”?
Il mio romanzo racconta ciò che non si vede, un substrato che non sempre arriva al lettore o al pubblico. Una realtà violenta e difficile che, seppur romanzata, ho cercato di rendere il più possibile vicina alla realtà. C’è un ritorno all’eroina, purtroppo e per esempio, e non se ne parla molto, e anche una microcriminalità crescente, e lo strozzinaggio. Esiste, infatti, un mondo oscuro e brutale, fatto di motorini contro i muri, di giovani in overdose. E, come se non bastasse, la spietatezza sopravvive sempre. Detto ciò, esistono anche persone che vivono questa realtà ma la disprezzano, costretti a sopportarla perché, una volta saliti sulla giostra, una volta perso il senso della propria vita, è impossibile scenderne.
Andrea, il disilluso e nichilista protagonista, si è adattato a questa realtà. Lui stesso ha perso umanità (ma non del tutto) ed è rassegnato ad essere infelice, all’impossibilità di raggiungere cose che, nel “substrato superiore”, sembrano normali: una famiglia, un amore, una vita stabile.
Questi tre elementi si stanno rivelando irraggiungibili, per svariati motivi, anche nel mondo che ignora la violenza e la criminalità, quello che prima ho chiamato “substrato superiore”.
La violenza, nel tuo romanzo, è presente ma non gratuita. Come bilanci la componente cruda tipica del noir con la necessità di introspezione e umanità nei personaggi?
Con la caratterizzazione dei personaggi. Sempre Andrea, per esempio, è consapevole del mondo in cui vive e fa il possibile affinché Fiamma, la ragazzina che gli chiede aiuto e che rappresenta la scintilla, la luce, i colori che Andrea ha smarrito, non sfiori in alcun modo la sua realtà e la sua disillusione. Le fa da scudo.
Questo sentimento protettivo compone in parte lo smarrimento che prova Andrea quando la incontra. Non capisce i suoi sentimenti per lei.
La stessa Fiamma bilancia la violenza; lei, così giovane, matura e acerba allo stesso tempo, intelligente e forte di carattere, piena di sogni ora minacciati. Lei si contrappone al grigiore di Andrea. Per dire, lo stesso giovane corpo di Fiamma è un forte contro-bilanciamento ed è per questo che Andrea, quando la osserva, ne rimane turbato. Un mondo innocente e colorato, puro, che per lui non esiste più.
Inoltre, gli episodi di violenza sono in molti casi “richiami” ad un certo cinema come quello di Gaspar Noé.
Il mio primo amore è il cinema e un lettore che sia anche cinefilo potrà ritrovare molte immagini e scene di numerosi film.
Il Cinema “Luminal Oblio”, inventato, illumina la casa sempre nel buio di Andrea con le sue luci intermittenti blu e rosse e dona colore.
L’elemento della “cosa impossibile” come motore narrativo e psicologico è affascinante. Pensi che il noir sia il genere più adatto per raccontare le ossessioni e i desideri irraggiungibili dell’essere umano?
Il noir può ospitare qualunque tema. Pinketts mi diceva che nei libri noir deve sempre esserci un elemento “sociale”: io ne ho scelti due, la ferita ancora aperta dell’attentato di Nassirya del 2003 e, in generale, quella che tu hai definito prima “alienazione urbana”. Fiamma vive sul bordo di quel baratro, Andrea si trova laggiù in fondo e lo anima.
È forse il genere che più permette l’introspezione, perché è immediata. Un libro mainstream potrebbe metterci pagine per far capire un concetto o la psicologia di un personaggio. Non è un male, ma nel noir il lettore si aspetta sempre che il detective privato (per esempio) abbia un’importante profondità psicologica, per cui è sufficiente inserire una scena per rendere l’idea.
Le cose impossibili che ci fanno sentire sbagliati non sono altro che una parte di noi stessi che nascondiamo al mondo. Tutti le hanno. E aggiungerei che, in fondo, è solo l’epoca e la società in cui viviamo a dirci cosa è giusto o sbagliato. Azzardo a dire che non esiste il giusto o sbagliato in termini assoluti. È sufficiente come esempio guardare una qualsiasi delle battaglie a favore di certi diritti che animano il nostro tempo.
La “cosa impossibile” non è da intendere in senso negativo, è semplicemente la parte della nostra vita, di noi, che dobbiamo comprendere con l’introspezione e accettare, oppure superare, per smettere di sentirsi sbagliati.
Milano è un personaggio a sé, oscura ma capace di accendersi di luce e musica. Quanto conta l’ambientazione urbana nel tuo modo di costruire l’atmosfera e il ritmo della storia?
Sì, ho cercato di rendere la mia città un vero e proprio protagonista. Ho scritto per esempio: “L’odore di Milano aveva una propria massa, che si faceva largo tra i seni nasali e poi contro il palato molle, quindi nei bronchi. Un tumore che premeva dietro la faccia. [Andrea] Pensò che il peso di Milano non era altro che la somma della massa molecolare di tutte le schifezze che componevano l’umidità e lo smog… più l’odio e la ferocia delle persone che la abitavano.
Una Milano cattiva, ma perché composta da realtà tra le più disparate che non si conciliano. Ma non è una Milano da radere al suolo con tutti i suoi abitanti e poi ricostruirla, è una Milano che anela speranza. La speranza viene identificata con il personaggio di Fiamma, dai giovani che non devono perdere i propri sogni e il proprio essere. Il compito della generazione precedente (la mia, per esempio) è quello di preservare la loro vitalità e immaginazione.
E poi c’è il “Luminal Oblio”, il cinema che illumina di blu e rosso con la sua insegna la casa di Andrea, come dicevo prima. Che rappresenta un luogo sicuro, un luogo dell’anima per Andrea. La cosa che mi rende triste è che il “Luminal Oblio” non esiste. Però ci sono molti altri posti simili al Luminal, come per esempio “Il Cinemino”. Andatelo a cercare.
Il noir italiano ha radici forti, da Scerbanenco a Pinketts… Per concludere, in che direzione pensi stia andando il noir nostrano e quale contributo vuoi dare con la tua scrittura?
Ci sono molti bravi autori noir italiani. Cercate i loro libri con curiosità. Vi sorprenderanno. Scerbanenco e Pinketts hanno fatto tanto, così diversi, così legati a Milano. Ovunque siano ora possono stare tranquilli che la loro eredità è in buone mani. Basterebbe solo un poco più di fiducia negli autori italiani.
Il mio contributo è quello di raccogliere, nel mio piccolo e in silenzio, questa eredità aggiungendo il mio stile e le mie, a volte discutibili e forti, scelte narrative.
Francesca Ghezzani
L’intervista su Sherlock Magazine
A un mese dalla scomparsa, il tributo allo scrittore con una serata di letture e ricordi al Mondadori Bookstore.
MESSINA. Lunedì 3 novembre, dalle 18, la libreria Mondadori ospiterà un evento speciale in onore di Mario Falcone. A un mese dalla scomparsa, Messina celebra lo scrittore, lo sceneggiatore e il poeta ma anche l’uomo con “la sua ironia e l’umanità che – scrivono dall’organizzazione – ha saputo lasciare in ognuno di noi”.
Rientrato dopo una carriera da sceneggiatore che lo aveva portato a plasmare, con le sue parole e fantasia, fiction di successo per Rai e Mediaset, Falcone ha lasciato un segno indelebile in città. Dopo aver parlato del terremoto ne “L’alba nera”, alla sua città, che amava conflittualmente ma con passione, ha voluto dedicare “Leuta”, il suo romanzo del ritorno. A Messina auspicava la rinascita di un “circuito virtuoso che crei lavoro” anche grazie alla letteratura e ha contribuito a portare poesia scrivendone, ma anche partecipando ed ideando eventi come Un Ponte di parole. Non a caso, nel suo omaggio, Nadia Terranova lo ha definito un creatore di comunità.
Oggi quelle stesse comunità e città devono dirgli addio e lo faranno nell’unico modo possibile, con le parole e la poesia che ha lasciato.
Il ricordo avrà quindi inizio con un reading di alcuni suoi brani e poesie. “Una serata – spiegano gli organizzatori – di letture, racconti e ricordi condivisi, un momento semplice e sincero, aperto a tutti coloro che hanno letto, conosciuto o semplicemente amato Mario.”
L’invito è a partecipare, portando “un ricordo, una pagina, una frase — o anche solo la voglia di esserci.”
Giorgia Nunnari
La segnalazione su Lettera emme
Effe Elle ha scritto una recensione
Un appartamento, tre coinquilini, Cristina, Fabio, Giulia, la tesi su Kafka e un falsario
Mica capita spesso una recensione scritta quasi direttamente dall’autore. Alba del resto è laureato in filologia moderna a Catania e insegna lettere alle superiori a Torino. Scrivere gli viene facile e se lo troviamo al secondo prodotto narrativo in sei anni, ritiene di avere parecchio ancora da dire. Tanto che, nel presentare un romanzo così originale, personale, per niente già visto nello sviluppo dell’intreccio, ha voluto farlo precedere da “L’inizio” e chiudere da “Uscire di scena” (titoli del capitolo d’avvio e del finale), in cui di fatto recensisce il suo lavoro.
“Questa è la storia” di Cristina, degli amici di Cristina e della tesi di laurea di Cristina. È la storia di come queste tre storie, inspiegabilmente, siano diventate una sola. Questa è anche la storia di un paio di scarpe penzolanti appese a un filo, di un’edizione apocrifa di Kafka, di un misterioso traduttore e di un matto che affolla le videoteche romane. Soprattutto questa è la storia “di una sublime incazzatura, di un fallimento, di una grossa macchia di caffè, di una serie di incomprensioni che si sciolgono solo nel piacere della lettura, nel perdersi tra le pagine di un romanzo all’alba di un nuovo millennio che sta per cominciare”.
Infatti, si svolge nel 1999, alla vigilia del 2000 e con lo spettro del Millennium Bug.
“Riguarda, questa storia, le vicende personali di Cristina, di Fabio, di Giulia e di alcuni altri personaggi di carta e di finzione che affollano le pagine di questa buffa invenzione. Ma riguarda soprattutto i libri, che fra le buffe invenzioni sono sicuramente quelle più straordinarie con cui ci può capitare di avere a che fare”.
Sì, questo è il romanzo di tre giovani, due ragazze e un Fabio o, se vogliamo, di Giulia che coabita con Fabio che ama la coinquilina Cristina che a sua volta lo considera non più di un amico (generoso a letto) e cerca altri, non per forza bellissimi e sexy.
Oppure, questo è il romanzo di Cristina. Non si considera bella, non è quello che conta per lei, ma per Fabio lo è. Laureanda in lettere – in barba alle attese della mamma, prestigiosa professoressa di chimica che non apprezza gli studi umanistici ed è sempre esigente con la figlia e i suoi risultati – abita in un appartamento in affitto a San Lorenzo, Roma sud, con Fabio e Giulia, l’ultima arrivata, un anno prima, imbarcata e coinvolta, nonostante faccia di tutto per sembrare antipatica.
Non era stato affatto facile trovare una stanza, finché non l’aveva colpita un bigliettino diverso da tutti gli altri, formattati al computer, uguali, precisi, piatti. Quello era l’unico scritto a mano, con grafia femminile, coloratissimo, in tante lingue è con un recapito telefonico. Una camera singola in un bel palazzo d’epoca, a pochi passi dalla sua Accademia di belle arti.
Quando aveva visitato l’appartamento, si era presentata puntuale, com’è solita fare e loro si erano mostrati estremamente cortesi, anche troppo per i suoi gusti. Un concentrato d’insopportabile garbo, mentre lei è un po’ avara di cortesie.
Se Fabio non faceva altro che offrire biscotti, sistematicamente rifiutati, Cristina le aveva mostrato la camera, avvertendola che il termosifone non bastava. Giulia aveva un po’ scioccamente risposto di amare il freddo. “Mi fa sentire viva”. Ogni tanto si comporta in questo modo, le capita di dire cose fuori luogo e di sembrare asociale. Veste solo di nero, non ha mai avuto una storia con un ragazzo, nemmeno una ragazza.
Il romanzo è anche la tesi di laurea di Cristina, su Kafka. Lo scrittore boemo, le sue pagine, la vicenda della distruzione mancata post mortem delle sue opere, un falsario di scritture, vanno al passo con le vicende sentimentali, amicali, relazionali e giovanili dei tre protagonisti, con una marea di comprimari e comparse. Ultimi, due sconosciuti che si chiudono nel bagno, la notte di San Silvestro 1999, nell’appartamento in San Lorenzo mai tanto affollato.
Elle Effe
La recensione su Anobii