Il tema del Ethna, l’ultimo romanzo di Anna Bertini (Arkadia, 2025), è musicale. Anzi, è una canzone, Ethna’s Song. Intorno a questo tema, che ritorna puntualmente, come nel jazz, c’è l’imprevedibile assolo della vita di ciascuno di noi. La protagonista ritorna in un luogo, Castel Sonnino, dove aveva soggiornato in un periodo difficile della propria eistena. Si trova a dialogare con una sua doppia e a riscoprire la persona che era stata allora e che non è più. La musica tende il filo che le consente di non perdersi in questo viaggio a ritroso. “Ho cercato dentro di me un certo distacco, necessario per ripercorrere i giorni che hanno cambiato in modo radicale l’andamento della mia esistenza, e anche la mia indole”. Il jazz è il viatico per il suo rinnovamento. Ethna non è Anna. L’autrice dichiara espressamente che questa è una storia di fiction. Tuttavia, la filigrana richiama inconfondibilmente il profilo della Bertini. L’ho conosciuta personalmente e mi porto il ricordo di una sua aura singolare, un respiro cosmopolita che convive con uno sguardo familiare. Anna come Ethna sembra aver visto cose straordinarie ma che ha vissuto con una apparente non curanza. L’atmosfera, creata da una trama che riesce a trasmettere un alone metafisico alla narrazione naturalistica, mi ha fatto pensare alle Vele scarlatte (più il film di Pietro Marcello che il romanzo di Grin). Anche la profezia di grazia che Ethna Sarfatti rincorre, alla fine potrà compiersi. Si realizzerà l’augurio della lettera-canzone di Lucio Dalla. Sarà tre volte Natale. Può davvero accadere. Bisogna, però, avere il coraggio di guardarsi indietro. Senza rimpianti. “Il nostro strano mondo fiorentino l’ho sentito mio. E se ora torno non è per nostalgia. Piuttosto lo faccio per dare una nuova svolta. Mi sono convinta di un fatto: non si può attendere che sia la vita a svoltare per noi”.
Pasquale Vitagliano
La recensione su La poesia e lo spirito
Di Giorgio Bona avevo già recensito (e presentato) La lacrima della giovane comunista. Con Volevo soltanto salvare le mie parole, sempre pubblicato da Arkadia, rimaniamo in Russia e nel campo della letteratura russa, ma tornando indietro di alcuni decenni. Il protagonista è il poeta Osip Mandel’štam, portato in scena durante gli ultimi, terribili mesi della sua esistenza, fino alla deportazione finale nel gulag siberiano dove morì nel dicembre 1938 (sull’ultimo giorno di vita si incentra invece il racconto Cherry-Brandy, di Varlam Šalamov, autore del quale la scrittura di Bona possiede qui tutta la potenza tragica). Il titolo è una citazione del poeta. Ma anche il prologo e i sedici capitoli in cui è divisa la narrazione sono contrassegnati ognuno da uno specifico verso autoriale, che poi trova giustificazione in quel che accade nelle pagine successive. Brani delle poesie si trovano, peraltro, sparsi in tutto il libro, spesso tradotti direttamente (e bene) da Giorgio. La struttura narrativa è impostata come nel film che Stalney Kubrick trasse da Lolita di Vladimir Nabokov: all’inizio viene riferito quello che sarebbe il tratto finale del “segmento di vita” oggetto del racconto (l’uccisione di Quilty da parte di Humbert nel film di Kubrick; il “prelievo” di Mandel’štam da parte della polizia politica – sappiamo, purtroppo, per andar dove – nel romanzo di Bona), cui fa seguito, come un lungo flashback, il resto (o meglio, la parte in termini cronologici precedente) della vicenda, fino a quando viene ripreso (andando magari un po’ oltre) l’esordio dell’opera. Man mano che avanziamo nella lettura, vediamo il poeta – rientrato a Mosca dal confino di Voronež – aggirarsi per le vie della città, ridotto fisicamente all’ombra di sé stesso dalle privazioni. Ci era stato da subito mostrato lo “spazio angusto” (“sedici metri quadri scarsi” in un “labirinto di piccole stanze in coabitazione, dal soffitto molto basso, con una turca in comune”) in cui è obbligato a vivere con la moglie Nadežda. Apprendiamo ora del freddo, della fame e della conseguente debolezza fisica: infatti, i due coniugi sono ormai dei proscritti, per i quali non c’è possibilità di lavorare (e quindi di percepire uno stipendio con cui mantenersi). Perché un poeta tanto importante è finito così? Per una sua composizione satirica in cui si parla del “montanaro del Cremlino” circondato da “una masnada di gerarchi”, certo, ma ancor di più per la sua indipendenza mentale e artistica, per la sua incapacità di piegarsi ai dettami della “letteratura di Stato”, del cosiddetto Realismo Socialista. D’altronde, “Baffone” era spietato con chiunque non rientrasse nei suoi schemi, ritenendo – paradossalmente! – peggiori i trotskisti che non i nostalgici dello zar (il già menzionato Šalamov, trotskista appunto, fu, a partire dal 1929, ripetutamente arrestato e internato nei gulag, liberato nel 1951 – quando ormai la famiglia lo aveva abbandonato al suo destino – e riabilitato ufficialmente solo nel 1956, con Chruščëv). Si reca all’Unione degli Scrittori, dove, dopo una lunga, mortificante anticamera, viene ricevuto da Boris Pasternak, all’epoca importante poeta (una ventina di anni più tardi subirà una sorte blandamente simile a quella di Osip, dopo l’osteggiata pubblicazione – per i tipi del nostro editore Feltrinelli, che inutilmente Togliatti cercò di dissuadere – di Il dottor Živago). Non ne ricava nulla, se non l’elemosina di qualche rublo: nessuno degli autori graditi al Regime, con tutti i vantaggi che ciò comporta, vuole compromettersi per aiutarlo. Gli restano – dal punto di vista umano – gli amici veri, le poetesse Marina Cvetaeva (all’epoca, ancora in esilio a Parigi) e Anna Achmátova (anche lei coi suoi guai “politici”), che lo raggiunge da Leningrado (oggi San Pietroburgo) per una breve visita. Soltanto Nikolaj Bucharin, politico e scrittore dall’alterna fortuna, cerca di dargli davvero una mano, offrendogli un po’ di denaro e indicandogli la possibilità di una pubblicazione clandestina dei suoi lavori – prima di cadere definitivamente in disgrazia e di venire giustiziato (lo riabiliterà Gorbačëv nel 1988). Chi non lo abbandonerà né lo rinnegherà mai (fino alla propria morte, avvenuta alla fine del 1980) è Nadežda, che ne condivide tutti i disagi, ma si occupa anche di impararne a memoria – salvandole così dalla sparizione – le poesie. Dopo il 1938 campa, con espedienti e mezzi di fortuna, qua e là per la Russia, fino al 1964, quando finalmente le viene permesso di tornare a Mosca, da dove può iniziare il recupero delle opere e della memoria del marito, evocata in diversi, fondamentali volumi autobiografici. Eppure, malgrado tutte le sofferenze, malgrado le umiliazioni, Mandel’štam non demorde, non rinuncia alla poesia: “La poesia era la forza vivificante di cui lui viveva. Precisamente così. Lui non viveva per la poesia, viveva della poesia” ci dice Šalamov nel suo racconto. E, qui, Bona: “Ogni riga che avrebbe potuto scrivere, ogni verso che poteva riempire il foglio, sarebbe stata come sottrarre una sofferenza a quell’agonia sempre più forte (…) Non credeva nell’immortalità. Credeva soltanto nell’immortalità dei suoi versi. In quei momenti in cui ritornava la vita, la poesia fluiva nella sua testa come lo scalpitare di un branco di cavalli al galoppo (…) Alla fine del suo percorso era certo soltanto di una cosa: aveva vissuto per scrivere, soltanto la scrittura lo aveva spinto ad attraversare quella vita di stenti”. E, in proposito, mi viene in mente questo verso, di un altro poeta russo, Velimir Chlebnikov: “Quando stanno morendo, gli uomini cantano canzoni”. Dobbiamo dunque essere grati al poeta Osip Ėmil’evič Mandel’štam per essere tenacemente stato quel che è stato e per la qualità delle opere che ha scritto (i rimatori leccapiedi di regime non valgono nulla), alla moglie Nadežda Jakovlevna Khazina per aver “salvato le sue parole”, anche a beneficio nostro, e a Giorgio (non so il patronimico) Bona per averci regalato questo libro, che ritengo il più bello tra quanti ne ha pubblicati finora. Un libro indispensabile, anche come testimonianza, visto che da un po’ di tempo si vede sorgere, in Russia e fuori, una perniciosa tendenza a rivalutare “Baffone”, come Grande Guida e Grande Patriota. Ma anche no, grazie!
Marco Grassano
La recensione su ALIBI ONLINE
Alghero. Parte giovedì 10 luglio ad Alghero il viaggio di Mediterranea. Culture. Scambi. Passaggi. Il festival letterario ideato dall’AES – Associazione Editori Sardi, arrivato alla quinta edizione, proseguirà per cinque giornate con sedici appuntamenti tra incontri con gli autori, conversazioni ed eventi musicali. Il tema di quest’anno è “Abissi. Storie dal mare”, che invita a scoprire le profondità inesplorate dello scibile umano ed entrare in contatto con le storie. Il festival, con la direzione artistica di Simonetta Castia, è organizzato con il sostegno di Regione Sardegna, Fondazione di Sardegna, Camera di commercio di Sassari attraverso il network Salude&Trigu, Comune di Alghero e Fondazione Alghero, con il patrocinio e in partenariato con l’Azienda Speciale Parco Naturale Regionale di Porto Conte e un ampio parterre di istituzioni e privati. La prima giornata della rassegna, all’ex Mercato civico, partirà alle 19: a una breve cerimonia d’inaugurazione seguirà la presentazione di Adesso sì, di Roberto Delogu (Il Maestrale), avvocato e scrittore alla sua quarta opera letteraria; affiancato da Raffaele Sari racconterà il suo romanzo, l’insolita traversata di una altrettanto insolita famiglia lungo il Tirreno, dalla Sardegna all’isola di Marettimo nelle Egadi. Alle 20 il giornalista e analista geopolitico Matteo Giusti presenta il suo Africani brava gente (Paesionline), in cui decennio dopo decennio si ricostruisce la storia dell’Africa dal 1960 a oggi, dando voce a politici, golpisti, attivisti per i diritti civili, distinguendo finalmente in modo netto le colpe dell’Occidente da quelle degli africani. Alle 20.45 Patrizio Nissirio, responsabile di ANSAmed – servizio dell’agenzia di stampa sulle tematiche del Mediterraneo – presenta quindi Lava (Arkadia), con il prorettore dell’Università L’Orientale di Napoli Augusto Guarino: un romanzo che parla di memoria perduta, di luoghi in cui è facile smarrirsi e dell’illusione di pensare di non aver bisogno di nessuno, con il rischio di precipitare in un cratere e non risalire mai più. La prima serata si chiuderà alle 21.30 con il concerto “Musiche della diaspora del Mediterraneo” di Gabriele Coen (clarinetto) ed Emanuele Bultrini (chitarra). Gabriele Coen, polistrumentista, unisce jazz e musiche etniche, in particolare mediterranee e dell’Est Europa. Esplora il rapporto tra tradizione e innovazione nella musica ebraica e ha composto anche per cinema, teatro e TV. Emanuele Bultrini è chitarrista, compositore e cantante, attivo tra jazz, rock, elettronica e world music. Membro di Fonderia e La Batteria, suona con l’Orchestra di Piazza Vittorio. Ha composto per cinema e teatro e collaborato, tra gli altri, con Stefano Bollani, Mauro Pagani e Avion Travel. Il festival proseguirà l’11 luglio, ancora all’ex Mercato Civico, per spostarsi poi sabato 12 al Nuraghe Palmavera, domenica 13 a Villa Mosca e infine lunedì 14 alla libreria Cyrano. Tutti gli appuntamenti sono a ingresso libero. Il 10 luglio partirà inoltre la Summer School “Leggere Mediterranea”, ospitata a Villa Maria Pia, organizzata da AES in collaborazione con l’Università L’Orientale di Napoli e il Dipartimento di European Languages and Transcultural Studies (ELTS) della UCLA, con la direzione scientifica della docente Roberta Morosini (UCLA – Los Angeles), in collaborazione con il Mediterranean Seminar e l’Istituto di Cultura di San Francisco. L’appuntamento è destinato a docenti, studenti e a tutte le persone interessate alle tematiche sul Mediterraneo e che trovano nel “mare nostrum” il proprio spazio e un elemento comune. Alla prima giornata della Summer school interverranno Akash Kumar (Università della California – Berkeley), John Dagenais (Università della California – Los Angeles) e Augusto Guarino, prorettore dell’Università L’Orientale di Napoli.
Le segnalazioni su Sardìes
Il volume propone una visione originale e provocatoria delle dinamiche affettive, attraverso la filosofia S.A.S. – Stabilità, Amore, Sesso. In un mondo in cui l’amore è spesso caos, illusione o aspettativa, l’autore introduce una “formula” per comprendere e gestire i sentimenti, tra riflessione filosofica e osservazione della realtà quotidiana. Il libro si sviluppa a partire dall’equazione S¹ + A¹ᵗ + Sⁿ – una sola stabilità, un amore soggetto al tempo e una sessualità potenzialmente molteplice – per analizzare le diverse configurazioni delle relazioni umane, tra equilibrio, disarmonia e desiderio di autenticità. Durante l’evento, l’autore dialogherà con un’ospite d’eccezione, Eva Grimaldi, in un confronto vivace e autentico, condotto dal carismatico Massimiliano Medda. La serata sarà arricchita dall’ascolto di podcast ispirati al libro, con letture a cura degli attori Noemi Medas e Simeone Latini. Un incontro tra pensiero e narrazione, per chi vuole riflettere sull’amore con leggerezza, profondità e un pizzico di ironia.
“La bella virtù era mantenersi puri, evitare i cattivi pensieri, tenere le mani lontane da certe parti del corpo proprio e altrui, in poche parole si trattava di mettere a tacere le pulsioni e di rispettare alla lettera il sesto comandamento.” Questo è il pensiero di Felice, il protagonista del romanzo di Marisa Salabelle. La madre morta di tisi quando lui aveva otto anni, il padre commerciante che va su e giù per l’Italia, lui viene affidato al nonno materno insieme alla sorella più piccola; due fratelli finiscono in istituto e i parenti si prendono l’altra sorella, ma sono interventi a cui si prestano malvolentieri. “Se devi fare la vita del miserabile – gli dirà il padre – tanto vale che tu stia con me. Non ti posso garantire molto, ma un piatto di minestra l’avrai sempre!” Così tornano a Cagliari, dove avevano vissuto gli ultimi tempi con la mamma. Ma il padre si assenta e i due fratelli dipendono dalla carità dei vicini per un piatto di minestra. Viene tolto dalla strada da don Angioni e cresciuto dai Salesiani che lo fanno studiare. Era un bel giovinetto, quando con la sorella arrivò a Sanluri, a cinquanta chilometri da Cagliari in tempo di guerra, povero ma dignitoso, diverso dalla marmaglia proprio per l’educazione ricevuta, e non sfuggì agli occhi di Maria Ausilia, figlia di un medico e nipote di un notaio. Nonostante la differenza di classe sociale, la famiglia di lei acconsente al fidanzamento perché il giovane promette bene, e dal matrimonio nasceranno un maschio e due femmine: “La famiglia Serra-Zedda apparteneva alla migliore borghesia cagliaritana, e io chi ero? Un orfano, un figlio di nessuno, un bambino di strada.” Romanzo dalle molte voci questo della Salebelle, che si alternano e raccontano la storia secondo i vari punti di vista: l’arco temporale va dall’età di otto anni di Felice fino al suo ottantacinquesimo, e la narrazione non rispetta l’ordine temporale: a parlare sono la figlia di lui, Carla, la terza e la più attaccata al padre, quella che ne ha sempre condiviso l’amore per la letteratura; Maria Ausilia, lei che si è innamorata all’istante di Felice, che ne ha accettato le stranezze, che continua a discutere con lui su ogni cosa, a ripetere “accidenti a quel giorno,” ma non lo lascerebbe mai. E Felice stesso, fino al suo ultimo giorno di malattia, nonché il figlio di Carla, Kevin, che nel 2019 deve preparare la tesi di laurea. Di stranezze ne ha proprio tante Felice! “Bello era bello, intelligente, niente da dire, ma la vita che mi ha fatto fare! Perché una cosa che bisogna sapere di Felice è che era legato mani e piedi ai preti. Lo facevano studiare per carità, già che era povero in canna, e gli avevano riempito completamente la testa con tutti i loro discorsi. Un bigotto, ne avevano fatto. Rigido come un baccalà.” Queste sono le parole di Maria Ausilia che per i sette anni di fidanzamento ha dovuto accettare la bella virtù di Felice, che le stava accanto rigido come un baccalà. Lei ne era innamoratissima ma doveva controllare i propri gesti, lui si macerava dal desiderio, ma si manteneva distaccato: “Se allungavo una mano per carezzargli i capelli quasi quasi si ritraeva. Baci solo sulla guancia o meglio ancora sulla fronte.” Il matrimonio non lo ha cambiato, l’atto sessuale consumato come un dovere, nella penombra, senza che mai l’uno vedesse il corpo nudo dell’altro, perché, se il rapporto carnale tra gli sposi è finalizzato alla procreazione, “ci si doveva limitare a compiere l’atto fecondativo senza tanti fronzoli, altrimenti la bella virtù dove sarebbe andata a finire?” Quando la moglie rimane incinta non la cerca più “… perché non appena la nuova vita si manifestò in lei io non vidi più la giovane donna di cui mi ero innamorato ma una madre, simile in tutto alla Santa Vergine celeste.” Maria Ausilia lo sa che tutto dipende dai preti che lo hanno educato, quelli che gli hanno tolto la fame con fette di pane e marmellata, tanto da renderlo un pretino, perché era sempre attorno alla sottana di don Angioni. Anche se lo capisce scalpita per tutta la vita: “Non voleva contrariarlo, lo temeva. E la sua educazione cattolica la induceva a pensare che fosse suo dovere accudire il marito fino in fondo. Ma qualcosa dentro di lei scalpitava, avrebbe voluto ribellarsi ma non ne aveva la forza.” Continua solo a dire, accidenti a quel giorno. Con un arco temporale ampio una vita intera, il romanzo ci porta nella città di Cagliari devastata dalle bombe, poi alle trasformazioni sociali del dopoguerra, con la donna che rivendica il suo diritto di lavorare, i figli che difendono la propria libertà di scelta andando contro la volontà e i desideri paterni; ci porta a Pisa dove Felice ha la cattedra di Letteratura latina e greca all’Università, e fa entrare in famiglia un badante di colore. Felice non si adatta alle trasformazioni sociali, rimane rigido nei sui principi: non può accettare l’idea che suo figlio vada a vivere con una compagna perché ciò è immorale e peccaminoso, come non accetta le minigonne, i pantaloncini e i maglioncini attillati della figlia più grande. Perciò tiene molto alla educazione della più piccola: “La cosa che più mi stava a cuore, man mano che passavano gli anni, era di instillare in lei quella castigatezza, quella pudicizia che è indispensabile in una fanciulla beneducata.” Nonostante l’amore per Maria Ausilia, qualcosa di lei non gli va bene perché la moglie ha una personalità forte e non sa tacere: “La donna è il contrario dell’uomo, in definitiva, e il suo principale pregio consiste nell’essere docile e mite, ciò che la mia cara moglie non è e non è mai stata.” Man mano che seguiamo la vita di Felice e gli accadimenti anche dolorosi della sua famiglia, va avanti la ricerca di Kevin, la cui tesi di laurea prevede la ricostruzione dell’albero genealogico del nonno materno imparentato con famiglie importanti, fino a trovare il suo legame con la figura di un santo. Siamo ormai in tempo di Covid, Felice se ne è andato da “mammina” col rimpianto della vita, perché non è riuscito ad adattarsi all’idea della morte, nonostante la sua religiosità. Invece Kevin, ben lontano dalla bella virtù del nonno, interrompe volentieri la ricerca per spassarsela con la sua compagna: “Ora, però, non ti sembra che abbiamo lavorato abbastanza per oggi? Vieni di là con me, che ti voglio mostrare una cosa…” Come tutti gli eccessi, anche l’ossessione di Felice per la bella virtù, narrata dai familiari con oggettività ed evidente sopportazione, dal protagonista con indiscussa convinzione, finisce per scivolare nella comicità e far nascere un sorriso, rendendo simpatica questa figura severa fuori del tempo.
La segnalazione su Il Pensiero Mediterraneo