I GIORNI PARI
Maria Caterina Prezioso, nata a Roma nel 1961, autrice di testi teatrali e altri romanzi, ci consegna con I giorni pari edito da Arkadia Editore (198 pagg., 16 Euro) una storia coinvolgente e ben strutturata che si svolge nell’arco temporale che va dall’8 dicembre del 1940 al mese di giugno del 1955. Con una scrittura fluida e con una profondità emotiva capaci di coinvolgere il lettore, realizza un affresco ricco di chiaroscuri di un Paese, l’Italia, che stava vivendo anni feroci, quelli del fascismo, della Seconda guerra mondiale, della sconfitta e della rinascita. Nel mezzo una popolazione allo sbando consapevole del fatto che farsi valere è anche questione di sopravvivenza. Sara è una bambina ebrea scampata alla Shoah, figlia di una discreta concertista, Miriam, e di un farmacista, Gino, ebreo arianizzato. Miriam la donna che aveva finito le lacrime, Gino l’uomo del vedrai vedrai. Abitano al Ghetto in via Santa Maria del Pianto a Roma e sono ben consapevoli del fatto che, dopo l’emanazione delle leggi razziali, tutto sia cambiato e, all’improvviso, essi stessi siano diventati agli occhi degli altri poveri, brutti e, per certi versi, pure cattivi. Siamo nella fase storica della persecuzione patrimoniale contro gli ebrei italiani, uno degli assi portanti della legislazione razziale emanata dal regime fascista nel 1938. Sara verrà allontanata dalla scuola e trasferita presso l’abitazione di alcuni lontani parenti a Fondi. Qui crescerà in una dimensione marginale, lontana dalla guerra, diventerà una giovane donna e si sposerà, dibattuta tra l’amore vero per il bellissimo Leone e l’amore “costretto” per il fratello Giuseppe. Nello stesso periodo, in Val Melaina, zona dell’Agro romano, la piccola Silvana si ritrova a dover sopravvivere in una famiglia disfunzionale a causa di una madre anaffettiva, Caterina, cui non riesce a far da contrappeso efficace l’amorevole padre Domenico. Al sesto piano della scala C di quella casa popolare, Silvana ha una sola certezza: non vuole passare la vita ad aver paura. E paura non avrà nemmeno quando sarà condotta dal papà nel famoso sanatorio dedicato alla cura dei malati di tubercolosi, l’ospedale Forlanini, che diventerà il palcoscenico della sua esistenza per diversi anni. Nelle stanze della clinica, tra pneumotoraci e lastre radiologiche, da bambina si ritroverà donna innamorata, mentre all’esterno di quelle mura si compirà la follia di un dittatore per ignoranti. Attraverso le voci in prima persona di Sara e Silvana e le loro storie segnate da esperienze di abbandono e crescita in contesti familiari differenti, il lettore incontrerà una moltitudine di altri personaggi che risultano tutti ben definiti e che mantengono la loro concretezza pagina dopo pagina. Alcuni di questi potranno apparire fastidiosi e a volte ripugnanti, ma l’Autrice è abile nel mostrare cosa ha spinto ognuno nel punto in cui si trova, senza voler dare una giustificazione; il fine è quello di illustrare uno specifico spaccato socio-culturale. Si palesa da subito la solidità dell’ambientazione, sia che si tratti della descrizione dei luoghi sia che si tratti della fedeltà al contesto storico in cui ci muove. Il romanzo affronta temi universali come l’amicizia, il tradimento, l’amore, la lotta per la sopravvivenza, l’emancipazione femminile che è agli albori e che matura grazie alla conquista del diritto di voto. Sono storie di salvezza e resistenza, quelle di Sara e Silvana, a cavallo tra la Storia dei documenti e la fantasia autoriale, che sottolineano l’importanza del ricordo e della narrazione per mantenere viva la memoria di chi non c’è più. Già nell’esergo Maria Caterina Prezioso annuncia la sua intenzione citando un breve brano tratto da La lampada di Aladino di Sepulveda: “Perché se li nominiamo, e raccontiamo le loro storie, i nostri morti non muoiono”. Il ricordo condiviso attraverso la narrazione contribuisce di fatto a creare una memoria collettiva, mantenendo viva l’eredità di chi è scomparso. Siamo nell’ambito della letteratura testimoniale, funzionale alla comprensione di eventi storici e sociali ma, non per questo, priva di valore artistico. La narrazione coinvolge il lettore spingendolo a riflettere sulle conseguenze degli eventi trattati, contribuendo alla formazione di una coscienza civile e critica, specie davanti a domande come “ma è possibile che siano arrivati a tanto?” (pag. 137), “perché dobbiamo tramutarci in assassini dei nostri aguzzini? Perché dobbiamo per forza vendicarci di tutto quello che ci hanno fatto?” (pag. 138). Domande attualissime che tutti dovremmo porci davanti al genocidio di Gaza, per esempio. Ed ecco che la letteratura apre le porte e invita a guardarci dentro, in questi tempi di imbarbarimento politico e culturale, in cui la parola appare svuotata di senso e banalizzata all’inverosimile, le definizioni e le classificazioni sono tanto irrigidite da cancellare la memoria viva sepolta sotto la retorica della pedagogia della celebrazione. Sara e Silvana si fanno portatrici di esperienza affidandoci il pesante fardello della responsabilità individuale nella costruzione di un mondo più equilibrato e giusto, affinché l’agire umano sappia ancora offrire significati vantaggiosi alla Vita.
Mariella Medea Sivo
La recensione su Italia Vera
Altro giro, altra corsa: quelli di cui nel mio piccolo scrivo sono i libri che ovviamente mi sono piaciuti, che mi hanno lasciato un segno, un’impronta nell’anima. E poiché vendere libri è difficilissimo, cerco sempre in questo modo infinitesimale di dare il mio contributo. Dicevo libri che ti graffiano l’anima: tra questi c’è un romanzo letto ultimamente, I GIORNI PARI (Arkadia Sidecar) di Maria Caterina Prezioso. Un romanzo scritto con grande rigore stilistico e coerenza narrativa che ci porta nell’Italia del 1940/45, due storie nella Storia: sono gli anni del Fascismo, della Seconda guerra mondiale e l’autrice è abile nel raccontarci uno spaccato di quel periodo attraverso le vite di personaggi speculari: Sara e Silvana, uno specchio dell’altra. Non si conoscono, hanno esistenze diverse, ma danno voce agli effetti che quelle tragedie hanno avuto sul percorso di uomini e donne che ne sono rimaste vittime in maniera diversa. La storia è concepita in modo originale: Sara è una ragazzina ebrea scampata alla deportazione grazie ai genitori che la nascondono in un piccolo borgo, a Sperlonga, nel Lazio. Silvana invece nasce in una borgata di Roma, Val Melania, è povera e malata e vivrà gran parte della sua crescita nel sanatorio della città, il Forlanini. Il racconto della storia delle due ragazze, poi diventate donne, ci porterà a conoscere altri personaggi, alcuni di fantasia, altri realmente esistiti. Sono le “piccole” storie di vita vissuta, dunque, con le quotidiane battaglie per la sopravvivenza, le gioie e i dolori, le scoperte, la crescita e la maturazione, i rapporti intrecciati e negati, a mettere in rilievo il palcoscenico della Storia e dei suoi eventi, dalla sconfitta alla rinascita. A colpirmi è stata soprattutto la struttura narrativa, sempre documentata con cura, ma soprattutto i due personaggi femminili, delicate e forti, che non hanno imbracciato le armi per unirsi alla Resistenza, ma hanno combattuto ugualmente le loro battaglie con determinazione. Nella dedica, riporto quanto detto da Maria Caterina Prezioso in un’intervista (nel link) “A Silvana del mio ricordo. A Sara della mia immaginazione” ci sono due elementi fondamentali della mia scrittura. Il ricordo e l’immaginazione. Riuscire a creare attraverso l’elaborazione della memoria e con l’aiuto della immaginazione che è di per se stessa, appunto “immaginifica”, un tessuto nel quale il lettore possa entrare nel romanzo.” Intento nel quale l’autrice è riuscita benissimo: è un romanzo che si legge, che ci tiene legati alla tensione narrativa ed emotiva provocati dagli accadimenti nelle vite delle due protagoniste. Mi piace sottolineare che il romanzo è ambientato in un periodo di cui la stessa autrice dice “L’Italia non ha fatto i conti con il suo passato. Per questo oggi ci ritroviamo in una situazione di totale strabismo storico. Sicuramente accade non solo in Italia, ma in tutta Europa e paradossalmente in America. Ma il fascismo è nato in Italia ed è da qui che deve ripartire una stagione diversa, una stagione di rinascita democratica” Ne abbiamo un gran bisogno, quindi ben vengano romanzi come I giorni pari. Una lettura che coniuga il piacere di leggere una gran bella storia con il riscoprire che ci sono ancora autori e autrici che esplorano quel periodo storico vicino-lontano al quale dovremmo ripensare con meticolosa coscienza per vivere con consapeolezza i tempi bui che stiamo vivendo. Ricordarci il coraggio di quelle persone che hanno alzato la testa, con le loro esistenze “marginali” perché non entrate nel novero di coloro che hanno lasciato la firma alle loro azioni, ma che pure sono esistite con le loro lotte e scelte incisive (non ultimo nel romanzo si trovano vicende poco conosciute ma realmente avvenute). E come al cinema, del quale non mancano i riferimenti, alla fine scorreranno i titoli di coda, che metteranno in fila i protagonisti, quelli che ce l’hanno fatta e quelli che si sono arresi. E sarebbe bello vedere al cinema la storia di Sara e Silvana, scritta già come una sceneggiatura, con una penna padrona della tecnica narrativa senza mai una caduta o un inciampo: le due donne, una volta finito il romanzo, sono tra quei personaggi che non abbondano facilmente la memoria del lettore/lettrice. E non solo, anche molti personaggi secondari che lascio alla lettura di chi vorrà.
Daniela Grandinetti
La recensione sul blog di Daniela Grandinetti
Sinossi
Italia 1940-1955. Sara e Silvana, una specchio dell’altra. Due storie che si alternano per poi forse incontrarsi solo anni dopo. Anni vissuti l’una all’insaputa dell’altra. Anni feroci in Italia e nel mondo. Quelli del fascismo, della Seconda guerra mondiale, della sconfitta e della rinascita. Nel mezzo una Nazione allo sbando. Sara è una ragazzina ebrea che, scampata alla Shoà, troverà rifugio nel piccolo borgo di Sperlonga. Silvana, invece, è una ragazzina di Val Melaina, una borgata di Roma, immersa in una giovinezza delicata e povera che la porterà al Forlanini, il Sanatorio di Roma, luogo in cui tenterà di sopravvivere e diventare una donna. Attraverso le loro voci conosceremo gli altri personaggi, alcuni realmente esistiti altri di fantasia, le rispettive famiglie, le avventure di una stagione, la giovinezza vissuta nel periodo della guerra e gli accadimenti del periodo successivo. Come al cinema scorreranno i titoli di coda che racconteranno quale sia stato il destino di ciascuno dei protagonisti, quelli che ce l’hanno fatta e quelli che si sono arresi. Dalle loro voci ascolteremo uno spaccato di quegli anni, di un’intera stagione che, per quanto si voglia provare a dimenticare, ritorna spesso con un’attualità sconcertante.
La segnalazione su Il Libraio
Il romanzo di Maria Caterina Prezioso affronta la storia attraverso due differenti punti di vista: il Ghetto e la periferia di Roma. Come a segnalare l’andamento binario della realtà stessa
I giorni pari (Arkadia, 200 pagine, 16 Euro), romanzo di Maria Caterina Prezioso, è racconto di una vicenda dall’andamento binario: le vite delle due protagoniste, Sara e Silvana, coronate dalle rispettive costellazioni di persone, corrono ciascuna lungo il suo tra(gi)tto e paiono incrociarsi (ma è un’amena fola o l’illusorio coronamento di un desiderio dei lettori) solo alla fine, al di qua del guado. A libro chiuso viene naturale ragionare proprio su quel sintagma: i giorni pari. E dopotutto, scorrendo le indicazioni temporali che segnano, su un ipotetico calendario, le tappe salienti dei quindici anni in cui si svolgono le storie, e intanto si dipana la Storia del nostro Paese, si fa caso al fatto che si tratta sempre di giorni pari. Ma sentiamo che non basta. Le pagine sono lì, sotto il nostro sguardo che divora le vite di queste due donne di cui seguiamo l’evoluzione: da bambine a ragazze a giovani adulte, e subito abbiamo la tentazione di sostituire i giorni pari con vite parallele, anche se non alla stessa maniera in cui Plutarco intendeva questa espressione. E poi sentiamo che l’altalena tra le loro vite alterna centro e periferia a Roma; e Roma alla costa tirrenica; il mare e la sua aria salubre alla cittadella infettiva del Forlanini; la resistenza al nazifascismo e le storie di chi è in mezzo alla Storia che tutti travolge. portando allo scoperto la vera grana umana di ognuno. In un senso leggermente spostato rispetto alla lezione di Levi, troviamo tra quanti brulicano nei due teatri fondamentali del romanzo un’alternanza tra sommersi e salvati. È duale anche il senso della parola dono, in questo libro. Sara, rifugiata a Sperlonga quasi ancora bambina grazie ai genitori, Gino e Miriam, che pagano una famiglia del posto per sottrarla al clima di odio razziale abbattutosi sul ghetto di Roma, ha doti quasi di sensitiva, ereditate da nonna Ada. Silvana, che proviene da Val Melaina, quartiere nuovo tirato su da Mussolini per alloggiare i nuovi proletari romani, e spaccato internamente tra Pechino e Shangai, le due neo-realtà suburbane che faziosamente la animano, avrà il suo dono, inatteso e fino a poco prima del tutto improbabile, e sarà un frutto che maturerà su quest’albero lieve e robusto, tenace e tenero. Giusto nella prima parte del romanzo, nel ghetto romano al Portico d’Ottavia, si fa avanti, subito, l’altra faccia dell’amicizia, la delazione – il lato viscido e oscuro dell’animo umano che si desta e prende forza dall’ambiguità dei tempi incerti, sguaiati, violenti, volgari, perfidi, sottili, alimentati da un clima di propaganda che tutti stana e espone al pubblico ludibrio senza rispetto, masticando e risputando la dignità dimessa di chi è additato. C’è un personaggio, che pur senza vilipendio né dileggio verso il colpevole conclamato, racchiude tutto ciò scivolando tra le pieghe dei fatti con tutto l’opportunismo del caso. E non è l’unico. Questo però è anche un romanzo che sa coniugare armoniosamente Palestina ed ebraismo riportando a zero, cioè alle fasi fondanti che avrebbero potuto generare coesistenza e non opposizione, l’intera questione del ritorno dalla diaspora alla Terra Promessa, senza alimentare l’odio etnico peraltro specioso e ingiustificato. Il libro racconta l’attraversamento della Storia da due sponde che corrono parallele quasi mai guardandosi e, pure, sensibili al fiume che le divide e le accompagna, e quasi le trascina per tutto il proprio corso come sorelle connesse da mani tese verso loro due, termini opposti – due tragitti speculari, a volte rischiarati dal mare dal sole dall’aria fine, altre volte avvolte da una nebbia reale e simbolica, che un po’ confonde ma molto nasconde e dà riparo. Perché dopotutto qui incontriamo anche la clandestinità, che può essere esclusione ma può anche offrire rifugio, protezione, senza per questo tagliare fuori da funzioni civili attive: qui viene subito in mente Giusto Fegiz, grande medico, mago del pneumotorace al Forlanini, e subito dopo, a guerra finita e a dopoguerra sfrenato avviato, perplesso rispetto all’uso smodato degli antibiotici – grande dono (eccolo) della Liberazione portata dagli Americani ma poi troppo abusati e a rischio di essere resi inefficaci. Una figura reale, Fegiz, come molte altre, incrociate dagli eroi anonimi del romanzo: tra loro anche gli estensori del Manifesto di Ventotene e Vittorio De Sica che gira Ladri di biciclette a Val Melaina. Capisco anche come l’autrice, che pure conferisce il compito del racconto in prima persona alle due protagoniste, si sia concessa a volte delle sintesi dimostrative fin troppo didascaliche su alcuni passaggi storici o in qualche spiegazione troppo elementare, per esempio sul cinema: forse pensando che, e non le do torto, mentre fino a qualche generazione fa i passaggi e le nozioni in questione erano parte della dotazione culturale, per i molto giovani forse questa eredità non è né così nota e familiare, né così scontata. Buon ultimo il dualismo del cambiamento radicale di Roma, portato non solo dai palazzinari del dopoguerra ma anche da un urbanismo sociale voluto da Mussolini. Fa specie leggere in queste pagine, non certo per la prima volta in assoluto, cosa fossero certe borgate che oggi sono aree di lusso: si pensa spontaneamente alla lettura altra di certi quartieri romani, oggi, dettata, e da tempo, ormai, dallo scriteriato mercato immobiliare. I giorni pari, romanzo che in certi punti può richiamare il bianco e nero del neo-realismo (più quello del colore trattenuto di C’è ancora domani che del cinema di De Sica e Rossellini), è illustrato da una bella foto di copertina che, una volta letto il romanzo, sprigiona vigorosamente tutti i suoi significati.
Daniela Matronola
La recensione su Succedeoggi
“È una storia che voglio diventi dei lettori, che nasca da me e arrivi a loro che la possono fare propria. Se ne impossessino. E dare vita al loro ricordo”.
È stato presentato al Premio Comisso il romanzo I giorni pari di Maria Caterina Prezioso, pubblicato dalla casa editrice Arkadia nel 2024, un libro che mi ha colpito perché, tra le molte storie che raccontano ai nostri giorni gli anni più cupi del Novecento, narra un sottile parallelo di vita tra due ragazze, Sara e Silvana, entrambe costrette a fuggire e a rifugiarsi, l’una perché inseguita dalle leggi razziali, l’altra perché ammalata di tisi. La grande storia e la piccola storia quotidiana di quegli anni terribili (che però portarono a una rinascita la cui forza sembra esaurita) s’incrociano in una vicenda che per molti lettori funzionerà come una “macchina della memoria”, capace di far sorgere anche ricordi nostalgicamente belli tra le pieghe della tragedia collettiva, soprattutto quando il testo si avvia a narrare il periodo della “ricostruzione” collettiva del paese. L’autrice, che collabora regolarmente da qualche anno con il sito di recensioni Satisfiction, non indulge in momenti enfatici, la sua scrittura è piana anche nel trattare i temi più scottanti. E in fondo I giorni pari, che poteva sembrare solo un’evocazione del passato, pubblicato a novembre dello scorso anno, sta facendo il suo percorso proprio mentre infuriano di nuovo le grida e le parole di quella storia, per certi versi mai del tutto passata. Mi ricordo di aver incontrato Maria Caterina Prezioso diversi anni fa nei giardini di Castel Sant’Angelo mentre, in una calda sera dell’estate romana, spacciavo (come faccio spesso del resto) dei corsi di scrittura creativa. Evidentemente la nostra passione per la letteratura, per la lettura e la scrittura non si è ancora placata. Ed è quindi con piacere che le rivolgo le mie ormai tradizionali domande sul suo romanzo.
Maria Caterina, nel tuo I giorni pari hai scelto di raccontare il Novecento nella sua parte più drammatica, come mai?
Grazie Paolo per questa intervista. È importante per me essere nel mondo di “Genius”. Raccontare un periodo particolare, come quello del fascismo, della II guerra mondiale e della rinascita, forse meglio dire della ricostruzione, è stata una scelta ben precisa, nata soprattutto dal desiderio di dare voce alle storie di vita quotidiana sommerse dalla grande Storia. Lo Stato italiano si trovava e si trova ad affrontare un contesto storico complesso. Una Italia, divisa da quelle che sono le scelte governative di allora e di adesso contrapposte a un desiderio del popolo ben diverso da quelle decisioni. Un mondo silenzioso, una Nazione incapace o sopraffatta da quella che potrei definire una “bulimia” di protagonismo che non ha saputo fare i conti con la necessità di una popolazione a sua volta impossibilitata a esprimere appieno il proprio sentimento. Un sentimento che non era e non è desiderio di guerra o di colonizzazione, ma piuttosto la ricerca di una possibile crescita personale e sociale che forse solo le donne hanno saputo davvero interpretare.
Sara e Silvana si ispirano entrambe a due persone reali, oppure Sara è solo frutto della tua immaginazione?
Silvana è sicuro il mio ricordo e Sara la mia immaginazione. Ma sono anche il frutto dei racconti che ho voluto e saputo ascoltare. I racconti che mi sono stati fatti per Silvana li ho elaborati attraverso la necessità di trovare un riscontro continuo nella Storia. Per certi versi con Silvana ho attraversato la Storia attraverso il suo sguardo. Con Sara è stato diverso. La mia immaginazione doveva assolutamente trovare non solo un appoggio nelle storie che mi sono state narrate, ma avere una forza tutta sua. A un certo punto della scrittura non c’era differenza tra immaginazione e memoria. Ognuna delle due protagoniste aveva la sua voce e si confondeva nella storia dell’altra. Ho scoperto che non c’è immaginazione senza memoria e viceversa. Sara di sicuro ne è il frutto.
Da una parte guerra e razzismo, dall’altra una terribile malattia, è la sorte che accomuna le due ragazze?
Le accomuna una “piccola valigia”. Sara rifugiandosi a Sperlonga porta con sé una piccola valigia per non dare nell’occhio… Silvana arriverà al Forlanini con una piccola valigia… per ognuna delle due è un momento di passaggio. Staccate dalla famiglia di origine, attraverseranno la soglia della adolescenza trovandosi adulte e, pur non conoscendosi, una “specchio dell’altra”.
La malattia di Silvana è la tubercolosi, che pare quasi un ricordo del passato, da dove nasce la voglia di raccontarla?
All’epoca la tubercolosi si portò via una intera generazione di giovani. E’ una malattia che ha segnato il Novecento: basta pensare al capolavoro di Thomas Mann, La montagna incantata o, come oggi è stata titolata, La montagna magica. Ma c’è di più, volevo raccontare quello che ha significato ammalarsi in un tempo che esaltava il vigore del corpo e della gioventù. Come ci si poteva sentire. Giovani che se ne sono andati senza che nessuno li ricordi e quanto è stato fatto per combattere la malattia da figure emblematiche come il professore Giusto Fegiz. Volevo dare uno spaccato originale del Forlanini, allora il Sanatorio di Roma. La tubercolosi era, ma è ancora in tante parti del mondo, una malattia che lascia i segni, nasce dalla fame, dalla incapacità di prendersi cura degli altri e soprattutto da quell’oscurantismo che non perdona.
Quali sono i “giorni pari” del titolo?
I giorni pari sono i giorni felici, non nel senso di contentezza, ma della capacità in ognuno di noi di sopravvivere e pensarsi ancora capaci di sognare. I giorni pari per il popolo napoletano sono quelli che aprono al futuro, giorni di buon augurio.
Racconti il 2 giugno del 1946, in una scena che potrebbe richiamare alla mente il film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, ci hai pensato mentre la scrivevi?
No. Le prime stesure nascono, temporalmente, ben prima del film della Cortellesi. Penso che ci sia nell’aria la necessità, una urgenza di raccontare alcuni episodi che hanno avuto un significato ben preciso. Raccontare alle nuove generazioni. Ognuno lo fa a modo suo. Sia Sara che Silvana arrivano a quel 2 giugno del 1946 molto più consapevoli di quanto ci arriva il personaggio della Cortellesi. Piuttosto mi ritrovo nelle parole di Maura Delpero che con il suo film Vermiglio si è aggiudicata quest’anno al Donatello uno dei premi più ambiti, il David per la migliore regia. È la prima donna di sempre ad aggiudicarsi questo riconoscimento… quando nei ringraziamenti dice “volevo raccontare quando la guerra l’avevamo in casa noi …”
A un certo punto scrivi: “Sono state compiute azioni orribili, ma ci sarà sempre qualcuno disposto a fare finta che tutto questo non sia realmente accaduto”, ti pare che sia quello che sta accadendo adesso?
Assolutamente sì. Non voglio semplificare, ma neanche prendere le distanze da un modo di pensare che mi sta a cuore. Posso sbagliare, ma preferisco prendere le cose di petto e farmi dettare la scrittura e il mio vivere più dal cuore che dalle azioni di convenienza. E non posso non vedere quello che sta accadendo e come ancora una volta si fa finta che non sia reale, che non sia così grave. Quello che mi confonde e mi fa arrabbiare è che pensavo che solo chi ha subito tanto potesse capire e invece sta accadendo il contrario. Questa incapacità che genera “morte” mi lascia annichilita. Forse potrei portare ad esempio le parole di Papa Francesco. Ma si ha voglia di ascoltare? Oppure aspettiamo solo il tempo in cui dire … “è possibile che tutto questo sia realmente accaduto”?
Nei “Titoli di coda” del romanzo ci sono tanti personaggi citati, per ognuna delle due protagoniste, in un elenco che mescola i personaggi della narrazione con personaggi storici, come mai?
Perché ho voluto fare un romanzo di personaggi. Mescolando appunto personaggi realmente vissuti e personaggi immaginati. È stato un gioco che sentivo necessario. Penso che non ci poteva essere Leone senza Pietro Ingrao e non ci poteva essere Giusto Fegiz senza Orlando.
C’era qualcosa di significativo che volevi dire ai lettori di questa storia?
Ho voluto dare voce a Sara e Silvana, se ci sono riuscita, sta a chi legge le loro storie giudicare.
Com’è stato accolto il romanzo dai lettori?
È la parte più bella! Cerco di avere un rapporto con la mia scrittura e coloro che leggono il romanzo. È una storia che voglio diventi dei lettori, che nasca da me e arrivi a loro che la possono fare propria. Se ne impossessino. E dare vita al loro ricordo. Una cosa bella che mi è stata detta da una lettrice: “Mi sembrava di ascoltare mio padre raccontare dei tempi della guerra a Sperlonga” ed è allora che mi faccio piccola piccola e sono felice.
Paolo Restuccia
L’intervista su Storygenius
Le donne. Due donne e la loro forza svettano nell’ultimo romanzo di Maria Caterina Prezioso I giorni pari. Sara e Silvana tessono la tela delle proprie vite durante il periodo della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Due donne diverse. Sara è un’ebrea. È una ragazzina costretta a rifugiarsi a Sperlonga per sfuggire alla deportazione che pare già scritta nel suo destino eppure non si arrende, dirige la sua vita per il verso che desidera e insegna la vita anche a suo marito Giuseppe, un marito che si riscatta imparando a leggere e a scrivere e comprendendo grazie a lei i meccanismi che governano l’esistenza umana, anche se il cuore di Sara appartiene a un altro uomo. Sara che diventerà mamma e donna. Silvana è una ragazza ricoverata al sanatorio di Roma. La freddezza dell’ambiente familiare si fonde con le conseguenze della tubercolosi che la devasta. Eppure anche in quel luogo di dolore, anche in sanatorio, si annida per Silvana l’amore: Orlando. Silvana e Orlando sono due malati che si amano con le fragilità e le paure che la malattia comporta e Orlando è forte, deciso, coraggioso. Salverà l’intero ospedale dal rastrellamento contando su quel coraggio naturale tipico di chi non ha bisogno di sforzarsi per capire quello che è giusto e quello che non lo è. Due vite diverse che sono destinate a fondersi dopo aver condiviso inconsapevolmente i drammi cha la guerra porta con sé, i dolori delle morti ingiuste e delle ingiustizie costanti. Tanto dolore condiviso da lontano senza averne coscienza. Intorno a queste due figure che emergono, ruota il resto del mondo che vive o sopravvive, che cede al dolore o lo affronta con fierezza. Un mondo difficile, pieno di amarezza ma anche di risate. Di poche gioie e di infiniti dolori. Un mondo difficile come è da sempre e come sarà per sempre. Nonostante le brutture storiche che ci vengono raccontate con una scrittura asciutta che rende benissimo l’idea, il messaggio del romanzo ci parla di vittoria, di moralità e di forza in un mondo che appare naturale così come naturale e sano, al netto delle difficoltà, ci appare il passaggio delle due protagoniste da ragazzine immature a donne coraggiose. I sentimenti primeggiano, descritti in modo così impeccabile da far sembrare l’aspetto storico uno sfondo vagamente sbiadito. Gli stati d’animo permeano ogni pagina, catturano il lettore e lo trascinano ora in un mare di dolore, ora tra onde di timida gioia e necessaria tenerezza. L’incontro tra le due protagoniste sarà il fulcro di questa bellissima storia di amore e resistenze.
Flora Fusarelli
La recensione su Rinascitaoggi
Sinossi
Nel cuore di un’Italia lacerata dalla guerra e dalle leggi razziali, due adolescenti, Sara e Silvana, affrontano il proprio destino con coraggio e ostinazione. Un’ebrea costretta alla fuga e una ragazza fragile, reclusa in un sanatorio, si muovono in parallelo tra persecuzioni, malattia, abbandono e desiderio di riscatto. Attraverso le loro storie, “I giorni pari” racconta la Resistenza non solo come lotta armata, ma come gesto quotidiano di umanità, come cura, amore, memoria. Con una scrittura tesa e musicale, Maria Caterina Prezioso dà voce a personaggi indimenticabili e ci ricorda che anche nei tempi più oscuri si può scegliere di restare vivi.
Recensione
Con “I giorni pari”, Maria Caterina Prezioso ci consegna un romanzo che pulsa. Non è solo la storia di due adolescenti, ma un inno alla vita, alla lotta, alla memoria. Ambientato tra la Seconda guerra mondiale e il primo dopoguerra, dal 1940 al 1955, attraversa un’Italia dilaniata dal fascismo e dalle sue conseguenze. Due protagoniste, Sara e Silvana, due voci che si intrecciano in un racconto corale dove la scrittura si fa ritmo, eco, resistenza. Prezioso scava nell’animo umano, riflettendo la durezza del tempo come il battito di una farfalla che non si ferma. Con frasi brevi, ostinate, cariche di senso e musicalità, l’autrice racconta l’esistenza di chi – nonostante tutto – continua a vivere. Sara, giovane ebrea romana, vede crollare il mondo che conosce con l’emanazione delle leggi razziali: «Nel 1938, Mussolini aveva emanato le leggi razziali fasciste e per noi era cambiato tutto. Dall’oggi al domani.» Costretta a separarsi dalla sua famiglia per mettersi in salvo, parte per Sperlonga: «L’8 dicembre del 1940, nel primo pomeriggio, prendemmo il treno che ci portò a Fondi. Una valigia piccola per non dare all’occhio.» La sua esperienza in provincia è tutt’altro che un rifugio: ospitata da quello che diventerà suo marito, Giuseppe, scopre di essere stata oppressa e controllata. I suoceri – mantenuti dai suoi – la sfruttano e la ricattano minacciando di denunciarla come ebrea. Ma Sara non cede. Si fa guida anche per Giuseppe, che da uomo ignorante e meschino inizia un lento percorso di riscatto, grazie all’aiuto della compagna che gli insegna a leggere, scrivere, e a trovare dignità. Sara rappresenta un’etica della verità e della dignità, la forza di scegliere anche quando fa male. E nel cuore della sua storia, la figura intensa e tragica di Leone: l’amore giovanile che torna solo per ripartire. «Me ne vado, Sara. Ho conosciuto persone che la pensano come te. […] Libereremo l’Italia a costo della vita.» Con queste parole Leone si separa per sempre. Sara scoprirà poco dopo di essere incinta: il figlio è il futuro che nasce da una scelta consapevole, non da una fuga. Silvana, l’altra protagonista, si muove tra la freddezza glaciale della madre Caterina e la malattia che la consuma. La tubercolosi è per lei una condizione fisica e simbolica: una fragilità che dà corpo a un dolore emotivo. Ricoverata al Forlanini, incontra Orlando, un ragazzo che – come lei – è ai margini ma vivo, sorprendente, sincero. La loro storia d’amore è dolce, imperfetta, piena di attese e desideri semplici. Orlando la ama con pazienza e senza promesse grandiose. «Vorrei vivere con te e quindi presuppongo che occorra sposarsi.» La spontaneità disarmante di questa frase racchiude il cuore del personaggio: malato, impulsivo, ironico, visionario, ma capace di proteggere. Orlando incarna anche una forma di resistenza alternativa: non armata, ma umana, poetica. In una delle pagine più intense del romanzo, salva l’intero ospedale da un possibile rastrellamento. Il suo gesto impulsivo – prendere una pistola e affrontare il pericolo – non nasce da una strategia militare, ma da un istinto etico, radicale. «Orlando ci aveva salvato. Tutto l’ospedale era salvo.» Accanto a lui, la figura del professor Fegiz, pneumologo ebreo, è un ritratto dolente della fragilità intellettuale: uomo razionale, non eroe, ma testimone. Trema, ride, si commuove. E infine lascia che i ragazzi vadano a vedere Roma liberata. La sua paura non lo squalifica, lo umanizza. Il parallelismo tra Sara e Silvana si fa simbolico: entrambe partono con una piccola valigia. Non importa se la meta è Sperlonga o il Forlanini, ciò che conta è che partono per salvarsi. È il rito di passaggio che le trasforma. Ed è nel loro incontro che il romanzo tocca uno dei suoi vertici. «Continuavamo semplicemente a guardarci… uno specchio l’una dell’altra.» La frase è una cesura. Le due donne si riconoscono, si riflettono, si comprendono senza bisogno di parole. Sara si prende cura di Silvana, alzandosi presto per lei. Silvana le restituisce attenzione e affetto, riconoscendone la forza: «Gentile è un bambino speciale. E lei una donna particolare.» Nel loro silenzio si nasconde una sorellanza, una comprensione reciproca fatta di ferite e piccole gioie. La domanda «Riesce a capirmi? A leggermi?» è rivolta anche al lettore: siamo in grado di comprendere davvero chi abbiamo di fronte? Il romanzo si chiude con una tenerezza matura. Silvana vive un momento di sospensione, e chiede al dottor Fegiz: «Posso permettermi questo dono?» La domanda è profonda: si può davvero permettere la felicità dopo tanta sofferenza? E poi c’è Gentile, il figlio di Sara. Non è solo un nome, è un’eredità spirituale. Nato da una volontà ostinata, è figlio della giustizia, dell’amore che non si arrende. È il simbolo di ciò che resta, di ciò che fiorisce dopo il disastro. «Io resto, io cresco, io amo.» Gentile è un altare di senso, un bambino forte non perché ignaro del dolore, ma perché nato da esso. In lui si riflette tutto il romanzo: memoria e futuro, dolore e possibilità. La sua esistenza è un atto di riparazione, una carezza a ciò che è stato negato, dimenticato, distrutto. In ogni gesto tra lui e Sara – uno sguardo, una carezza – c’è un modo nuovo di essere madre, non protettiva ma complice. Gentile è la risposta alla violenza: esserci, ancora. “I giorni pari” è un romanzo necessario. Brucia sotto la pelle, attraversa il cuore e lascia un segno. Maria Caterina Prezioso intreccia sapientemente storie individuali e vicende collettive, con una scrittura asciutta ma poetica, semplice e profonda. Ogni scelta personale diventa atto politico, ogni sopravvivenza una forma di resistenza. In questo romanzo, la memoria non è solo peso: è forza.
Francesca Mezzadri
La recensione su Satisfiction
Recensione del romanzo I giorni pari di Maria Caterina Prezioso, Arkadia Editore
Il romanzo di Maria Caterina Prezioso I giorni pari, edito da Arkadia Editore, colpisce già dalla copertina. Quella bambina, fotografata nel suo gioco del non-vedo non-sento, racconta molto delle due protagoniste del romanzo. Perché Sara e Silvana sono una lo specchio dell’altra. Le loro storie sono ambientate nei quindici anni che hanno visto l’Italia impegnata prima in una guerra sfiancante, come la II Guerra Mondiale, poi nella successiva ricostruzione. Le loro storie corrono parallele per incontrarsi solo qualche anno dopo nelle pagine finali del libro. Sara è una ragazzina ebrea scampata alla Shoà. Troverà rifugio nel piccolo borgo di Sperlonga, dove i genitori la manderanno spacciandola per parente della famiglia che la ospiterà. Silvana, invece, è una ragazzina di Val Melaina, una borgata di Roma, immersa in una giovinezza delicata e povera che la porterà al Forlanini, il Sanatorio di Roma, luogo in cui tenterà di sopravvivere alla tubercolosi e di diventare una donna. Attraverso le voci di Sara e Silvana conosceremo gli altri personaggi, alcuni realmente esistiti altri di fantasia, le rispettive famiglie, le avventure di una stagione, la giovinezza vissuta nel periodo della guerra e gli accadimenti del periodo successivo. I protagonisti del libro I giorni pari sono soprattutto donne, coloro che in epoca fascista sono state costantemente escluse e umiliate, ridotte all’unica dimensione di madre e angelo del focolare. Come al cinema, al termine del romanzo, scorreranno i titoli di coda che racconteranno quale sia stato il destino di ciascuno dei protagonisti, quelli che ce l’hanno fatta e quelli che si sono arresi. Dalle loro voci ascolteremo uno spaccato di quegli anni, di un’intera stagione che, per quanto si voglia provare a dimenticare, ritorna spesso con un’attualità sconcertante. Il tema di fondo di tutto il libro è quello della resilienza, la capacità di assorbire urti, anche i più feroci, senza romperci. Lo stile di Maria Caterina Prezioso è diretto e semplice allo stesso tempo. Molto raffinato nei dialoghi. L’autrice del romanzo I giorni pari riesce a realizzare un’attenta ricostruzione delle fonti dell’epoca, dando vita con questo libro a una forma di impegno civile in cui si rende testimonianza di anni in cui spesso la parola donna non faceva mai coppia con dignità. Le vite delle due protagoniste sono raccontate dall’interno, dall’intimità delle loro stanze, da quegli spazi da cui entrambe saranno costrette ad allontanarsi per motivi diversi. Ciò che accomuna Sara e Silvana è la caparbietà nel resistere, perché entrambe sono due sopravvissute, sono le voce di tutte quelle donne che non hanno accettato di scendere a compromessi con il regime, sono la testimonianza di chi è riuscito a non farsi irretire.
Nata a Roma nel 1961, Maria Caterina Prezioso ha pubblicato una raccolta poetica intitolata Nelle rughe del muro (Ibiskos, 1991). Per il teatro ha scritto La risposta di Leonardo (con Giuliana Majocchi, Il Segnale, 1996), messa in scena per la regia di Sergio de Sandro Salvati dalla Compagnia della Medusa (Teatro Oda di Foggia e Teatro Verga di Milano, premio migliore spettacolo) e La stanza. La festa dei Tuareg (Titivillus, 2004). Ha poi pubblicato i romanzi Il gioco n. 33 (Il Ventaglio, 1993), Il colpo (Pequod edizioni, 2008), Cronache binarie (Enzo Delfino Editore, 2011), Blu cavolfiore (Golena, 2013), La ballata dei giorni della pioggia (Kogoi Edizioni, 2016). Nel 2018 esce Pina & Max (Edizioni Leucotea, 2018), scritto insieme a Giuliana Majocch. Alcuni suoi racconti e novelle sono stati pubblicati in diverse riviste di letteratura (“Storie”, “Omero”, “In-Edito”, “TutteStorie”, “EllinSelae”). Collabora con la rivista “Satisfiction”. I giorni pari è il suo primo romanzo per Arkadia Editore.
Marco Bennici
La recensione su Gli Stati Generali
I giorni pari di Maria Caterina Prezioso, Arkadia
Un racconto, che come spesso oggi fa accadere chi scrive, intreccia la realtà e la fantasia, e lo fa bene, con attenzione per i dettagli, quelli della nostra storia italiana. Tra la scalata e la caduta del fascismo, due donne, le loro famiglie: Sara ebrea, Silvana malata di tubercolosi. I fatti – che oggi assumono impressionante attualità alla luce della rilettura, spesso impietosamente banalizzante se non addirittura irrispettosa, dei drammi che molti cittadini del nostro paese hanno vissuto sulla propria pelle – sono visti e narrati internamente al contesto famigliare, con un taglio intimo che mi ha ricordato le opere di Natalia Ginzburg, dove, da dentro le stanze della vita quotidiana, assistiamo all’invadenza della storia nella traccia della vita. La lingua scelta è adatta ai contesti, l’uno medio-borghese l’altro popolare, in cui le due protagoniste si trovano ad agire, e qualche volta suona volutamente retrò con l’esplosione un po’ drammatica dei sentimenti, giovani e indomiti, di caratteri che si trovano del resto calati in un periodo di continui sconvolgimenti.
Sara è figlia di un farmacista ebreo “ingentilitosi” per non perdere tutto, all’uscita delle leggi raziali; un “gentile” è infatti una persona che si è fatta “arianizzare”, rinunciando al proprio culto. Una legge del Ministero degli Interni introdotta nel ’39 e usata in modo assai discutibile, tanto da poter essere accessibile solo a chi se la potesse “economicamente” permettere, consentiva di tornare a “vivere”, nel tessuto sociale dal quale i non ariani si vedevano esclusi. Tuttavia, gli altri membri della famiglia restavano “ebrei” e quindi, dovevano vivere in un cono d’ombra, che impedisse alla società di “accorgersi” di loro. Per questo Sara viene mandata via da Roma, è costretta ad abbandonare l’abitazione borghese dei genitori allo scoppio della guerra, e viene “accolta” da una famiglia di Sperlonga, pagata per spacciarla per una parente. Sarà la svolta del destino che cambierà tutta la sua vita, ma che non sopirà il suo senso di ricerca della giustizia. L’incontro con gli ideali dei partigiani, con gli intellettuali del “Manifesto di Ventotene”, la porterà a fare scelte che devieranno da quelle di una vita al “riparo” dal male, scelta dai i genitori, in buona fede, per lei. Silvana è figlia della borgata romana, delle case popolari dove il duce aveva trasferito il più indigente proletariato romano. Da suo padre, invalido della Prima Guerra Mondiale, ha avuto un’unica e sfortunata eredità: la tubercolosi. Sarà la malattia ad allontanare anche lei dal contesto famigliare, per entrare, giovanissima, al sanatorio Forlanini, dove il professor Fegiz (personaggio reale), luminare ebreo “imboscato” nel perimetro ospedaliero perché troppo bravo e utile alla medicina, la curerà, insieme alla popolazione di sfortunati che abitano una realtà drammaticamente parallela ai fatti della storia, quella della malattia. La sua vita sarà plasmata dal rapporto con il grande luminare che l’ha in cura, capace di apprezzare l’intelligenza emotiva della ragazza, la sua apertura verso la vita, la capacità di prendere in mano il destino, nonostante tutto. Le due protagoniste vivono, ciascuna per sé, una vita calata nel reale panorama dell’epoca più cupa dell’Italia, ed è scorrevole e appassionate il disegno finzionale che Maria Caterina Prezioso traccia, ponendole in parallelo, su binari che, solo leggendo il bel romanzo, sapremo se e come si toccano.
Anna Bertini
La recensione su Letteralmentelive