“Leuta” su l’EstroVerso
#1Libroin5W.: Mario Falcone, Leuta, Arkadia Editore.
Chi?
Il romanzo ruota attorno alla vita e alle vicende di Enrico Criaco, 68 anni, uno scrittore di successo. Dopo aver lasciato Roma, Enrico torna a Leuta la piccola isola (immaginaria) situata tra Malta e Lampedusa, che gli ha dato i natali dopo cinquant’anni. Vi torna per trascorrere ciò che resta della sua vita ma anche per fare i conti con il proprio passato. Altri personaggi di rilievo nella storia sono: il giovane sacerdote don Alberto; Nicole, Gregorio il fratello di Enrico, Venerina la “Mahara”, Melania, l’ex moglie di Enrico e il conte Raniero Espinosa, detto “L’uomo del telefono”.
Cosa?
Il tema principale del romanzo è l’imprevedibilità della vita, seguito a ruota dalla colpa, dalla redenzione, dalla riscoperta dell’amore e dalla ricerca della spiritualità. Sono temi che prendono vita nel momento stesso in cui Enrico rimette piede nell’isola di Leuta. Enrico è un uomo disilluso dalla vita, impermeabile al successo che ha come scrittore e desideroso di far pace con sé stesso e con Dio a cui ha sempre addebitato tutto ciò che nella vita gli ha creato un dolore che non riesce a capire, accettare e superare.
Quando?
Il romanzo nasce in pieno periodo pandemico come antidoto spirituale alle restrizioni imposte da una situazione nuova e non prevista. Pur essendo una storia di pura finzione, vengo tirato ben presto dentro, con un grado di coinvolgimento emotivo mai provato in precedenza, che mi regala la possibilità di scoprire parti di me che ancora non conoscevo. Aneddoti particolari non ve ne sono ma posso svelare che per alcuni dei personaggi che vivono tra le pagine del romanzo mi sono ispirato a uomini e donne che ho conosciuto e frequentato per brevi o lunghi periodi.
Dove?
L’idea di scrivere questo romanzo nasce da una serie di sollecitazioni esterne frutto dei miei incontri con una psicoterapeuta che ho visto settimanalmente nel primo anno del mio ritorno a Messina, dopo aver vissuto quarantadue anni a Roma. Le difficoltà di inserimento e di connessione con la nuova realtà paradossalmente hanno rappresentato il propellente creativo che mi ha consentito di superare e metabolizzare il trauma del cambiamento e accettare la nuova sfida a cui la vita mi stava sottoponendo. Il testo è cresciuto spontaneamente; sono uno scrittore e un narratore di lungo corso, nel momento in cui avevo deciso di scrivere questa storia e approntato lo schema base della stessa, il resto è venuto da solo com’era naturale che fosse.
Perché?
È il romanzo della maturità, che mi ha consentito di squadernare le mie paure e mie fragilità, magistralmente incarnate nella figura complessa e sfaccettata di Enrico Criaco, il personaggio, l’alter ego, che mi ha accompagnato in questo esaltante viaggio, facendomi scoprire l’isola immaginaria, che alberga in ognuno di noi. Il romanzo, spesso crudo, affonda la lama nei sentimenti più reconditi per raccontare, dal mio modesto punto di vista, quanto la vita quando vuole sia in grado di mutare volto e aspetto, chiedendoti una risposta finalizzata solo alla tua crescita e alla comprensione di quel mistero che giornalmente ci troviamo tra le mani ma che, spesso, non sappiamo decifrare e comprendere.
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A quel tempo Venerina era una quarantenne con capelli nero pece e occhi di fuoco. Era soprannominata “la Lupa”, sia per la sua prorompente bellezza, sia per la sua condotta trasgressiva. Le voci sul suo con to dicevano che la donna, figlia e nipote di altrettanto famose mahare, per pagare un debito di famiglia, fosse stata obbligata a sposare un uomo che avrebbe potuto esserle padre ma, sin dal giorno dopo le nozze, il poveretto fu costretto a subire le esuberanze della giovane e scalpitante consorte che prese a concedersi sessualmente a tutti gli uomini in grado di stimolare la fame d’amore che la assaliva all’improvviso e nelle occasioni più disparate, proprio come una lupa affamata. Se un uomo le piaceva, alla Lupa bastava stuzzicarlo con un paio di occhiate più eloquenti di tante parole, quello da predatore si tra 22 sformava subito nella più mansueta delle prede. In tempi passati, se fosse vissuta nell’America puritana del Diciassettesimo secolo, sarebbe andata in giro con la lettera scarlatta cucita sul vestito, ma per paura dei poteri soprannaturali che si sussurrava possedesse fin dalla nascita come malefico lascito della madre, nessuno, nemmeno le donne tradite, cornificate, osò mai dirle nulla, subendo in silenzio l’umiliazione e l’onta del tradimento. Enrico della Lupa aveva sentito parlare più volte in casa, fin da piccolo, ma non la conosceva perché abitava in una zona del paese lontana dal centro, popolata solo da un pugno di case costruite su terrazzamenti coltivati a grano e vite. Di lei si diceva anche che sapesse tagliare le trombe marine e le tempeste che, specie d’inverno, flagellavano il tratto di mare intorno all’isola rendendo difficile la navigazione a barche e pescherecci. Correva anche voce che Venerina avesse insegnato la formula all’a mante ufficiale, un famoso pescatore tal Cateno Restuccia, che vantava un’impressionante rassomiglianza con l’attore americano Paul Newman. Questo potere gli era stato dato in dono affinché ogni volta tornasse sano e salvo tra le braccia, le labbra e il ventre infuocato della sua amante. Se la barca di cui era capitano si trovava ad affrontare una tempesta, Cateno si posizionava a prua recitando la formula magica, avuta in regalo dalla Lupa, e ammansiva quel mostro di vento e acqua come se fosse un cane in procinto di azzannare. Ecco da chi andava Enrico quella mattina. Non sapeva cosa aspettarsi ma la sola possibilità di conoscere in anticipo ciò che la vita aveva in serbo per lui dava forza alle sue gambe e consapevolezza alla sua decisione di affidarsi a una perfetta sconosciuta.
Quando finalmente arrivava l’alba, Enrico ringraziava Dio, perché con l’alba riacquistava la libertà e la capacità di discernimento che l’oscurità della notte gli aveva sottratto. Allora si alzava e cominciava a girare per casa come uno zombie, un apolide, un elemento estraneo all’affresco, mentre Enrico Ruggeri alla radio cantava: «Non mi cerca re, che non mi riconoscerai. Non mi cercare che non mi riconoscerai». In realtà, l’unica cosa di cui era cosciente era quella di dover preparare la moka, metterla sul fuoco e farsi un caffè al fine di riacquisire sembianze umane. Era stravolto; l’ennesima notte passata in bianco lo restituiva al giorno come un boccone indigesto, rimasticato e poi sputato. E nonostante in quelle ore di veglia forzata avesse passato in rassegna decine e decine di immagini di ciò che era stato, degli errori compiuti, dei pochi successi raggiunti, dell’odio che l’aveva lambito e dei tanti dolori che era stato costretto ad affrontare, l’unico lascito di quelle ore avvelenate era quel momento sublime in cui guardandosi allo specchio si rendeva conto di essere ancora vivo. Ammaccato, escoriato, ansimante, eppure maledettamente vivo,
Enrico entrò in casa, si guardò intorno: il tempo sembrava essersi fermato, qualche mobile era stato portato via ma c’era ancora il letto e, sopra il letto, il ritratto di una Madonna con bambino. Tornò all’ingresso e osservò la strada da una delle finestre, scostò la tendina e fuori lì di fronte a lui c’era Nicole. Stava facendo delle foto: si girò, con una mano gli fece segno di non muoversi e scattò. Sorrise. Enrico si staccò dalla finestra e si avvicinò all’uscio della camera da letto. In quel momento avvertì alle spalle la sua presenza. Nicole gli cinse teneramente la vita con le braccia. Il viso appoggiato alla sua spalla destra. Enrico si girò: le loro labbra erano a pochi millimetri. Si baciarono ancora e a lungo, poi lui la sollevò e la adagiò sulla sponda del letto. Lei appoggiò la macchina fotografica su una sedia e alzò le braccia gettando la testa all’indietro. «Sono qui per te», sussurrò. Enrico la spogliò lentamente, Nicole lo lasciò fare e in una manciata di secondi lui la liberò da tutti gli indumenti. Ora Nicole era nuda. Si distese sul letto, mentre Enrico s’inginocchiò a terra e appoggiò la testa sul suo basso ventre. Lanciò un lungo sospiro e venne premiato da un senso di pace mai assaporato in tutta la sua vita. Lei gli accarezzò i capelli e sussurrò: «Non so come si faccia, ma proviamo.» «A fare cosa?», chiese Enrico con la voce rotta dal pianto cercando i suoi occhi. «A trasformare in gioia il dolore.»
Mario Falcone. Scrittore e sceneggiatore, nato a Messina, dopo una lunga parentesi romana, da qualche anno è tornato a vivere in Sicilia. Per oltre vent’anni è stato uno degli sceneggiatori più noti in Italia firmando alcune tra le più importanti pagine della fiction televisiva, che gli hanno consentito di ricevere importanti riconoscimenti in Italia e all’estero. Ha esordito nella narrativa nel 2008 con il romanzo L’alba nera (Fazi Editore). Poi ha proseguito senza più fermarsi. Per Arkadia Editore ha pubblicato Leuta (2024).
Grazia Calanna
La recensione l’EstroVerso