L’imbattibile lentezza delle tartarughe
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Quando il barbone Renzo si svegliò tra i resti del bivacco, sotto la squallida campata del ponticello che si alzava sul
Terzolle, ci mise un po’ di tempo a ricordare dove si trovava. La città gli parve ancora immersa nel sonno e i suoi
abitanti vagabondare senza una direzione precisa. Si mise in piedi a fatica e percepì le moli dei palazzi, annunciate da
marciapiedi crepati come uno stuolo di servitori ingobbiti. Ai suoi piedi sfociavano le condotte fognarie che portavano le scorie nel torrente, ma non riuscivano a nettare la superficie, infettata da un insieme di cartacce scure e insetti. La debole corrente era lasciata allo zigzagare di germani che evitavano le carcasse di frigoriferi e lavastoviglie lanciate dai terrapieni. Ogni tanto un tonfo, gocce d’acqua sudicia bagnavano di notte il barbone Renzo, e lui si rivoltava nei resti delle sue coperte prima di riprendere gli incubi.
Erano le nove e trenta del mattino, il quartiere era smorto, ma in un angolo quasi nascosto da tendoni, semafori a
mezzo servizio e lampioni sonnolenti, la gente conversava. Il bar di Giovanna brillava come se fosse uscito da una
fiammella, anch’esso fulgido come il lume da cui era miracolosamente sortito, e la saletta centrale era già gremita,
una decina di tavoli. In uno di questi si erano accomodate due pensionate e il barbone Renzo, dal suo giaciglio di cartone, ne intravide una terza entrar con una carrozzina per neonati, ma non poté udire l’urlo che si levò all’interno;
uno strillo d’ammirazione per la piccina che fece balzare dalla sedia Davide Risatti, un disoccupato che viveva a pochi passi dal bar, sulla scia dei muriccioli che precipitano su piazza Puccini. Se ne stava solingo, curvo sul cosiddetto
“tavolo della stampa”, un ripiano di legno dove la proprietaria del bar posava giornali, riviste settimanali e mensili, rimasugli d’ambizioni studentesche, quando Giovanna avrebbe voluto ribellarsi alla tradizione di famiglia e diventare una reporter internazionale.
Davide Risatti arrivava ogni giorno alla stessa ora, perché era un disoccupato metodico. Lo era diventato per dissimulare la mancanza di un impiego, la disorientata anarchia oraria che talvolta ne consegue, ma anche per via di un’innata pigrizia che gl’impediva di cambiare abitudini una volta prese. Ordinava sempre un cappuccino e un bignè alla crema, di modo che Giovanna li aveva già pronti quando lui varcava la soglia, e Davide restava con lo sguardo fisso sulla colazione, come se contenesse un risarcimento alle sue mestizie.