La legge di donna Matilde
22 dicembre 1957
«Ci vuole un’aspichinina», gridò nel silenzio della notte donna Matilde, con la voce acuta che squarciava la quiete. Antonio Truddesu, profondamente immerso nel sonno, si rigirò su un fianco, borbottando parole incomprensibili. Le invocazioni della moglie sembravano giungere da un altro mondo, un mondo da cui lui era escluso, lontano.
«Devi svegliare il dottor Derisu», insistette, questa volta scuotendolo con più energia.
Il vicesindaco, sentendosi strattonato senza tregua, iniziò a muoversi in modo goffo e disorientato, per poi spalancare gli occhi, ancora smarrito tra sogno e realtà. Con un gesto automatico, accese la lampadina sul comodino, e tra luci sfocate e pensieri confusi, riuscì a scorgere la moglie con il naso rosso e una cascata di starnuti che minacciava di esplodere. Prima che potesse proferire una parola – ammesso sapesse cosa dire – Matilde gli indicò con un gesto perentorio la sedia dove giacevano i suoi pantaloni, la camicia e il maglione, abbandonati lì come soldati in attesa di essere richiamati in servizio. «Forza, vestiti e vai da Massimino Derisu!», gli ordinò, e in quel tono non c’era alcuno spazio per obiezioni o ritardi. Il vicesindaco non ebbe altra scelta che obbedire, anche se con lo spirito di chi è stato appena tirato fuori da un letto caldo e spinto senza pietà nel freddo e umido inverno di Roccabuiedda. Ma mentre si infilava i pantaloni, Antonio non poté fare a meno di pensare che forse, solo forse, la vera aspichinina serviva a lui, e non per il malanno di Matilde, ma per sopravvivere a quell’uragano coniugale.