“L’imbattibile lentezza delle tartarughe” su Nazione Indiana
L’imbattibile lentezza delle tartarughe
Simone Paglietti intervista Alessandro Gianetti
Simone Paglietti: Toglimi una curiosità. Perché hai scritto una storia ambientata in Italia, pur risiedendo fuori?
Alessandro Gianetti: Devi sapere, caro Simone, ma tu già lo immagini perché vivi all’estero come me, che io l’Italia, Firenze in particolare che è la mia città, l’ho lasciata e non l’ho lasciata. Chi se ne va mantiene una sentinella, un avamposto nel luogo che finge di abbandonare; nel mio caso è un soldatino che mi fa dei rapporti molto dettagliati su tutto ciò che succede, ma il più delle volte sogna o se li inventa, e così son costretto a verificare coi miei occhi se quel che racconta è vero o no. Questo romanzo è una storia che potrebbe essere accaduta nel quartiere di Rifredi, a nord-ovest di Palazzo Vecchio, una decina d’anni fa o l’altro ieri; che sia accaduta o meno non ha importanza, la mia sentinella me l’ha riferita e io, dopo alcuni sopralluoghi, l’ho raccontata.
SP: Già, ma cosa succede in questa vicenda dal nome un po’ selvatico e un po’ filosofico, “L’imbattibile lentezza delle tartarughe”?
AG: Mi verrebbe da risponderti: chiedilo al libro! Tuttavia, non posso cavarmela così; mi vedo costretto a dischiudere il volume che troverai in libreria (sempre che lo trovi, escono moltissimi libri e non sempre ci si orienta). Come avrai visto, in copertina c’è una strada solcata dalle luci delle automobili, fermate da una fotografia con un tempo d’esposizione assai lungo. Le scie trasmettono l’idea di movimento rapido, ma c’è un trucco: è stato il fotografo a creare quell’effetto. Trucco o non trucco, le striature segnano il contrasto con la lentezza delle tartarughe, e rendono il divario tra noi, uomini e donne del XXI secolo, e la vita degli animali. Sai meglio di me che gli animali conservano un’antica saggezza, impermeabile ai cambiamenti, alle rivoluzioni e al concetto stesso di progresso. Sin da quando ero piccolo pensavo che osservare un cerbiatto nel 1980 doveva essere la stessa cosa che osservarlo nel V secolo a.C.. Il cerbiatto non è cambiato da allora, è cambiato il nostro sguardo.
SP: Perché questa geremiade sul cerbiatto e sullo sguardo?
AG: Per attirare la tua attenzione sul fatto che i cerbiatti son sempre gli stessi, siamo noi che abbiamo cambiato il nostro punto di vista su di loro. È naturale, dunque, che il protagonista di questo romanzo veda trasformarsi il mondo attorno a sé nel momento in cui cambia il proprio punto di vista sulla realtà. Non legge più i giornali, perché da quando è disoccupato entra più tardi nel bar dove fa colazione, e i quotidiani son tutti stropicciati, macchiati di caffè. Per un inspiegabile desiderio di purezza, il protagonista è indotto ad aprire un opuscolo che nessuno ha ancora letto, e ci trova argomenti del tutto diversi da quelli di prima.
SP: Non sarà mica un romanzo sulla lettura?
AG: Ti risponderei di sì, ma con riserva. È un romanzo sulla lettura se si intende lettura del mondo; ricerca d’una verità. Oggi, diceva Manlio Sgalambro, il filosofo che scriveva canzoni insieme a Franco Battiato, l’uomo occidentale è incapace d’agire perché non crede più nella trasformazione del proprio ambiente. Siamo sempre più relativisti, e questo è un antidoto ai dogmatismi del passato, ma anche vulnerabili alle verità che ci arrivano già belle che confezionare dai mezzi d’informazione. Il romanzo si cala nelle insicurezze d’un personaggio che cambia idea attraverso la lettura e innesca il confronto con un suo ex-collega, che interpreta invece le cose come si faceva nella «fase storica precedente». Il suo amico-rivale, Ferriano Airaldi, è un sindacalista, figura a rischio d’estinzione.
SP: È un romanzo politico, allora?
AG: Non è un romanzo politico se stai pensando a una ricognizione nelle viscere di quel potere che sembra oggi ancor più inscalfibile che in passato; si tratta invece di un romanzo politico nel senso di polis, di comunità. M’interessava ficcare il naso nel rapporto tra normalità e visione del mondo; nel sospetto che quella che definiamo «normalità» abbia per condizione una certa dose d’inserimento e soddisfazione delle aspettative personali che uno si crea. Cosa potrebbe accadere a un individuo che perde fiducia nella società in cui vive e comincia a sospettarne, a scardinarla, a costruirne una propria visione alternativa – solo in parte malata, certo egoistica e un pò disperata – che considera la più sensata e logica? Il protagonista è un combattente un po’ rocambolesco, un Don Chisciotte se preferisce chiamarlo così.
SP: Perché nel libro parli del reddito di cittadinanza, cosa rappresenta per te?
AG: Capita anche alla letteratura di starsene a lavorare a maglia davanti al caminetto, come una vecchia comare che s’accorge della guerra solo quando i soldati le distruggono il giardino per farci una postazione di tiro. Avevo l’impressione che l’introduzione del reddito di cittadinanza fosse una di quelle rivoluzioni che andassero esaminate. Certo, poi il suo impatto è stato relativo, la messa in pratica assai meno coraggiosa dell’idea che l’aveva ispirata, ma questo accade a tutte le idee. Quando iniziai a scrivere L’imbattibile lentezza delle tartarughe la fase attuativa era ancora lontana, si discuteva del principio e mi pareva uno di quelli destinati a segnare uno spartiacque. Che lo Stato sia disposto a farsi carico della rovina d’una persona è un dato importante, e l’Italia ha dimostrato di non essere ancora pronta. Il dibattito sul lavoro, per giunta, si è progressivamente appiattito: più che un diritto è una fortuna, quando capita.
SP: E poi c’è la tartaruga…
AG: Sì, la tartaruga è un animale particolare, lento e longevo. Rappresenta l’inevitabilità, la costanza, la rassegnazione se vuole, che a un certo punto l’uomo introietta o che subisce; un promemoria che spesso ignoriamo, come se la natura non dettasse già le sue regole, ma fossimo noi a volerle dettare a lei, che ci governa. C’è un quadro che mi colpì quando lo vidi: Paesaggio con Caduta di Icaro, di Pieter Bruegel il Vecchio. Il punto di vista sulla morte di Icaro, che si avvicina troppo al sole e brucia le ali con cui suo padre Dedalo voleva aiutarlo a fuggire dal labirinto, è distorta. Icaro affoga in un angolo del quadro, in basso, mentre il paesaggio è dominato dall’indifferente lavoro di un agricoltore e d’un pastore che pascola le sue pecore. Il pastore volge lo sguardo in alto, come se avesse sentito un grido d’allarme, ma guarda nella direzione sbagliata, e tutto continua a scorrere come se niente fosse accaduto.
SP: Qual è il ruolo dei mezzi d’informazione, in tutto questo?
AG: Mi sembra che ci sia un’allarmante incomprensione di quella che circola fuori dai canali per così dire «ufficiali»: la si sottovaluta o la si mitizza, ma non la si comprende. Il protagonista, da un certo punto in avanti, è una barca senza ormeggi che naviga alla cieca. Credo che la sua crisi rispecchi quella dell’insieme di istituzioni, organismi di tutela, rappresentanza e pubblica opinione, dello Stato per come lo concepiamo in questa parte di mondo. I mezzi d’informazione sono uno specchio della modernità e io volevo renderne l’insufficienza e, a malincuore, l’inettitudine. Per questo la tartaruga è imbattibile, perché non ha bisogno di opinioni o dibattiti, le basta il codice genetico.
SP: Un’ultima domanda, poi ti lascio andare. Anche tu hai dovuto cambiare punto di vista sulle cose, come il protagonista del romanzo?
AG: Hai colto nel segno. Volevo restituire l’atmosfera crepuscolare del quartiere in cui sono nato e ho vissuto fino ai diciott’anni, dove passano il Terzolle e il Mugnone, di cui parla Vasco Pratolini in Cronache di poveri amanti. L’aggettivo «crepuscolare» lo imparai dopo essermene andato; quando ci vivevo avvertivo soltanto una mancanza d’energia vitale che m’impediva d’immaginare la vita all’interno dei suoi confini. Col tempo poi ho capito che era simile a tanti quartieri di città medie e grandi sparse per il mondo, ma non avrei potuto comprenderlo senza uscirne, guardarlo di lontano. La capacità d’osservare si acquisisce con la distanza, come se le cose da vicino fossero troppo ingombranti, e in fondo il protagonista cerca solo una giusta distanza dalle cose. Da lontano anch’io ho imparato a guardare Firenze con gli occhi di chi la ammira, e mi sono abituato alle espressioni di meraviglia. È nato a Firenze, la città del Davide di Michelangelo! Sì, rispondo io, ma la mia città non ha molto a che vedere con quella che conosce lei. Firenze è una dama dai modi coltivati e animo campagnolo di cui s’innamorano in molti, ma i suoi problemi non li confida a nessuno e in segreto cerca confidenti. Spero che il paradosso di Zenone l’aiuti a trovarli.
Simone Paglietti
L’intervista su Nazione Indiana